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100 anni dopo. Ascesa e crisi del movimento comunista internazionale nel ‘900

A 100 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ci sembra utile accompagnare il ricordo per la prima e straordinaria vittoria duratura  della Rivoluzione con una riflessione che non si nasconde quel che è accaduto dopo. Ma che, al tempo stesso, non cade nel vecchio vizio di andare a “trovare l’errore decisivo” nel comportamento di Tizio o Caio o addirittura – come fanno i pentiti di ogni epoca – nell’idea stessa di Rivoluzione. Viene tracciata un’ipotesi di ricerca storiografica, certamente complessa ma almeno all’altezza dell’oggetto.

A voi l’intervento elaborato da Francesco Piccioni per il convegno  ‘Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere’, a dicembre 2016.

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Idee per un programma di ricerca

Se si guarda alla storia del movimento comunista, oggi, l’impressione è spesso quella di trovarsi davanti a un deserto di macerie. In cui vagano alcuni fantasmi che, se si incontrano, si mandano a quel paese…

Dopo un secolo, bisogna però essere ambiziosi o rassegnarsi a scomparire. Sarebbe un peccato, perché solo ora il modo di produzione capitalistico funziona esattamente come lo aveva ricostruito Marx.

Perciò bisogna assumere su di sé, per quanto poco si sia adeguati allo scopo, il compito di fare il punto nella storia del movimento comunista internazionale e determinare le coordinate del possibile sviluppo.

La dico alla Mao Zedong: non si può fare più nemmeno un passo in avanti se tagliamo il piede per farlo entrare nella scarpa. Tradotto: saremo anche un piccolo insieme di sfigati e nostalgici, ma bisogna darsi il compito di pensare in grande. E agire di conseguenza. Naturalmente, pensare in grande è il contrario della supponenza boriosa. Significa misurarsi con compiti giganteschi, senza alcun provincialismo nella testa, sapendo in ogni istante che siamo troppo piccoli per “mettere le mutande al mondo”. Ma fare il contrario, ossia adattare la dimensione dei compiti alla nostra piccolezza non serve a nessuno, neanche a noi.

Per questo, qui, non si propone un lavoro conclusivo, ma un programma di ricerca. Uno sforzo come quello che bisogna fare richiede infatti un intellettuale collettivo – a livello internazionale, va da sé – che punti a superare il punto di crisi del movimento comunista.

Premesse metodologiche

1 Dobbiamo inquadrare i problemi, non le facce. Gli incagli e le disfatte, così come le vittorie, sono eventi che superano infinitamente qualsiasi capacità individuale, anche geniale. Le facce passano, i processi storici sono molto più lunghi e duraturi. A volte questi si ripresentano, in forme trasformate; la facce mai. Per questo sarebbe necessario fare una storia senza nomi. Luoghi, date e problemi bastano e avanzano per capire, senza farsi distrarre da personalismi fuori stagione.

2 La Storia non si fa con i se Nel ricercare l’origine della crisi del movimento comunista – crisi globale, nessuna esperienza ne è esente, con le ovvie e abissali differenze tra la lenta caduta dell’Urss e la resistenza di Cuba – è facile cadere in due errori speculari e speculativi:

a) addebitare ad un errore teorico della soggettività rivoluzionaria, in uno qualsiasi degli snodi fondamentali che il movimento comunista ha dovuto affrontare, dividendosi, la “colpa” di aver preso una strada rivelatasi sbagliata;

b) arrovellarsi su cosa sarebbe successo “invece se” fosse stata seguita una strada diversa, introvertendo così la relazione causa-effetto e ogni altro aspetto dell’attività rivoluzionaria.

3 La Storia va come va. Non esiste alcun determinismo storico-politico che decide a priori se un tentativo rivoluzionario ha possibilità di riuscita o meno. Tutto – marxianamente – dipende da condizioni date, livelli di sviluppo (economico, industriale, culturale, ecc), rapporti di forza sociali e capacità della soggettività. Si è vinto là dove era considerato impossibile, si è perso spesso pur avendo ragione sul piano teorico e nella capacità di rappresentare e organizzare la classe. Siamo una parte in un conflitto; non tutto dipende da noi, non tutto è nelle disponibilità del nemico. Alla fin fine, nei momenti di conflitto che decidono le svolte storiche, ci si batte e poi si vede. Si è costretti dalle circostanze a mettere in campo la forza costruita nelle fasi precedenti e ci si gioca tutto, o quasi. Com’è risaputo, la nottola di Minerva vola solo al tramonto…

4 La dialettica materialista non è una griglia d’acciaio da imporre alla realtà; la dialettica è automovimento del reale e va riconosciuta nella evoluzione del reale stesso. La comprensione del reale dipende insomma dal nostro sforzo di riconoscimento (tenendo presenti le categorie), non dall’applicazione più o meno esatta delle categorie teoriche. La categorie ci consegnano un metodo e alcune leggi di funzionamento del capitale; l’analisi del contemporaneo è responsabilità nostra, dei viventi. In altre parole: bisogna assumere su di sé la fatica del concetto, bisogna guardare il mondo e comprenderne l’evoluzione. Le categorie interpretative del reale, del resto, vengono dedotte o scoperte nel corso dell’analisi dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico. Evolvono anch’esse, in qualche misura. E’ accaduto anche a Marx di scoprire inattese neoformazioni autonomizzatesi del capitale nel corso di un’analisi iniziata pensando di trovarsi di fronte a semplici manifestazioni del “già noto” (per esempio, nei tre articoli scritti per il New York Daily Tribune a proposito della nascita, crescita e fallimento del Credit Mobilier, dove il secondo e terzo articolo “correggono” decisamente la lettura data nel primo; si vedano http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/0tesi.pdf e Karl Marx, Il socialismo imperiale, Roma, Editori Riuniti, 1993). Oppure basti pensare alla categoria di imperialismo, individuata e strutturata a soli 30 anni dalla morte di Marx.

