Nel processo di produzione e riproduzione capitalistica la scuola gioca, in maniera sempre più evidente, un ruolo cruciale. Nella catena del valore l’istituzione scolastica ha il compito di sfornare tipologie diverse di lavoratori.
Da anni buona parte degli insegnanti manifesta un crescente disagio verso le molteplici forme di ristrutturazione didattica, veicolate dalle continue controriforme che hanno reso l’istruzione sempre più prona e assoggettata alle direttive del mercato. Spesso, tuttavia, anche le posizioni più critiche, susseguitesi negli ultimi anni, hanno rappresentato, di fatto, una fase “artigianale”, meglio luddista, che ha finito coll’opporsi e col rifiutare gli strumenti della “nuova didattica e della nuova pedagogia”, senza peraltro porsi la questione dei nuovi processi di accumulo e di ristrutturazione del capitale avviatisi negli ultimi trent’anni.
Per dirla con Gramsci, non si sempre si è colto il principio in base al quale “la crisi del programma e dell’organizzazione scolastica, cioè dell’indirizzo generale di una politica di formazione dei moderni quadri intellettuali è, in gran parte, un aspetto e una complicazione della crisi organica più complessiva e generale”.[1]
Molto spesso le battaglie di questi anni, generose e talora animate da notevole radicalità, si sono rivolte a questo o quell’aspetto della scuola o della didattica, sia che si trattasse dell’opposizione all’alternanza scuola – lavoro, sia che si rifiutasse la didattica per competenze o il modello stesso di scuola. Ciò che talvolta è mancato e che manca è l’analisi di sistema, ovvero il raccordo del cosiddetto mondo della scuola con le esigenze dettate dal modo e dai rapporti di produzione vigenti.
Laddove si confligge con la Buona scuola, con l’alternanza scuola – lavoro o con la didattica per competenze, aspetti peraltro fortemente integrati tra loro e con l’attuale modo di produzione, è necessario porre anche la questione dell’interesse di classe e delle ragioni strutturali che hanno piegato il sistema scuola agli interessi del modo di produzione e riproduzione del valore. La mancata comprensione della complementarità dei differenti piani finisce col configurarsi come una sorta di conflittualità neo-luddistica che attacca lo strumento ideato dal capitale senza ledere la mano che lo governa. A tal proposito è ancora opportuno citare Gramsci: “Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con «spirito di corpo» la loro ininterrotta continuità storica e la loro «qualifica», così essi propongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante; questa auto-posizione non è senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata”[2].
È infatti, ancora oggi, sentimento estremamente diffuso tra gli insegnanti il percepire il mondo della scuola come un universo a se stante, senza porte e senza finestre, autoreferenziale, bastante a se stesso, quasi fosse un realtà metafisica, svincolata dai rapporti economico-sociali. È una percezione fallace che non si traduce solo nell’incapacità di cogliere la scuola come facente parte di una base materiale, ma produce spesso atteggiamenti di paralisi di fronte alle novità, di personalizzazione delle problematiche, ovvero di identificazione delle controriforme con questo o quel ministro di turno. Si tratta, in fin dei conti, di un processo che derubrica a scelte soggettive quelle che sono invece esigenze di ristrutturazione dettate dal capitale.
Sarà necessario indagare attraverso l’analisi di dati oggettivi, quali la composizione di classe del personale docente, se questa visione ideologica e distorta sia dovuta a una certa appartenenza di ceto sociale o se sia piuttosto il risultato dell’egemonia culturale della classe dominante.
La questione che si deve porre per una critica che voglia essere davvero radicale e complessiva, è quindi quella del ruolo giocato dall’insegnante odierno negli attuali processi di produzione e di accumulazione capitalistica. Il docente è l’ingranaggio minimo di “un sistema integrato di interessi e partenariati tra istanze del capitale, decisori politici ed esecutori tecnici” (http://www.retedeicomunisti.org/index.php/generale/1982-dall-alienazione-alla-politicizzazione-dell-insegnante). Il docente è, infine, un imprescindibile anello della catena di valorizzazione del cosiddetto “capitale umano”, in quanto produce, quantifica e misura le competenze attese dal sistema produttivo. Tutti questi processi vengono accumulati e compendiati nella redazione del cosiddetto profilo in uscita dello studente. Si tratta di un documento che ne definisce i livelli di “competenza”, di “fruibilità” e di “sfruttabilità” da parte del mercato. Tradotto in termini di classe, il profilo dello studente indica la tipologia di forza lavoro che la scuola produce, filtra e immette sul mercato a disposizione del capitale.
Nel suo essere organico al sistema, spesso in modo inconsapevole, l’insegnante diventa produttore di manodopera cognitiva e riproduttore di ideologia. Da un lato produce, infatti, forza-lavoro da immettere sul mercato secondo le linee direttrici imposte dal capitale, dall’altro consolida il sistema attraverso la riproduzione ideologica e la connessa costruzione del consenso. ”Siamo entrati ormai nell’era educativa del taylorismo cognitivo, nella catena di montaggio, virtualmente infinita, delle competenze che servono o che potrebbero servire al mercato e che il docente s’incarica di certificare e stampigliare come codici a barre su macchine “intelligenti”(http://www.retedeicomunisti.org/index.php/generale/1991-taylorismo-cognitivo-e-professione-docente ).
Coerentemente con quanto descritto, il lavoro dell’insegnante ha subito una mutazione genetica che ha privato la funzione docente di qualsiasi margine di autonomia, assoggettandola alla quantificazione, alla misurazione e all’ assoluta conformità.
Serve un rovesciamento dialettico in grado di ribaltare completamente la situazione. Serve un punto di vista comunista, volto a rovesciare l’egemonia del pensiero unico, consolidatosi in trent’anni di dittatura del capitale. Gli insegnanti che si reputano tali dovrebbero proporre un’analisi generale che incorpori e superi anche la stessa visione di resistenza sindacale. Serve un lavoro politico alto, in grado di portare le contraddizioni della scuola alla loro dimensione sistemica e sociale. La battaglia delle idee deve accompagnarsi alla lotta di classe e al conflitto sociale, uscendo da una dimensione di scissione atomistica nella quale è stata per troppo tempo relegata, perdendo quella visione organica e dialettica, capace di rovesciare i rapporti di produzione e di forza che hanno costruito l’attuale modello di scuola.
Rete dei Comunisti
[1] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, 12
[2] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, 12
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Andrea Martocchia
Tutto giusto, ma a sua volta l’analisi di sistema, “ovvero il raccordo del cosiddetto mondo della scuola con le esigenze dettate dal modo e dai rapporti di produzione vigenti”, va estesa alla Università, alla Ricerca scientifica, a tutti i luoghi della formazione e, anzi, a tutto il comparto dei lavoratori della Conoscenza. Per scoprire che l’attacco è unitario e globale (non solo italiano) ed è connaturato alla fase di distruzione delle forze produttive avanzate in tempo di crisi da caduta del saggio di profitto. Abbiamo oramai accumulato un quarto di secolo di ritardo e alcune centinaia di migliaia di precari (solo in Italia) “bruciati” per strada ma, come suol dirsi, “ce la possiamo fare”…