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Materialismo dialettico e questione ecologica

Il testo che segue è tratto da una intervista radiofonica realizzata il 27 febbraio 1988 nel corso della trasmissione “A VOCE – rivista parlata per una cultura antagonista” da Radio Città 103 di Bologna, venne pubblicato sulla rivista “La Contraddizione” nel numero 12, del maggio-giugno 1989. Ringraziamo Roberto Sassi per averlo recuperato e rimesso in circolazione.

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La “sparizione del marxismo” e le forze produttive

Ormai non si parla nemmeno più di “crisi del marxismo”, il marxismo è un pensiero “dimenticato” ed è un pensiero dimenticato nella misura in cui,oggi, è in crisi il concetto stesso di “modernità”. Il marxismo è pensiero della modernità, è la teoria che analizza gli elementi fondamentali della realtà, dal punto di vista della produzione e del modo col quale l’uomo vive la cosiddetta “seconda grande rivoluzione” che è quella industriale. Oggi, che viene messa in discussione la stessa rivoluzione industriale, vengono messi in discussione i contenuti della modernità, oggi il marxismo sembra sparito. In realtà non c’è nei media, in realtà è un momento di assenza dovuto a una serie di cause estremamente complesse.

Una delle cause più interessanti è l’emergere, drammaticamente oggi, della polemica sulle “forze produttive”. Contrariamente a tutta l’analisi che è stata fatta nel momento “caldo”, quando le forze produttive sono state incorporate direttamente nel capitale (sia nell’organizzazione del lavoro che nel modo di produzione) e che ha interpretato questo processo come “salto” diverso del capitalismo, Marx sosteneva che c’è una contraddizione fondamentale tra mezzi e modi di produzione, tra forze produttive e rapporti di produzione. Sosteneva che un sistema “crolla”, ma anche che ci vuole sempre il “becchino”, perché niente crolla da solo. Ed è questo il grande contributo di Lenin che ha esaminato questo becchino fino in fondo.

Oggi non è casuale che il problema delle forze produttive sia all’ordine del giorno. Il concetto di forze produttive non si riduce semplicemente alla tecnologia: all’interno del problema delle forze produttive sta quello che viene chiamato “problema dell’eccesso di popolazione”. Quindi il modo col quale tecnologicamente si interviene sulla terra, nella natura, col quale si manipolano i materiali, il modo in cui si organizza il lavoro e si affronta il problema, della popolazione, in poche parole quelli che sono i temi centrali oggi nel dibattito, sono appunto i problemi delle forze produttive ed è su questi che il pensiero di Marx si mostra ancora vivo ed attuale. Se si considerano le forze produttive come l’elemento determinante e non come l’elemento della contraddizione, così come faceva Marx, si ritiene di dover modificare le forze produttive anziché il modo di produzione; si ritiene che il problema sia quello di mutare, o di imputare alla scienza e alla tecnica, quelli che sono, in realtà, i risultati di un incorporamento di questi elementi nel modo di produzione capitalistico.

Si tratta di un ottica estremamente corta, cieca, rispetto alla tecnologia, al sapere scientifico, alla capacità manipolatrice dell’uomo; è per questo che il modo col quale oggi occorre reinterrogare il marxismo non è soltanto sul piano categoriale. È necessario, altresì, andare a vedere cos’è questa “crosta tecnologica” che il modo di produzione capitalistico ha costruito e come, in realtà, il rapporto dell’uomo con la natura, dell’uo­mo con il suo ambiente, possa ridarsi “in esplorazione”, in una riesplorazione del territorio in modi differenziati. A questo livello le categorie del marxismo risultano estremamente utili, proprio per leggere questa realtà e per focalizzare questa contraddizione fra modo di produzione e forze produttive. Oggi che il capitalismo è in una fase estremamente “matura”, come direbbe Marx, il problema delle forze produttive è al centro dell’attenzione, ma non sono le forze produttive l’antagonista o il nemico, il nemico sta altrove. Il problema delle forze produttive, se impostato in modo errato, ci impedisce di vedere quali siano i centri del potere, dove avviene realmente la strutturazione del sistema. Il rischio della attuale “crisi del marxismo”, o meglio della “sparizione del marxismo”, è che non si riesce più a vedere quello che è l’artefice del nostro modo – non esattamente soddisfacente – di vivere e di produrre.