L’oggetto della ricerca

Il movimento comunista è stato il protagonista assoluto del ‘900. Ha inanellato una lunga serie di vittorie, tali da far sembrare vicino – negli anni ’70 – un cambiamento generale a livello planetario. Solo 10 anni dopo cadeva il Muro, si dissolveva l’Urss, si scioglievano nell’acido i partiti comunisti – o presunti tali – in ogni paese.

Le vittorie. Quasi tutte nel Terzo mondo, o comunque nei paesi meno sviluppati. E anche la Russia, nel ’17, era un paese fondamentalmente medioevale (con tanto di servitù della gleba, uomini e donne inchiodati a un territorio, “semi-umani” di proprietà dei latifondisti), con alcune isole di sviluppo capitalistico concentrate soprattutto a Mosca e San Pietroburgo. Non rivoluzioni proletarie (classe operaia e lavoro salariato come minoranza estrema, se non del tutto inesistente), in larga misura, ma movimenti di liberazione nazionali, anticoloniali, guidati da avanguardie politiche di formazione comunista. Dunque movimenti popolari di modernizzazione progressista, per forza di cose, che non potevano fornire alcun modello teorico o pratico per l’avanzata della rivoluzione nei paesi sviluppati; e facilmente esposti al ritorno prepotente dei “mercati” – in forme diverse dal colonialismo militare – una volta dissolto il “fronte del socialismo reale” (ad esempio, il Vietnam).

Le sconfitte. Un po’ dappertutto, ma soprattutto nei paesi avanzati, dove – in linea generale, come conseguenza di Yalta – i partiti comunisti di obbedienza sovietica nel secondo dopoguerra si trasformano prima in socialdemocrazie di fatto, pur se “teoricamente fedeli” all’ideale della rivoluzione; poi in formazioni politiche genericamente “di sinistra”, dove la qualifica progressiva è data da una (relativa) attenzione ai diritti civili delle persone o delle minoranze, anziché a quelli economico-sociali della classe o del blocco sociale (tutele del lavoro, welfare, sanità, istruzione, ecc).

Evoluzione interna al movimento comunista. Lunga serie di scissioni, frazionamenti, conflitti (anche sanguinosi), cristallizzazione in settarismi. Compresa la stagione di ripresa dello “spirito rivoluzionario” successiva alla vittoria di Cuba, alla rottura cinese con l’Urss, alle vittorie in Vietnam e tante altre ex colonie, al moltiplicarsi di organizzazioni rivoluzionarie (anche nei paesi industrializzati, Usa compresi, a cavallo o successivamente al ’68).

Una dispersione di energie inarrestabile, assolutamente entropica e introvertita, che non permette di sfruttare la seconda grande crisi – nel solo XX secolo – del modo di produzione (anni ’60-’70) e facilita la vittoria dell’imperialismo, fino al collasso del “socialismo reale”, alla quasi scomparsa dei partiti o dei movimenti “comunisti”. Ovunque. Permangono oggi in questa parte del mondo piccoli gruppi, in prevalenza di stampo settario ed esterni alle forme di organizzazione del blocco sociale; o in alcuni casi – al contrario – molto impegnati nel conflitto sociale e nei movimenti territoriali, ma con dimensioni e prospettive tali da non costituire un problema politico per il nemico o un’alternativa credibile per il blocco sociale degli sfruttati.

Quali le ragioni di una sconfitta epocale di questa portata?

Vanno scartate le stupidaggini. Per esempio: il “tradimento dei gruppi dirigenti”. La selezione dei dirigenti nel processo di riproduzione delle organizzazioni è infatti parte integrante dei processi storici oggettivi, e non ha nulla a che vedere con le motivazioni di tipo psicologico-opportunista (ansie individuali di arricchimento, di sopravvivenza, ecc). Motivazioni che negli esseri umani esistono sempre, in qualsiasi periodo storico e in qualsiasi organizzazione; dunque, il loro eventuale prevalere in un’organizzazione rivoluzionaria è fenomeno che va a sua volta spiegato, ma di per sé non spiega nulla.

Vanno inquadrati in modo non scolastico anche gli “errori della soggettività”. Qualsiasi avanguardia politica o sociale commette errori più o meno gravi, che possono addirittura distruggere anche l’organizzazione più radicata e combattiva. Ma le avanguardie del conflitto sono a loro volta il prodotto di determinate condizioni storiche, diverse da paese a paese e da periodo a periodo; sono il prodotto della storia dei movimenti in certi paesi, della loro cultura, della tradizione politica e di classe, ecc. Gli errori della soggettività possono insomma spiegare singole sconfitte, non LA sconfitta storica e globale del movimento comunista.

A meno che non si producano nel luogo e nel momento di svolta epocale, ossia nel punto in cui si gioca la partita della Storia.

Sappiamo, grazie alla teoria marxiana, che una vera rivoluzione socialista costituisce il superamento del modo di produzione capitalistico. Marx stesso ipotizzava che il luogo dove la Rivoluzione avrebbe avuto più possibilità, non solo di vincere uno scontro per il potere politico, ma di mettere in moto un modo di produzione socialista – entro alcuni limiti anch’essi storicamente determinati, perché il modo di riprodurre la vita non si cambia con un decreto – sono i paesi più avanzati nello sviluppo del modo di produzione capitalistico.

