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Biden è presidente negli Usa della crisi permanente

Dopo la “baruffa” a Washington dello scorso pomeriggio, i lavori per sancire formalmente la vittoria di Biden sono ripresi, ed alle quattro di notte circa.

“Sleepy Joe” è stato dichiarato essere il 46simo Presidente degli Stati Uniti. Qualche ora prima, grosso modo durante l’assalto brancaleonesco a Washington con la compiacenza delle gerarchie che dovevano assicurarne la sicurezza, venivano confermati i risultati delle elezioni per il Senato svoltesi il 5 gennaio in Georgia che hanno visto la vittoria dei due sfidanti democratici.

Nonostante la parità (50 e 50) degli eletti nella camera alta, la maggioranza è democratica grazie al voto della Harris, la vice di Biden. L’ex numero due di Obama, una volta in carica il 20 gennaio, avrà la maggioranza in entrambe le camere e quindi maggiori margini d’azione.

Lo staff presidenziale che ha preso forma nel convulso periodo di transizione, al di là delle “operazioni simpatia” promosse dai media mainstream, é composto da un ceto di tecnocrati nei ruoli fondamentali, parti integranti dell’establishment democratico da Clinton in poi.

Sono cioè la quintessenza di ciò che la working class bianca odia visceralmente, perché li ha portati alla rovina. Il fatto che l’odio verso le élites abbia come output anche un acceso anti-comunismo innestato sui valori del suprematismo bianco, è il prodotto tanto della politica democratica – che ha defenestrato Sanders alle primarie – quanto della capacità politiche dell’outsider repubblicano.

L’America profonda è con Trump, senza se e senza ma, perché è contro il Sistema. Biden ha di fronte un ginepraio di problemi che riguardano sia la politica interna che quella internazionale.

In primis c’è una catastrofe sanitaria – non risolta nemmeno in parte da una fallimentare (non per big pharma) campagna di vaccinazione – con un numero di decessi che finito l’inverno potrebbero eguagliare i morti statunitensi nella Seconda Guerra Mondiale. Legata a questa c’è una crisi sociale che non si vedeva dalla Grande Depressione, di cui i cospicui aiuti federali possono curare i sintomi ma non le cause, grazie ad una capacità di indebitamento senza pari su cui si regge un sistema che poggia sul dominio del dollaro e la potenza militare. Detto in soldoni sull’egemonia, da tempo in declino, degli Stati Uniti del mondo.

In politica estera Biden, nel periodo di transizione, ha già incassato due pesanti sconfitte, un po’ come un pugile che viene picchiato prima di salire sul ring, e sono la firma del RCEP, cioè il più grande accordo di libero scambio di tutti i tempi tra 15 Paesi asiatici, ed il CIA, l’accordo sugli investimenti tra UE e Cina, che sarà una delle maggiori beneficiarie del RCEP.

In America latina la nuova onda progressista non sembra per ora entrata in risacca, ma rischia di diventare uno tsunami in grado di travolgere la borghesia compradora legata a Washington e a Bruxelles, con Guaidó destinato a passare il suo fine carriera nell’isola dei famosi.

In Medio Oriente Trump gli ha avvelenato i pozzi, specie in Iran, mentre Russia e Cina assumono un ruolo di primo piano, con Arabia Saudita e Qatar che ritrovano una intesa foriera di ulteriori cambiamenti nella regione… Stiamo assistendo all’implosione di un sistema ed allo stesso tempo al tentativo di salvaguardare una rendita di posizione, come un sub che vuole tornare in superficie senza sgangiarsi i pesi che aveva indossato per andare in profondità.

Per sganciare la zavorra, gli USA dovrebbero divenire “un paese come gli altri”, ma non lo sono mai stati. Impietosamente noi, dandogli qualche sonora bastonata, dobbiamo sperare che affoghino ancora un po’ e che nella crisi che si aperta prevalga quella tendenza, emersa già in piena pandemia, di “un nuovo movimento operaio” e con la rinascita di Black Live Matters.

 

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