Vorrei rispondere agli editoriali di Francesco Piccioni e Dante Barontini di qualche giorno fa con la speranza che si apra un dibattito.
Lo appoggio fermamente. L’altroieri il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Gao Feng,uno che non parla molto e soprattutto non parla a caso, ha dichiarato tra l’altro: “L’Italia ha grandi prodotti e servizi di alta qualità, faciliteremo l’ingresso nel mercato cinese di una fetta più consistente di prodotti e servizi itlaiani e incoraggeremo grandi, influenti e credibili imprese cinesi a investire in Italia”.
Nel gennaio del 2014 scrissi per Marx 21 un pezzo – che allego – in cui delineavo una strategia di uscita dalla cappa deflazionistica. Ho un’autocritica da fare rispetto ad allora. Riponevo troppa fiducia su di una parte della borghesia industriale.
Ricavo ciò dal fatto che centinaia di miliardi di euro frutto di profitti da export sono stati dirottati all’estero, principalmente nel bund tedesco come riparo di capitale. Oggi dunque non ho nessuna speranza su di loro.
La strategia sarebbe puntare sulle poche industrie pubbliche, capaci di trascinare una parte dell’apparato industriale.
La Cina ha il 31% della produzione industriale mondiale, l’Italia il 2,4%. Se si realizza ciò che ieri ha affermato Gao Feng la percentuale itlaiana salirebbe al 2,7-3%, ricostruendo capitale industriale, una fonte di valore.
Il problema è: cosa si fa quando una classe dirigente fugge dalle sue responsabilità (imprenditoriali e politiche), lasciando il paese degradare verso il declino storico, e non si vede all’orizzonte una forza popolare in grado di prendere in mano le redini della situazione?
Ecco cosa scrissi nel 2014.
Appunti per un programma di transizione dei comunisti nella fase attuale
Prima ancora di parlare di programma, è bene chiarire che compito dei comunisti è quello di adottare la matrice del materialismo storico per comprendere le dinamiche in atto, dunque analizzare in pieno i conflitti e le guerre di classe che attraversano la società italiana.
Ritornare a crescere con l’intervento pubblico nell’economia
Va da sé che questa strategia è innanzitutto “culturale” e politica, poiché negli ultimi decenni si è stratificato un ceto intellettuale, politico, imprenditoriale ferocemente contrario a un ritorno dello Stato nel manifatturiero, causa ultima del protrarsi e dell’aggravarsi della crisi sistemica italiana. Il “Kulturkampf” deve passare, tramite il Partito e i movimenti, nelle università, contestando le baronie e il nepotismo, nei media, attraverso un potenziamento dei nuovi canali, nei quartieri e nei territori. Ciò implica che il partito contratti la partecipazione negli enti locali attraverso la rivendicazione delle istanze del pubblico in economia.
Accordi con le economie “emergenti”
Le forze possenti che dominano regressivamente il Paese possono essere contrastate soprattutto attraverso la creazione di canali diplomatici con paesi guidati da partiti e organizzazioni a noi affini, finalizzati ad autentici accordi monetari, commerciali ed industriali capaci di ricreare un apparato produttivo che sia in sinergia con processi di sviluppo economici che attraversano questi paesi, in particolare Cina, Vietnam, Brasile e Sudafrica. Se si raggiungessero tali accordi, basati sulla logica “win-win”, parte dell’apparato industriale italiano sarebbe favorito a tal punto che sarebbe disposto a venire a patti con la strategia del ritorno del pubblico, soprattutto nelle tematiche riguardanti ricerca, infrastrutture e creazione di player che trascinino sui mercati mondiali l’ossatura manifatturiera italiana basata su piccola e media impresa (PMI).
Dal pluslavoro assoluto al pluslavoro relativo
La diplomazia economica e la strategia che ciò comporta, se avvenisse e avesse successi tangibili agli occhi del Paese, potrebbero mutare i rapporti di forza, oggi sfavorevoli, ed indirizzare il partito alla rivendicazione del passaggio dal feroce pluslavoro assoluto, in voga negli ultimi decenni (dequalificazione, allungamento dell’orario di lavoro, allungamento dell’età pensionabile, deflazione salariale), verso il pluslavoro relativo (alta qualificazione della forza lavoro, apporto scientifico, ammodernamento degli impianti industriali, rivoluzione tecnologica, infrastrutturazione del paese) che, ad esempio, la dirigenza cinese ha deciso di adottare a partire dalla Legge sul Lavoro del 2008.