La storia del ‘900 ci presenta però un quadro effettivamente opposto, almeno in apparenza. Si è vinto là dove sembrava impossibile, anche se poi la storia si è presa la sua vendetta azzerando i tentativi di “costruzione del socialismo” in condizioni di sviluppo troppo arretrate. E persino lì dove – l’Unione Sovietica del secondo dopoguerra – il livello di sviluppo sembrava almeno comparabile con quello del capitalismo (vero nei settori strategici, soprattutto militari, ma non nel complesso della produzione di massa).

Dunque?

O è sbagliata la teoria o è successo qualcosa che ha determinato una divergenza secolare tra azione dei comunisti e processi evolutivi del modo di produzione. Naturalmente stiamo parlando di “trasformazione effettiva del mondo”, di passi in direzione della “costruzione del socialismo”, non di difesa più o meno efficace degli interessi di classe, di dedizione spesso eroica alla causa rivoluzionaria e quant’altro di eccellente la storia del ‘900 ci ha consegnato.

In una lettura libresca della teoria dovremmo per esempio dire che la Rivoluzione d’Ottobre è stato un errore di “volontarismo”, troppo in anticipo rispetto ai tempi dello sviluppo capitalistico in un paese come la Russia. E diremmo una scemenza. Una società si ribella alle condizioni date che trova, quando il potere non è più in grado di mantenersi, per una crisi di qualunque origine (economica, bellica, ecc). Ma i dottrinari se ne accorgono sempre post festum

Proprio il crollo del “socialismo reale” conferma però che si può – certo – conquistare il potere politico provare a creare un altro tipo di relazioni sociali, ma è impossibile saltare dalla servitù della gleba (il Medioevo) alla cittadinanza socialista senza pagare un prezzo elevato, fino al fallimento del tentativo. La lista delle condizioni che avrebbero potuto determinare un risultato diverso è intuibile, e costituisce in buona parte la materia della ricerca qui proposta.

Se invece è successo qualcosa di determinante – sul piano storico, con qualche terribile effetto anche sull’evoluzione della teoria – allora bisogna indagare la Storia per capire dove e come il processo rivoluzionario si è interrotto, bloccato, introvertito.

Questo approccio è radicalmente diverso dal “cercate ancora” che ha dominato tanta parte della “riflessione” dei marxisti del ‘900. Frase generalmente interpretata nel senso di “trovare l’errore nell’impianto teorico marxiano che avrebbe determinato così tante sconfitte” e poi la dissoluzione tout court. Concetto che insomma invita all’introversione sul piano più astratto, invece che all’apertura dello sguardo sul mondo storico.

Stabilito questo…

La partita del XX secolo si è giocata a Berlino, nel gennaio 1919

L’unico momento in cui la Rivoluzione è stata vicina alla vittoria in un paese avanzato dello sviluppo capitalistico è rintracciabile nel breve periodo tra la fine della I Guerra mondiale e l’insurrezione spartachista a Berlino, nei primi giorni del 1919. In un contesto di crisi generale, guerra guerreggiata, tracollo delle antiche monarchie dell’Europa centrale e russa, sollevazione generale delle masse stremate da fame e guerra (condizioni insomma abbastanza rare, nei paesi avanzati).

La letteratura storiografica sull’argomento è sconfinata, non tutta di carattere scientifico; c’è molta “propaganda di fazione”, memorialistica rancorosa o disperata, ecc.

Ma la tesi che si vuole qui sottoporre a ricerca prescinde ampiamente dai dettagli storiografici. Sono infatti ben delineati alcuni fattori strategici:

– la Germania era il paese industrialmente più avanzato dell’Europa continentale;

– la Germania aveva firmato la resa e accettato la sconfitta senza aver perso un centimetro di territorio, una sola fabbrica o una sola grande opera infrastrutturale (i bombardamenti aerei erano di là da venire, al tempo);

– la Germania (Austria compresa) aveva la più grande concentrazione di scienziati da premio Nobel esistente a quel tempo, molti dei quali protagonisti del salto di paradigma che ha preparato, accompagnato e implementato l’irruzione rivoluzionaria della teoria della relatività;

– non da ultimo, in Germania esisteva un movimento operaio organizzato come “uno stato dentro lo Stato”, replicandone struttura e modalità di funzionamento; un “esercito pacifico”, sempre in attesa di impossessarsi “naturalmente” delle leve del potere politico, ma che si era drasticamente diviso in corrispondenza della frattura generale del movimento socialdemocratico mondiale sulla partecipazione o meno alla guerra (subordinazione del movimento operaio alla borghesia nazionale oppure azione internazionalista contro la borghesia di tutti i paesi in guerra).

Non è difficile comprendere – è l’unico “se” che utilizzo in questa presentazione, ma solo a fini di esposizione – l’importanza di una vittoria rivoluzionaria in un paese con queste caratteristiche.

– altri paesi dell’Europa occidentale (Italia, Ungheria, Francia, la stessa Gran Bretagna, in qualche misura), già percorsi da un conflitto sociale e politico fortissimo (a volte anche armato), avrebbero potuto aggregarsi alla tendenza, andando a costituire un polo articolato, industrialmente all’avanguardia e non facilmente aggredibile;

– la neonata Unione Sovietica si sarebbe trovata nella posizione di poter scambiare risorse naturali con sviluppo tecnologico-industriale (evitando la nota “industrializzazione a tappe forzate”, o più precisamente “accumulazione originaria in regime socialista”, quel tipo di lotta contro i kulaki, lo scontro interno al gruppo dirigente del Pcus, la sindrome dell’accerchiamento, il “socialismo in un paese solo” e così via, fino al tracollo).

La Storia del mondo sarebbe stata insomma parecchio diversa; un modo di produzione più avanzato avrebbe potuto contare su una massa critica sufficiente – risorse, conoscenze, forze produttive sviluppate – per determinare rapporto di produzione superiore, o quantomeno in grado di tenere la tensione conflittuale con il capitalismo molto meglio di quanto non abbia fatto il “campo socialista” del XX secolo.