Lotta di classe e lotta di specie

È peculiare del marxismo che lotta di classe e lotta di specie siano la stessa cosa, naturalmente per quanto riguarda il proletariato. Sono la stessa cosa perché il marxismo è anche progettualità di una società diversa che ricompone, quella lacerazione profonda fra uomo e natura che ha origini precedenti al capitalismo. Per questo il comunismo deve essere pensato come una ; realtà nuova, che riconcilia l’uomo con la natura. Nel marxismo quindi c’è un discorso di specie che, però, non è mai un discorso semplicemente di “natura umana”. La antropologia marxista è una antropologia di tipo materialistico: c’è questo “pensiero a margine” nel marxismo, pensiero a margine nel senso che è stato sviluppato da Marx e da Engels solo entro certi limiti e nella misura in cui è prevalsa l’analisi del modo di produzione capitalistico. :

Tuttavia, il marxismo si definisce materialismo dialettico e Marx, non solo negli scritti giovanili ma anche nel Capitale, elabora un concetto di materia, un concetto del materiale concreto che si basa sulla definizione dell’uomo come “essere del bisogno”: gli uomini sono coloro che esprimono determinati bisogni, il sistema produttivo risponde a questi bisogni. Ora, nel marxismo si articola una antropologia che analizza ad esempio tutte le condizioni della vita quotidiana: è tradizione del movimento operaio, e peculiare del marxismo, l’indagine e l’analisi delle condizioni della vita materiale e la lettura di queste in relazione al sistema produttivo.

Oggi questo tipo di analisi deve essere fatta reinterrogando il marxismo e utilizzando tutta una serie di strumenti culturali che non esistono nella nostra cultura o che esistono a margine. A esempio la “nuova geografia” che è una geografia sociale, politica, che si interroga sui contenuti e sui problemi delle varie civiltà: dagli studi sulle civiltà orientali, agli studi sulla “crosta tecnologica”, a quelli che riguardano il manto vegetale e la sua trasformazione, alla ridefinizione del paesaggio attuale e alla sua identificazione come paesaggio urbano. Ad esempio gli studi storici, della “nuova storia”, che analizzano il problema della “lunga durata” o studi ancora più estranei alla nostra cultura che sono quelli dell’“etnobotanica” o anche della “nuova preistoria”. Non è casuale che proprio oggi ci si interroghi sulla preistoria, e non ad esempio sulla società medioevale, andando a monte della prima grande rivoluzione, quella neolitica, a cogliere tutta una serie di elementi che abbiamo perso nel nostro percorso. Ci si interroga sul destino dell’uomo nel futuro guardando sempre al­l’indietro, con una stranissima ottica che è tipica, del modo col quale l’uomo progetta il presente e il futuro.

Sono questi strumenti che ci permettono di vedere, per esempio, come la nostra cultura sia una cultura eurocentrica che legge ad esempio il passaggio dalla società dei raccoglitori a quella degli agricoltori come passaggio obbligato alla agricoltura. Mentre quando studiamo le civiltà orientali, ci accorgiamo che esiste una possibilità di essere sedentari senza essere necessariamente agricoltori: a monte di queste civiltà c’è quel rapporto che è stato definito come “l’amicizia rispettosa” tra la pianta e l’uomo. Amicizia rispettosa che significa equilibrio tra lo sviluppo della società, o della “natura seconda”, e la “natura prima”, una capacità di mantenere gli equilibri naturali, di inserirsi in essi, che oggi abbiamo perso. Non si deve però considerare la natura come “armonia”, altrimenti la si divinizza, non si devono dimenticare i cataclismi naturali: l’uomo non è l’unica forza distruttiva. Tuttavia il problema del rapporto uomo-natura è il problema centrale, perché l’uomo è un essere naturale, con la sua natura che costruisce natura manipolandola. Il rapporto uomo-natura è fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo stesso: l’ambiente non è qualche cosa che possa essere manipolato senza determinate condizioni, le forze produttive devono essere sviluppate e non distrutte.