Tale strategia diplomatica avrebbe effetti dirompenti perché aiuterebbe i comunisti a rivendicare alcuni punti essenziali: riforma del mercato del lavoro e ripristino dell’articolo 18 anche in imprese sotto i 15 dipendenti; riqualificazione della spesa statale per educazione, università, ricerca, formazione; sostegno alla spesa sociale; creazione di oligopoli pubblici; nazionalizzazione delle banche, con conseguente mobilitazione del risparmio nazionale dedito ad investimenti; ripristino dell’apparato statuale nelle aree degradate del Mezzogiorno; riqualificazione ambientale e, in definitiva, “salto tecnologico” delle imprese manifatturiere.
Sottrarsi al soffocamento dei Trattati deflazionistici europei
Un accordo monetario e finanziario con questi Paesi darebbe la possibilità all’Italia di sottrarsi alla soffocante corda costituita dai Trattati deflazionistici europei, giacché consentirebbe di avere nuovi canali finanziari per rinnovare il debito pubblico e aprirebbe canali commerciali alternativi a quelli, stagnanti, europei. Dopo circa vent’anni, tale apporto finanziario darebbe la possibilità di porre fine alla deflazione salariale e permetterebbe di ricreare un solido mercato interno, base d’appoggio per la penetrazione pacifica commerciale estera.
Tali accordi costituirebbero l’ossatura di un processo egemonico che i comunisti potrebbero perseguire e rivendicare dando un contributo alla risoluzione della crisi sistemica che attanaglia il paese da decenni e, da percentuali minori nel panorama italiano, potrebbero (ri)conquistare l’elettorato del proletariato italiano che, o non vota, o, peggio, affolla le sedi di movimenti reazionari quali quello della Lega.
La proiezione estera permetterebbe di porre in essere una nuova “questione nazionale” basata sull’unità, sul ritorno su basi progressive dell’apparato statuale, oggi inesistente in molti ambiti, e sulla solidarietà del proletariato italiano. Avviata in tal modo la “questione nazionale”, i rapporti di forza con il blocco reazionario europeo muterebbero a tal punto da poter rivendicare un diverso assetto europeo che sospinga verso il superamento della deflazione salariale decisa con il Piano Werner del 1972 e rinnovata poi con l’Atto Unico Europeo del 1986 e del Trattato di Maastricht del 1992.
L’accordo estero di cui si accenna permetterebbe al paese infatti di essere “interlocutore privilegiato” in Europa dei nuovi colossi economici che ormai dispiegano enormi forze sull’intero mercato mondiale.
Valorizzare il meglio della nostra cultura
Agli accordi finanziari, commerciali e monetari occorre dare una gamba, un’anima costituita da fittissimi scambi culturali capaci di valorizzare il meglio della nostra cultura. Se ciò avvenisse, il Partito dovrebbe focalizzare l’attenzione, oltre che sul Dipartimento Estero, sulla creazione di un autorevole”Dipartimento Cultura” capace di intercettare la necessità di corpi intermedi che non trovano spazi nella regressione culturale imperante nel Paese da decenni. Anche questo farebbe parte di una tattica che ha come fine ultimo una rinnovata egemonia culturale.
In definitiva, la suddetta strategia avrebbe come merito quello di fuoriuscire dalla cappa deflazionista europea, e dalla stessa asset inflation anglosassone, ponendo in essere azioni e misure utili a riportare la percentuale della produzione industriale, in rapporto al Pil, dall’attuale 19% ad almeno il 35%.
In prima istanza, si tratterebbe si trovare diversi interlocutori alla subfornitura italiana, oggi troppo posizionata sul canale tedesco, e riposizionarla verso apparati industriali di paesi cosiddetti “emergenti”; accanto a ciò, il “salto tecnologico” che un ritorno del pubblico nell’economia permetterebbe, provocherebbe un riposizionamento qualitativo, e quantitativo, del manifatturiero italiano.