Anche la teoria elaborata nel campo “marxista” sarebbe stata molto differente.

Ma la storia non si fa con i “se” e soprattutto “va come va”. E’ un risultato, non è decisa in anticipo e non si può tornare indietro. È davvero una brutta bestia, assolutamente feroce. Se è andata in questo modo, è palese che le forze rivoluzionarie attive in quello scontro siano da considerare inadeguate a raggiungere l’obiettivo. Un giudizio oggettivo, di merito, che individua un’asticella troppo alta per quei saltatori, pur in presenza di molte “condizioni oggettive favorevoli”.

In fase di ricerca eviterei perciò di ripercorrere – perdendoci così strada facendo – tutte le infinite polemiche tra le varie e divergenti anime della parte rivoluzionaria del movimento di classe tedesco e internazionale. Non è infatti in questione “chi avesse meno torto” nella lunga lista delle fazioni tutte sconfitte (il risultato azzera le velleità oniriche di chiunque), e ancor meno è utile esercitarsi su “come sarebbe andata se…” avesse prevalso la linea di una delle tante fazioni rimaste minoritarie, come invece amano credere i settari di tutte le sfumature. Banalmente, se una posizione non ha avuto neanche la forza di affermarsi nel nostro campo, figuriamoci se poteva avere quella di affrontare – vittoriosamente! – il capitalismo dominante al suo tempo.

Il punto di vista – più alto – da raggiungere concerne infatti il conflitto tra rivoluzione e controrivoluzione, i suoi esiti oggettivi, le sue conseguenze di portata storica.

E’ del resto evidente che il movimento tedesco aveva gravissimi problemi irrisolti, pur potendo contare su un radicamento di massa oggi solo sognabile, dirigenti di grande intelligenza ed esperienza, e persino su un temporaneo ma fortissimo “spirito insurrezionale delle masse”. Eppure…

In sintesi, possiamo dire che:

Quel movimento difettava di direzione e comando unitari, visione strategica d’insieme del conflitto, organizzazione coerente ed efficiente delle forze.

Quando il confronto tra rivoluzione e controrivoluzione diventa scontro per il potere politico, com’è accaduto in quel momento in Germania, la politica diventa guerra e le regole che prevalgono sono queste ultime (pur essendo la “continuazione” della prima, prevede per l’appunto “altri mezzi”). Chi non le rispetta, perde tutto. Si può essere “un’aquila” sul piano intellettuale, e avere molte ragioni, ma essere sconfitti e uccisi lo stesso; sia che si scelga di combattere, sia che si cerchi di restare sul piano della stretta legalità (se crolla il vecchio regime, il potere – e dunque la “legalità” – va costituito ex novo, dal vincitore; ma non esiste più, per tutto il periodo del conflitto).

In ogni caso, nel conflitto di classe – soprattutto quando diventa guerra per il potere (“per chi comanda”) – non c’è partita tra una parte organizzata e strutturata come un esercito (linee di comando univoche e indiscutibili, almeno nel momento operativo) e una parte che agisce come un branco disomogeneo, o addirittura in competizione per l’”egemonia” al proprio interno. L’unitarietà di progetto e comando non è una questione di “forma”, perché anche nella guerra di guerriglia – apparentemente praticata da bande autonome separate per territorio – il comando politico è saldamente unitario oppure è condannata alla sconfitta (i due diari del Che, a Cuba e in Bolivia, sono esemplari in entrambi i casi).

Una breve citazione dalla testimonianza di un militante comunista a Berlino (da Pierre Broué, Rivoluzione in Germania, Einaudi)

Fu allora che accadde l’incredibile. Le masse erano lì da molto presto, dalle nove, nel freddo e nella nebbia. E i capi sedevano da qualche parte per deliberare. La nebbia aumentava e le masse aspettavano sempre. I capi deliberavano. Arriva mezzogiorno, e con il freddo la fame. E i capi deliberavano. E la nebbia aumentava ancora. Le masse erano in preda all’eccitazione; esse volevano una parola che placasse la loro tensione. Nessuno sapeva quale. I capi deliberavano. La nebbia aumentava ancora mentre scendeva la sera. Tristemente le masse rientravano nelle loro case: avevano voluto qualcosa di grande e non avevano realizzato nulla. E i capi deliberavano. […] Ed erano ancora in seduta l’indomani mattina, quando il giorno schiariva, ecc, ecc, ed essi deliberavano ancora. E i gruppi tornavano di nuovo sulla Siegesallee e i capi erano ancora lì in seduta e deliberavano, deliberavano, deliberavano”.

La retorica anarchica (e similari) leggerebbe questa testimonianza nella chiave più stupida: “le masse” che vogliono l’azione e “i capi” che “frenano”. Non serve invece un genio per capire – scorrendo la letteratura sulla Spartakusbund e le altre organizzazioni rivoluzionarie presenti a Berlino – che quei “capi” erano divisi sul da farsi e rappresentavano diverse organizzazioni “concorrenti”, senza un piano comune, senza struttura decisionale e linee di comando efficaci, senza quindi un legame operativo e unitario con la classe scesa in armi per una insurrezione improvvisata. L’esatto contrario di quel che c’era invece stato a San Pietroburgo, solo tredici mesi prima.

Non è inutile comunque aggiungere che 24 ore dopo tutti quei “capi” erano morti o ricercati, non “venduti” e passati al nemico.

Le numerose insurrezioni cittadine che scandiranno ancora per qualche anno il conflitto di classe in Germania, nella prima parte degli anni ’20, saranno sempre più deboli, isolate, facilmente circondate e represse. Dopo Berlino, inevitabilmente, le divisioni iniziali si erano incancrenite, non ridotte.