Il sistema capitalistico è il sistema dello spreco, della distruzione e della morte. Il problema della lotta di classe si chiarisce allora come lotta di specie, perché si tratta di ridefinire il senso stesso dell’uomo e della società in rapporto con il suo ambiente e il marxismo ha molte cose da dire a questo proposito. Si tratta semplicemente di ritrovarle queste cose, che una certa tradizione “produttivistica” del movimento operaio ha dimenticato, facendo degli ideali del sistema capitalistico la propria cornice d’intervento. Quando noi monetizziamo la salute, siamo dentro questo sistema e ne accettiamo le regole, quando per i posti di lavoro dimentichiamo i contenuti di morte di una fabbrica, noi siamo dentro e accettiamo le regole di questo sistema. Il marxismo non ha mai accettato le regole del sistema e in questo senso definisce la propria antropologia.

Marxismo e discipline dell’ecologia

II problema del rapporto fra le “discipline dell’ecologia” (“etnobotanica”, “nuova geografia”, “nuova preistoria”, ecc.) e il marxismo è abbastanza complesso. La validità di una ricerca storica, geografica, etnobotanica ecc. sta nel fatto che questa fornisce, fra le altre cose, anche una serie di materiali, di letture, di categorie con le quali è necessario confrontarsi; il “lavoro vivo” del ricercatore è, come tale, estremamente importante ed utile.

L’antagonismo tra queste discipline e il marxismo dipende, prima di tutto, dal fatto che il marxismo è diventato curiosamente “economia”, anziché essere “critica dell’economia”. Marx viene abbandonato nel momento in cui si separa la storia dall’economia e l’economia diventa il campo in cui si lavora unicamente con la matematica, mentre la storia resta tutt’altra cosa. In questo senso è molto importante, ad esempio, il fatto che Les Annales propongano un concetto di “storia totale” nel quale niente di ciò che riguarda l’uomo è estraneo alla storia. Questa concezione è senz’altro comune alla storiografia delle “Annales” ed alla storiografia marxista, anche se rimangono delle differenze fondamentali fra le due metodologie storiografiche.

Purtroppo il concetto di storia in Marx, i suoi lavori storici, sono fra le cose che non vengono sufficientemente studiate ed analizzate. Il fatto, per esempio, che in Marx la storia sia anche storia-progetto, che Marx elabori un concetto di storia in cui c’è la visione del passato e la capacità progettuale verso il futuro, è uno degli elementi che mancano proprio nell’analisi del marxismo che astrae unicamente l’aspetto economico. Non solo, ma dal marxismo è stato espunto tutto il contributo di Engels, e quindi tutto ciò che riguarda la natura, la dialettica della natura, la base materialistica.

Attraverso le discipline dell’ecologia riappare ciò che il ‘900 ha fatto scomparire, e cioè riappare il reale, la materia. Utilizzando queste discipline è possibile ridefinire la realtà e ridefinire, quindi, nella modernità il materialismo. Questo è il punto teorico difficile, proprio nel ‘900 che ha dissolto tutto attraverso il linguaggio, ha dissolto tutto nella ragione e, a questo punto, ha dissolto anche la ragione e il soggetto. Occorre, in sintesi, porre queste discipline in rapporto con il marxismo, per far riapparire il reale, la materia, la natura.

II rapporto uomo-natura e i rapporti sociali

Nella storia ci sono due tipi di agricoltura, due tipi di allevamento. Da un lato le antiche civiltà dei tuberi, le quali intrattengono un rapporto che è personale con il tubero, l’uomo assume cioè il rapporto con la pianta nella sua singolarità, attraverso una serie di rituali. Dall’altro lato c’è il mondo del grano, dove l’uomo usa un rapporto con le piante massificandole, come avviene appunto con un campo di grano, dove le piante diventano tutte uguali, non hanno più nome, non hanno più individualità, ideologie, senso del sacro. Ecco, c’è un legame stretto tra questo nodo diverso di trattare la pianta (o l’animale ovviamente) e il modo col quale si costruiranno, poi, tutte le altre sovrastrutture, il modo col quale l’uomo intraprende, poi, il rapporto con il mondo nella sua globalità e quindi il modo col quale gli uomini stanno fra di loro. Quando si sfrutta la pianta e quando si sfrutta l’animale, con essi si sfrutta l’uomo.