“Borghesia nazionale” versus capitale parassitario
Va da sé che tale approccio implica una tattica di appoggio verso quelle istanze di parte della “borghesia nazionale”, proiettata sui canali esteri, che, dopo circa vent’anni di ritardo, ha ormai assunto come programma la lotta verso gli assetti parassitari dell’economia italiana. Sarebbe la tipica lotta di classe tra capitale commerciale, parassitario, e capitale industriale che vede nel mercato mondiale la propria ragion d’essere. Istanze di tal fatta sono ormai visibili presso settori progressivi della Confindustria ed in genere del capitale finanziario italiano. I comunisti non piangano della proletarizzazione dei “sanfedisti”: il campo, qualora ciò avvenisse, sarebbe sgombro da intermediari, rimarrebbero unicamente proletariato e borghesia industriale. La logica egemonica di creazione di accordi monetari, industriali e commerciali con paesi a noi vicini quali Cina e Brasile legittimerebbero i comunisti quali attori primordiali di un ritorno di processi di accumulazione che si sono “arenati” negli ultimi vent’anni.
Per una “Stalingrado monetaria”
Tali accordi dovrebbero essere affiancati da una raffinatezza politica e diplomatica tale da non creare eccessive perturbazioni interne dovute a rimostranze di paese esteri quali gli Usa. La raffinatezza sarebbe dovuta al fatto che uno scudo monetario per il debito pubblico italiano, costituito da accordi con la People’s Bank of China, spazzerebbe nel giro di pochi mesi la deflazione tedesca, con effetti immediati e positivi per l’intero mercato mondiale, compresi gli USA, che, forse, vedrebbero con favore, come nel 1943, un’alterativa al disegno egemonico tedesco. L’alleanza internazionale con i paesi emergenti darebbe respiro all’Italia nell’attesa che si compia, nei prossimi anni, quell’autentica “Stalingrado monetaria” costituita da un’auspicabile fuoriuscita di capitali dalla Germania con il conseguente considerevole aumento dei rendimenti dei Bund. Sia la prima strategia che la seconda farebbero crollare i differenziali degli spread e avrebbero come effetto enormi afflussi di capitali esteri in Italia.
L’apertura di canali diplomatici esclusivi con i paesi emergenti darebbe respiro a quanti si oppongono alla logica di soffocamento derivante dalla strategia di deflazione salariale e “svalutazione interna” di Monti e Bersani (su questo non si differenziano…) e toglierebbe il fiato alla logica di spartizione di risorse pubbliche e di appoggio ai sanfedisti da parte del blocco reazionario di massa, ben rappresentato da Berlusconi e seguaci.
La tattica implica l’appoggio alla borghesia industriale di quel che un editorialista del Sole 24 Ore, Carlo Bastasin, poche settimane fa, chiamava lo scontro con i “feudatari”; è lo scontro tra esportatori, che questi definisce “esploratori”, contro “feudatari”. Qualora i comunisti pervenissero nei prossimi anni a sviluppare rapporti con i Paesi emergenti, in particolare con il colosso cinese, tesi a veri accordi monetari ed industriali, si metterebbero alla testa di questo scontro interno, potendo rivendicare istanze progressive presso gli “esploratori”.
Il tutto, ripeto, in attesa di una nuova “Stalingrado monetaria”… Lo sbarco in Sicilia, questa volta, lo dovrebbero fare i “Paesi emergenti”, giacché gli Usa sono troppo invischiati nei loro debiti.
Uscire dalla cappa deflazionista europea, programmata sin dal 1972 con il Piano Werner, è possibile solo con accordi esteri.
Questo è il compito dei comunisti italiani nei prossimi anni, non già rincorrere politici miopi che corrono per accreditarsi a Francoforte o a Berlino. Avendo in mente quanto parte degli industriali italiani dichiara da qualche mese a questa parte, vale a dire una critica feroce all’austerità e alla stessa deflazione salariale.
Insomma, meno incontri con il “centrosinistra”, più viaggi a Pechino o a Brasilia.
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