La sconfitta del movimento rivoluzionario in Germania ha dunque indubbiamente avuto almeno i seguenti effetti, anche se indubbiamente un programma di ricerca potrebbe individuarne molti altri:

– la nascita e poi il trionfo del fascismo su scala europea, come reazione delle borghesie nazionali contro la Rivoluzione (e il suo nucleo centrale, la giovane Unione Sovietica), grazie anche a quel “piano Doves” imposto dalle potenze vincitrici (pagamento dei danni di guerra e quindi impoverimento drastico della Germania);

– il confinamento del “campo socialista” ad un solo paese, per quanto grande, per oltre 20 anni;

– il moltiplicarsi, duraturo ed esponenziale nel tempo, delle divisioni nel movimento comunista;

– la subordinazione della teoria rivoluzionaria alla linea politica dell’organizzazione, qualunque essa fosse, in ogni angolo del movimento comunista mondiale.

Teoria e politica

A ben guardare, molte delle conseguenze di quella sconfitta sono in varia misura imparentate con questa inversione tra tensione scientifica e necessità contingenti della lotta. L’infinita serie delle divisioni, lungi dall’essere ricollegata – come sarebbe logico – a una diversità di vedute sul piano tattico e strategico (in ogni caso pesanti e divisive, ma sempre recuperabili), è stata ipostatizzata come antagonismo ontologico, ossia fatta risalire addirittura a una diversa “appartenenza di classe” o a una opposta impostazione teorica nella ricezione del patrimonio marxiano, leniniano e chi più ne ha ne metta (ogni fazione “eretica” si è sua volta divisa in molti rivoli, con “santi” sempre più minimi e improbabili). Insomma a un fraintendimento della teoria marxiana quasi inafferrabile, sempre più soggettivo e “caratterizzante”, ma appunto per questo “incomponibile” e “antagonista”. A un credo, in definitiva, ossia un atto di fede che divide chiese originate dall’identico ceppo.

È appena il caso di ricordare che Marx considera invece la teoria esattamente come la concepisce un fisico. Ovvero come un quadro organico di leggi che nel loro insieme ricostruiscono e spiegano – in qualche misura, se ben utilizzate, prevedono – un campo preciso di fenomeni (il modo di produzione capitalistico, in generale). Insomma va alla ricerca delle leggi oggettive che regolano i fenomeni; tende quasi sempre a raffigurarle addirittura con formule matematiche; è consapevole che lo sviluppo del capitale (natura viva, non materia inerte) produce autonomizzazione di sempre nuove figure, che a loro volta vanno studiate e capite. Di sicuro, per esempio, non poteva dedurre allora figure come i credit default swap, i fondi di investimento, i fondi pensione, i commercial paper, i cdo e così via, pur rientrando tutte queste – forse – sotto la fattispecie di “capitale per il commercio di denaro” e/o “capitale per il commercio di merci”.

Fare teoria significa fare scienza, non discorsi “poco popolari”. Significa lavorare per individuare ciò che permane stabile nel fluire dei fenomeni (storici, economici, politici). Significa accantonare momentaneamente le “condizioni a contorno”, le specificità del tempo e del territorio, e individuare la struttura permanente che regola la continua trasformazione delle forme dei fenomeni. Un esempio facile facile: la legge che regola la forza gravitazionale afferma che tutti gli elementi si attraggono (“cadono”, sulla Terra) alla stessa velocità, indipendentemente dalla materia e dalla forma (cambia solo la forza esercitata da ogni corpo, dipendente dalla massa). Si tratti insomma di una piuma, una palla di piombo o un uomo appeso a un paracadute, si va verso terra. La legge è ovviamente di validità universale, ma nell’analizzare un fenomeno particolare o nel progettare qualcosa, bisogna re-introdurre almeno una “condizione a contorno” che prima era stata eliminata: l’aria. Che oltretutto non è un elemento stabile, ma sottoposto a variazioni continue di velocità (venti) e densità (altimetrica).

La ricerca scientifica, anche e soprattutto quella rivoluzionaria, è ricerca della verità, storicamente determinata; perfettibile, confutabile, mai definitiva, ma verità. Ossia, corrispondenza di concetto e oggetto. Non tollera subordinazioni alle necessità contingenti. Altrimenti si corrompe, diventa agiografia ragionata ex post delle scelte di partito (o di fazione), spesso mutevoli nell’arco di pochi mesi o anni (ad esempio: la svolta della III Internazionale dal “socialfascismo” ai “fronti popolari”).

È infatti assolutamente ovvio che in guerra – e il movimento comunista ha dovuto fare esperienza di ogni tipologia di conflitto, nei suoi 70 anni più gloriosi – bisogna agire come la situazione richiede, in stato di necessità, secondo regole e leggi non violabili impunemente, se si vuole sopravvivere e vincere. Si deve esser pronti a cambiare tattica a ogni angolo, e persino modificare la strategia quando si rivela superata, tornare sui propri passi, annullare accordi solennemente presi, cancellare alleanze, rivedere stile di lavoro e regole di comportamento, ecc. Del resto, si possono fare le elezioni a febbraio e l’insurrezione ad ottobre, no?

Se però ognuna di queste svolte deve essere “giustificata teoricamente”, anziché con la materialità del conflitto in atto, ecco che la scienza si perverte in scolastica: e ogni gesto viene accompagnato con una citazione ad hoc estratta dall’immenso corpus marxiano (o engelsiano, leniniano, ecc).

Ciò che va perduto, in questo addomesticamento storico-politico, è l’unitarietà del sistema teorico, il suo statuto scientifico. Dunque la possibilità stessa di osservare il reale attraverso lenti affidabili.

