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Fridays for Future? Qualche considerazione politica e ambientale

Il 24 Maggio ci sarà il nuovo atto del Fridays for Future, con manifestazioni in numerose città di tutta Europa, in seguito all’appello lanciato dalla giovane attivista svedese Greta Thunberg contro il cambiamento climatico. Di fronte alla più ampia mobilitazione giovanile degli ultimi anni, compito dei comunisti e della sinistra di classe è quello di analizzare limiti e punti di forza del movimento per capire come porsi dinanzi ad esso.

Natura politica e sociale e contesto internazionale

In un periodo storico di continua e incessante produzione ideologica, in cui la comunicazione e il modo di veicolare il messaggio sono preminenti, è lecito domandarsi: Greta è manipolata?
Beh, certamente. Non si spiegherebbe altrimenti come abbia conquistato in modo così fulmineo la prima pagina dei giornali e la vetrina delle librerie, o come abbia avuto la possibilità di tenere discorsi davanti alle più alte cariche europee e mondiali. Ma perché tutta questa risonanza mediatica?
Probabilmente perché la lotta ambientale non è fine a sé stessa ma racchiude anche, in modo più o meno manifesto, una finalità politica.

Il contesto internazionale mostra, nella sostanza, uno spostamento verso destra di quello che all’incirca corrisponde al mondo occidentale. La nuova destra di Trump, Salvini, Orban, Bolsonaro, rappresenta il tentativo del capitale nazionale, sconfitto nell’epoca della globalizzazione, di ripiegarsi entro i propri confini, con tutte le conseguenze che tale scelta comporta, come ad esempio dazi e controllo dell’immigrazione.
La battaglia di Greta sarebbe pertanto facilmente spiegabile come un tentativo di riassestare l’opinione pubblica attorno alle posizioni più aperte e cosmopolite, proprie di un capitale che si esplica invece su un piano internazionale, emanazioni di un’élite urbana e progressista che maggiormente ha tratto giovamento dalla globalizzazione, ottenendo appunto quella mobilità ed integrazione internazionale grazie alla quale oggi un londinese è molto più affine ad un parigino di quanto lo sia rispetto ad un abitante di una qualsiasi campagna inglese.
La questione ambientale è quindi un tema facile e a presa rapida con cui affrontare l’attuale classe dirigente repubblicana degli Stati Uniti ed il sistema di idee da essa incarnato, dove assieme al conservatorismo più spinto e ad una rinnovata tendenza imperialista, alberga addirittura il negazionismo circa il cambiamento climatico.
Il movimento giovanile Fridays for Future sarebbe pertanto da inquadrare nel contesto di una battaglia tra élite, tutta interna alla logica capitalista, in cui i giovani rischiano di ritrovarsi nello spiacevole ruolo di pedine tra gli schieramenti di due opposti padroni che si contendono il mondo.
Che allo stato attuale poi il movimento non costituisca una minaccia per il sistema è abbastanza evidente, a partire dall’enorme copertura mediatica e dalle rapide adesioni suscitate. D’altronde, un appello cha mette tutti d’accordo (o quasi), non può che essere generico o vuoto: il fatto che il PD di Zingaretti – il quale, come primo atto della sua segreteria, si è recato in visita al cantiere TAV – e di Calenda, uomo di Confindustria, si sia pubblicamente schierato in favore di Greta, indica quanto sia innocuo un certo tipo di ambientalismo.

Che fare, dunque?

Occorre innanzitutto evitare l’atteggiamento proprio di quei comunisti da tastiera che criticano le adesioni “da sinistra” all’appello di Greta, giudicando la lotta per il clima come totalmente fondata su presupposti borghesi e come una distrazione dal tema fondamentale, ovvero il conflitto tra capitale e lavoro.
Rispondere “parliamo di lavoro” all’urgenza della questione ambientale è un approccio totalmente inconcludente, sintomatico di una imbarazzante ristrettezza di vedute, propria di chi si ancora dietro ad un purismo ideologico che non tiene conto dei processi in cui si svolgono e si manifestano le contraddizioni sociali. In verità,
l’irriducibile conflittualità tra capitale e lavoro e quella tra capitale ed ambiente rappresentano due facce di una stessa medaglia e compito dei comunisti è invece di agire all’interno dei movimenti per far raggiungere ad essi un più elevato grado di consapevolezza: la lotta contro il cambiamento climatico va declinata pertanto in senso anticapitalista.

Chi paga la transizione ecologica?

Il rifiuto di additare il sistema economico come responsabile dei cambiamenti climatici, in nome di un generico ambientalismo che non sa mettere in discussione i rapporti sociali responsabili di sfruttamento, profitto privato e crisi economiche, è una condotta alquanto miope, che nell’immediato ha l’effetto di spostare la lotta per un mondo migliore su un piano prettamente individuale, secondo il quale sarebbero i comportamenti virtuosi del singolo a poter salvare il pianeta.
Si tratta di una magnifica operazione condotta da parte dell’ideologia capitalista, di una comoda deresponsabilizzazione che consente così di scaricare sui consumatori le responsabilità invece strettamente legate alla sfera della produzione. Alle coscienze dei singoli rimane quel vago e generalizzato senso di colpa, al più traducibile, per gli individui più sensibili, in un incentivo a fare la raccolta differenziata e ad andare in bicicletta: azioni encomiabili, ma che dovrebbero essere praticate costantemente e da una grande fetta di popolazione per ridurre in qualche modo l’impatto dell’uomo sull’ecosistema.
Con un identico approccio si affronta la questione della la fame del mondo: mentre si fa leva sul senso di colpa dell’occidente opulento per donazioni e adozioni a distanza, si omettono in parallelo le responsabilità delle nostre imprese che rapinano da decenni le materie prime dell’Africa.