Ogni setta si dice marxista, ogni setta si scinde a suon di citazioni ben scelte. Ma insignificanti – da sole – come pietre strappate a un palazzo.

In altri termini: la teoria è – sì – una guida per l’azione politica. Ma tra teoria e azione politica c’è lo stesso rapporto esistente tra legge fisica (astratta) e condizione fisica concreta, o meglio ancora tra scienza (universale) e tecnologia (specifica). In mezzo ci sono quelle che in fisica si chiamano “condizioni a contorno”, da cui si può e si deve fare astrazione per isolare la legge, ma di cui bisogna tener conto quando ci si muove nel reale. Un altro esempio semplice: le leggi fisiche sono costanti dappertutto (in ogni sistema di riferimento), ma avranno effetti diversi su di noi a seconda che camminiamo in un prato fiorito oppure sotto la neve a 30 sottozero, se ci muoviamo sott’acqua o in un aereo che precipita.

Se passiamo dall’ambito della fisica a quello storico-politico – l’evoluzione della Storia umana e dei modi di riprodursi – abbiamo che tra le leggi generali dell’accumulazione capitalistica (universali, quindi valide ovunque facendo astrazione dalle condizioni a contorno) e la realtà concreta (un continente, un paese, una regione, ecc, a un determinato grado di sviluppo) esiste una relazione mediata da specificità non facilmente riducibili. Specificità storiche, politiche, culturali, antropologiche, linguistiche, religiose, che si modificano assai più lentamente di quanto non ci voglia a insediare un distretto produttivo e poi delocalizzarlo.

Per semplificare molto, una cosa è far politica nel cuore della metropoli occidentale, un’altra farla nelle periferie semi-rurali; una cosa è agire in Europa, un’altra negli Stati Uniti, e così via in Asia (e in quale parte dell’Asia?), in Africa o in America Latina o in Medio Oriente. O persino nel nostro Mezzogiorno rispetto al Nordest. Nell’agire quotidiano non pesano insomma soltanto le relazioni sociali strutturali fissate dal modo di produzione, ma tutta una serie di “tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi” che vengono di continuo travolti dal rivoluzionamento capitalistico; ma intanto resistono, persistono, si riproducono, si modificano con tempi imprevedibili.

Per guardare con distacco scientifico questo ambito variopinto bisognerebbe probabilmente far ricorso anche agli strumenti dell’antropologia, che solo la supponenza occidentale può considerare disciplina utile unicamente “con i selvaggi” (come se non fossimo anche noi un “oggetto culturale indagabile”). Basterebbe dover tener conto della religione, infatti, per trovarci davanti a un quadro di “credenze” irriducibile – per lo meno nei tempi brevissimi richiesti dal “mercato” – alle sole leggi dell’accumulazione. E comunque: quale tipo di religione?

Non da ultimo, è impossibile sottovalutare il peso strategico della tipologia di regime politico entro cui si opera. Caratteristiche, strategia, tattica, forme di lotta e stile di lavoro di un’organizzazione comunista cambiano notevolmente da una democrazia parlamentare (nelle sue molte varianti) a una dittatura e viceversa. Pure restando entro un ambito di “dittatura della borghesia” che punta in ogni caso a sterilizzare la soggettività comunista (schematizzando al massimo: usando la coppia infiltrazione-corruzione oppure quella infiltrazione-repressione).

Detto di nuovo, in termini più classici: la teoria tiene d’occhio soprattutto la struttura, l’azione politica deve fare i conti anche con tutta la sovrastruttura. La prima necessita di un’attenzione costante ai movimenti fondamentali del modo di produzione, per poterne ricavare una visione d’insieme sui tempi lunghi; la seconda deve basarsi sull’analisi concreta della situazione concreta. Come quando si va in montagna, per esempio, dove occorre possedere la visione d’insieme del territorio (come una foto dall’aereo), per poter mantenere la rotta verso l’obiettivo che si è scelto; ma contemporaneamente occorre seguire il sentiero che c’è, o aprirne uno nuovo, tenendo gli occhi su ogni sasso, perché qualsiasi dettaglio può essere fatale.

Del resto, in politica, si combatte contro qualcun altro, non contro un concetto.

Nella Storia, dunque, il criterio che regola l’affermarsi o il sopravvivere di una “linea strategica” non è dunque unicamente quello della corretta impostazione teorica posta a guida dell’azione politica (conoscenza e saggia utilizzazione delle legge fondamentali del sistema teorico, senza cui non si dà neppure la possibilità di un agire politico mirante a un obiettivo di trasformazione sociale). Un ruolo altrettanto decisivo – se non più, agli effetti pratici – è ricoperto da un criterio assai più brutale: la soluzione più adatta in determinate condizioni.

Il conflitto reale agisce insomma esattamente come la selezione naturale di Darwin (non a caso l’unico studioso “di pari livello” citato da Engels nel discorso per la morte di Marx), spazzando via tutte le forme, i soggetti, le organizzazioni o gli uomini che non riescono a sopravvivere nella competizione concreta con il capitalismo. Abbiano o no la “giusta impostazione teorica”, così come il più grande genio del pianeta può morire attraversando la strada sulle strisce…

Naturalmente “la soluzione più adatta” non è per forza la più bella, piacevole, perfettamente corrispondente ai dettami della teoria. Anzi. Le variazioni richieste dalle infinite specificità storico-culturali, oltre che dal concreto procedere del conflitto in una determinata area, spingono per una differenziazione accentuata rispetto all’unitarietà ideale dell’obiettivo (il superamento del modo di produzione capitalistico).

Insomma: l’organizzazione, il partito, il movimento popolare “più adatto” può non essere “il più marxista” in circolazione, ma “solo” il soggetto che impedisce o ritarda al massimo il ritorno dell’ancien regime, quello che difende meglio alcune conquiste, che non arretra davanti a nessuna pressione, o addirittura quello che può vincere in certe condizioni. Difficile sottovalutarne l’utilità temporanea, pur con questi limiti…

Ma se “il più adatto” disegna a propria immagine la teoria, quest’ultima non ne può uscire sana, nemmeno con le migliori intenzioni; anzi, con risultati opposti al desiderato… Tutte le caratteristiche che rendono temporaneamente vincente una soluzione storicamente determinata vengono in quel caso elevate a virtù assolute, immodificabili e dunque inadatte a resistere al cambiamento delle circostanze.

Non c’è nulla di dissacrante in questa affermazione. Nel movimento comunista- soprattutto nelle condizioni di guerra (come per esempio nella Resistenza) – era normale distinguere le funzioni egualmente dirigenti tra il “commissario politico” e il “comandante militare”. Abilità e competenze diverse, tutte egualmente decisive (coesione politica della formazione e sua sopravvivenza militare), fatte convergere per il successo nella lotta. La competizione vera (o quella principale, direbbe Mao), in altre parole, dev’essere con il nemico, non interna.

Conseguenze di questo approccio

Quale significato ha dunque la tesi che individua nella Germania del 1919 il luogo della sconfitta storica che ha impedito alla Rivoluzione di “costruire socialismo”, ossia qualcosa di più avanzato del modo di produzione capitalistico, in una parte rilevante del pianeta?

Intanto quella di fissare il punto della sconfitta nella storia reale, nel risultato di uno scontro, e non nell’impianto teorico marxiano. Semmai, è stato quel risultato a innescare la proliferazione di “errori”, sviste, improvvisazioni, corbellerie, negli impianti di tanti marxisti teorizzanti (tutti compatti nel rifiutare il risultato della Storia, ma tutti divisi tra l’adattamento realista e il sognare un numero pressoché infinito di alternative).

Ogni evoluzione successiva trova infatti a partire di qui una spiegazione molto più logica – non ad hoc – rispetto a pseudospiegazioni come il “tradimento dei chierici”, il “culto della personalità”, la “collaborazione col nemico di classe” (che spesso c’è stata, naturalmente, ma non costituisce una spiegazione teorica), la necessità di trovare la “forma teorica pura da contaminazioni” per poi sviluppare una organizzazione-setta (un rospo che cerca di mangiare nella speranza di crescere fino a diventare una mucca…).

L’elenco dei passaggi storici è ovviamente molto lungo (un secolo!), e non può qui neanche essere accennato (qualche spunto è venuto dagli esempi, comunque). Starà alla ricerca, se prenderà vita, fissarne i momenti salienti e le relative “formulazioni para-teoriche”.

Ciò naturalmente svuota di senso teorico e strategico gran parte delle divisioni moltiplicatesi nel movimento comunista. Soltanto una resta intoccata, anzi in qualche misura rafforzata: quella tra organizzazione e spontaneità, tra progetto strutturato e “naturalità” dell’azione rivoluzionaria. Proprio la tragedia della Rivoluzione in Germania, infatti, ci consegna una lezione che sarebbe da criminali dimenticare: davanti a un nemico di classe che di solito “non fa prigionieri”, e che ha assunto oggi forme di governance di dimensioni quantomeno continentali, è da dementi privilegiare il particulare, la differenza esasperata che però “distingue”, la concorrenza interna.

Sarebbe ingenuo attendersi che questo “svuotamento di senso” possa essere condiviso e dunque produrre una presa di coscienza nei “capetti” dei vari rivoli (anche di quelli che ufficialmente disconoscono il ruolo dei “capi”, pur producendone a iosa) e innescare perciò un processo unificante. Le soggettività cresciute nella dimensione intellettuale della setta – ovvero nel considerare “attività politica” la pura “propaganda della (propria) teoria” – sono definitivamente sterili. Parliamo ovviamente dei “quadri dirigenti” delle varie sette, di quanti (non molti, in fondo) hanno trovato la propria ragion d’essere in una dimensione proporzionata ad ambizioni ben limitate.

Questa presa d’atto può esser opera solo di una soggettività che si pone progettualmente il compito della trasformazione del reale e dunque si lascia alle spalle – senza nostalgie – tutti i dibattiti sulla “vera ortodossia” e/o sulla “fecondità dell’eresia”. Facendo definitivamente il punto sulla Storia, rivendicandola tutta intera, come si cerca di proporre qui. Non per ripeterla o identificarsi in qualche suo frammento, ma per stare all’altezza dei compiti presenti.

Il secondo significato, altrettanto utile, sta nel confronto con la fase storica attuale, contrassegnata dalla rottura della “seconda globalizzazione”. Sono evidenti le analogie con il periodo in cui si è verificata quasi contemporaneamente la vittoria della Rivoluzione in Russia e la sua sconfitta in Germania: rottura della “prima globalizzazione” (ottocentesca, governata-dominata dalla Gran Bretagna), evoluzione del capitalismo in imperalismo su base nazionale, esplosione della crisi e sua introversione in guerra mondiale (due, addirittura, per arrivare a un cambio di egemonia planetaria a favore degli Usa).

La rottura della seconda globalizzazione sta producendo per ora multipolarismo conflittuale su diversi piani, guerre locali conto terzi, guerra delle monete, tentativi di ri-localizzazione produttiva, conseguente risorgere dei nazionalismi (con l’Unione Europea a metà del guado, nel passaggio a imperialismo su basi continentali e non “nazionali”). Una reazione politica che non corrisponde molto alle necessità del capitale multinazionale, che aveva promosso e innervato il processo di mondializzazione.