Troviamo una buona analisi della questione ambientale in un bell’articolo ad opera del collettivo di economisti “Coniare Rivolta”.

[…] spesso si sentono appelli generici all’adozione di comportamenti individuali virtuosi e rispettosi dell’ambiente, quasi fosse la via preferenziale per risolvere gli squilibri causati dalle azioni antropiche sugli equilibri naturali. […] Stando a questo approccio, l’azione individuale, anziché quella collettiva, viene vista come mezzo per raggiungere gli obiettivi preposti. Da un lato, si tende a far ricadere le responsabilità sul singolo consumatore che utilizza troppa plastica, che non effettua la raccolta differenziata o che prende la macchina per andare al lavoro. Dall’altro, si pone l’attenzione su comportamenti del singolo individuo […] e allo stesso tempo si sorvola sulle gigantesche responsabilità delle grandi industrie […].”

Il ‘tipico’ ragionamento errato è il seguente: se io riuso il mio sacchetto della spesa, magari anche non di plastica, e lo dico ai miei amici e tutti i miei amici lo dicono ai loro amici, prima o poi non si userà più plastica, e (forse) questi sacchetti non saranno più prodotti. Un ragionamento diverso potrebbe, invece, essere il seguente: tramite un aperto impegno politico ottengo una legge che vieti l’utilizzo di sacchetti in plastica nei supermercati. Nel primo caso si ha un ragionamento autoassolvente – poiché è verosimile che la mia singola condotta tendenzialmente non cambierà niente – che appaga la coscienza senza che siano richiesti grandi sforzi. Nel secondo caso si può aspirare a ottenere il risultato sperato, ma è molto più faticoso: bisogna aderire ad un partito o fare pressione su un partito perché proponga e approvi la legge, oppure raccogliere firme, sensibilizzare l’opinione pubblica… in poche parole, occorre attivarsi realmente.”

Lo spostamento del problema sulla coscienza individuale poi è strettamente legato ad un altro aspetto, riassumibile nella domanda: chi paga per la transizione ecologica?

I viaggiatori che usano Flixbus lo sanno bene: al momento di ultimare l’acquisto del biglietto dell’autobus, l’azienda di trasporti chiede loro di devolvere poche decine di centesimi al fine di abbattere le emissioni di CO2 della tratta. D’altronde, caro consumatore, sei tu ad inquinare! Sei tu quindi a dover espiare le tue colpe con un sovrapprezzo!

Una politica dello stesso tipo, ma generalizzata in quanto progettata come tassa sul consumo, ha portato il presidente francese Macron a fare i conti con la rivolta sociale dei gilet gialli. In questo caso il modo di favorire la transizione ecologica è stato individuato in un incremento della tassazione sul prezzo del carburante, fatto che ha ovviamente penalizzato gli abitanti della Francia rurale, costretti ad utilizzare veicoli privati per spostarsi e lavorare, e su cui ogni spesa aggiuntiva rischia di diventare un insostenibile salasso, specialmente per chi vive nei luoghi dove il servizio di trasporto pubblico è inesistente o inadeguato a sostituire il proprio mezzo di locomozione.

Insomma, quando le disuguaglianze sociali sono stridenti, anche l’ambientalismo rivela la sua natura di classe e resta appannaggio dei ceti urbani benestanti, mentre invece il suo costo va a colpire le fasce più deboli della popolazione, guarda caso proprio quelle che in proporzione inquinano di meno.

Ambientalismo anticapitalista e compito dei comunisti

Alla luce dei fatti e dei movimenti emersi negli ultimi anni, appare chiaro che non possiamo più nasconderci dietro alla favola dello “sviluppo sostenibile” finché la realtà economica sarà determinata e diretta dall’interesse privato.
La necessità di una maggiore tutela ambientale dall’azione antropica, tornata all’ordine del giorno anche grazie al Fridays for Future, deve essere l’occasione di un ripensamento generale dell’attuale sistema, senza tuttavia perdere di vista le specificità delle singole realtà, sia continentali, sia locali.
Inibire lo sviluppo industriale del Terzo Mondo equivale a condannare miliardi di persone alla povertà, persone che quindi non potranno mai giungere ad un grado reale di emancipazione. In Occidente, invece, il ragionamento da fare è esattamente contrario e riguarda metodi di produzione ecosolidale e redistribuzione della ricchezza. Partiti e movimenti per il clima devono agire quindi a livello locale, rilanciando la difesa dei territori dalle grandi opere ad alto impatto, per poi coordinarsi a livello globale, con la prospettiva di una società finalmente pulita ed equa.

Il presupposto fondamentale resta però quello di cambiare il modo di concepire e di gestire la produzione. Lasciare alla logica del profitto il compito di dirigere l’economia implica che pochi grandi gruppi industriali inonderanno il mercato di merce per non lasciare spazi alla concorrenza, che spenderanno milioni in pubblicità per creare falsi bisogni, che sarà loro interesse produrre dei beni presto obsoleti e sostituibili, solo per prolungare le vendite e mantenersi in attivo. Implica che ci saranno altre guerre, per ristrutturare i mercati ed accaparrarsi quei giacimenti naturali in possesso di altri popoli. Insomma, il mondo in cui viviamo oggi, perpetuato per chissà quanti anni ancora, con la concezione assurda di poter perseguire una crescita infinita in un pianeta, invece, dalle risorse finite.
La lotta ambientalista deve pertanto coerentemente richiedere che la produzione sia subordinata alla pubblica utilità; al posto del privato, il quale risponde esclusivamente al proprio interesse, appunto privato, deve essere la collettività a stabilire, in base alla proprie esigenze, cosa produrre, quanto produrre, come produrre.

*Segreteria Nazionale FGCI

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