Di molto diverso ci sono tante condizioni: allora c’era un movimento operaio internazionale in prevalenza riformista, ma contrattualmente esigente; oggi c’è un “proletariato liquido”, dal rapporto discontinuo e variabile con la produzione capitalistica, disorganizzato al massimo, assolutamente impossibilitato a conoscere il ciclo nella sua complessità e quindi “spontaneamente” incapace di immaginare-ideare-programmare un cambiamento di modo di produzione. A meno di non riuscire a stringere una alleanza potente con le figure professionali di elevata competenza tecnico-ingegneristica et similia, fondamentali in qualsiasi progettazione della produzione complessiva. E così via…

Ma c’erano anche milioni di uomini appena usciti dalle trincee, senza lavoro ma con una qualche professionalità da vendere: saper usare le armi, rispettare le gerarchie, pochi scrupoli umanitari. Ovvero la base di massa e di manovra del fascismo nascente. Quel che ci voleva – per un capitalismo ancora nella fase “padronale” – per contrastare altri milioni di uomini al lavoro nelle fabbriche, che avevano un’analoga dimestichezza con le armi.

Di diverso c’è soprattutto il capitale: finanziarizzato, multinazionale, svincolato da qualsiasi “interesse sociale”, insofferente dei limiti politico-statuali, impossibile da ricondurre entro i confini della “democrazia parlamentare”, pronto a trasferirsi ovunque le condizioni di profittabilità appaiano anche momentaneamente migliori; incapace dunque di qualsiasi “progetto” o, tantomeno, “piano” che vada al di là dell’orizzonte aziendale; managerializzato – gestione separata dalla proprietà – senza volto, che non si incontra più per la strada. Praticamente irraggiungibile.

Di diverso c’è soprattutto che la produzione manifatturiera è a un passo – qualche anno… un respiro, sul piano della Storia – dall‘automazione della maggior parte delle mansioni manuali e intellettuali, quelle più seriali e ripetitive. Cosa che svuoterà non solo le fabbriche, le banche, gli uffici… ma la comprensibilità stessa di un processo di produzione come base necessaria della riproduzione della società. Come accade oggi ai bambini, convinti che i soldi (i redditi) escano dal bancomat, anziché dal salario, dallo sfruttamento o dalla rendita…

Cosa però che azzera o quasi anche l’estrazione di plusvalore, segando il ramo su cui è cresciuto questo modo di produzione.

Forze produttive e rapporti di produzione

La similitudine tra i due periodi di rottura del mercato mondiale capitalista ci riporta al tema teorico fondamentale: anche questa volta sta esplodendo la contraddizione sempre latente tra forze produttive e rapporti di produzione.

La domanda teorica che va sciolta è relativa al manifestarsi – esplosivo, appunto – di questa contraddizione fondamentale. Si dà soltanto una volta, in prossimità della fine del percorso storico del modo di produzione capitalistico? Oppure si produce più volte, a livelli ovviamente più ciclopici e dunque rovinosi, in forma ciclica? Quando si è manifestata – ad esempio: alla fine della “prima globalizzazione” – era della stessa portata e natura? Poteva insomma quella crisi innescare un regime change a livello del modo di produzione?

Oppure, in termini più politici: le condizioni della Rivoluzione si danno solo quando questa tensione esplode oppure anche quando alcuni sottosistemi capitalistici collassano? La storia del ‘900 ha mostrato che “si può fare” in molti altri casi, ma non si sfugge – nel corso del tentativo di costruire un altro modo di riproduzione sociale – ai vincoli stabiliti dal confronto con un modo di produzione capitalistico che continua ad esistere ed evolvere.

Marx aveva impostato la risposta in questo modo:

nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.

Tra le le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo c’è anche la soggettività – coscienza consolidata in organizzazione e conoscenza scientifica del modo di produzione in evoluzione – che può condurre il passaggio storico da un modo di produzione a quello più avanzato, evitando per quanto possibile la distruzione generalizzata connaturata al meccanismo di “risoluzione delle crisi” tipico del capitalismo. Specie dopo la creazione e diffusione delle armi nucleari, infatti, l’eventuale comune rovina delle classi in lotta può tecnicamente coincidere non tanto con un periodo di “medioevo”, ma con la scomparsa della specie.

Tra proletariato e capitale la Storia ha proposto e propone più round, insomma. E il capitalismo non si esaurirà “spontaneamente” o quasi, per consunzione. La partita tra rivoluzione e controrivoluzione si è giocata più volte. Nell’Ottocento (in forme molto embrionali) come nel Novecento. E si ripropone ora, al decimo anno di crisi globale e alla vigilia della più gigantesca espulsione del lavoro umano dai processi produttivi che si sia mai immaginata (solo in Gran Bretagna, da qui al 2030, si calcolano 10-15 milioni di posti di lavoro in meno, su un totale di 30).

Ogni volta, però, si ripropone in forma più drastica, man mano che ci si avvicina a quel punto in cui la presente formazione sociale deve affrontare la sua fine. Qualcun altro, del resto, aveva sintetizzato il dilemma in socialismo o barbarie.

Ma questo, per l’appunto, è l’oggetto di questo convegno…

Come ultimo spunto, conseguenza anch’esso della lunga storia di sconfitte incomprese e divisioni insensate, non si può evitare di sottolineare come il massimo di tensione mai registrata tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione corrisponda al punto forse più basso fatto segnare dalla soggettività rivoluzionaria da un secolo a questa parte. Un problema teorico, certo, ma anche decisamente politico. Perché se non c’è chi prende in mano la situazione, c’è solo la degenerazione…

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