Engels, negli scritti giovanili, afferma che la vendita della terra è superata solo dalla vendita dell’uomo da parte dell’uomo, lo sfruttamento della terra è superato solo dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E lo sfruttamento della terra è l’atto che sta a monte della società capitalistica. La privatizzazione della terra – che significa: “faccio di questa terra tutto ciò che voglio”, la spreco, non è più di tutti, non è più un bene, non è più valore d’uso” – è l’atto istitutivo del capitalismo. E quest’atto fa tutt’uno con la vendita della forza lavoro, con la riduzione dell’uomo a forza lavoro. La vendita della terra e la vendita di forza-lavoro sono stesso atto. Il rapporto che noi abbiano con la natura è il rapporto che abbiamo con l’uomo, è il modo col quale ci rappresentiamo la realtà e costruiamo il nostro immaginario, il nostro simbolico, il nostro modo dì produrre.

Sono molto interessanti, da un punto di vista epistemologico, i tipi di codici che le varie società istituiscono nel rapporto con le piante e nel rapporto con gli animali. È interessante vedere quanto questi codici rivelano dei rapporti tra l’uomo e la donna, degli uomini fra di loro, delle istituzioni, dell’economia, del rapporto con la politica. Quanto rivelano della civiltà, sia negli aspetti sociali complessivi che negli aspetti individuali, nella sensibilità, nel quotidiano. È importante perché queste sono le cose che durano, che proseguono nel tempo, che è più difficile mutare. Queste sono le cose sulle quali crollano le rivoluzioni, che si “mangiano” le rivoluzioni, perché se non si cambia il quotidiano, una rivoluzione viene “rimangiata”. Una rivoluzione non è sufficientemente ribaltante se non riesce a ribaltare le abitudini del quotidiano, le cose che durano secoli.

Catastrofe ambientale e memoria storica

Non possiamo non porci il problema del rapporto uomo\natura, non possiamo, non porcelo nell’attualità, sarebbe accettare la nostra morte. Forse siamo già a un punto di non ritorno, è una sfida contro la storia. Il problema è posto dal marxismo nei termini di “socialismo o barbarie”, nel senso che siamo al limite di rottura, e l’abbiamo in parte già superato, con la natura. È un mito, però, pensare ad un equilibrio con la natura immaginando una natura buona, una natura “mamma”, una armonia senza contraddizioni: la natura non è buona e l’uomo non è buono, la natura è cattiva anche. In realtà sono questi termini che non vengono accettati dal marxismo, è questo modo di antropologizzare la natura che non va bene

Il problema della modernità, per dirla con Braudel, è che non ci sono più “contrazioni” ed “espansioni” nel senso vecchio del temine, perché capitalismo significa anche che la popolazione cresce, significa che non ci sono più diverse civiltà, ma c’è una sola civiltà. La modernità,a cominciare dalla scoperta dell’America, è rappresentata dai “cavalieri che non scendono da cavallo”, che non si fanno conquistare dalle altre civiltà, che abbattono le barriere tra le varie civiltà e impongono. Noi abbiano imposto la civiltà occidentale, abbiano distrutto le “civiltà del vegetale”.

Il capitalismo ha creato un sistema-mondo dove il sottosviluppo e le distruzioni sono tutt’uno con lo sviluppo, sono “l’altro corno”. I geografi stanno adesso studiando come l’uomo si abitui a convivere con la catastrofe, a tornare nei posti dove ci sono stati terremoti per viverci, con la prospettiva di un territorio che si squarta. Stanno studiando come noi ci abituiamo a vivere sapendo che fra poco non avremo più aria respirabile, quindi come ci abituiamo a convivere con la catastrofe.

È come durante il nazismo, tutti sapevano quello che avveniva, tutti noi oggi sappiamo che stiamo morendo, ma curiosamente anziché ribellarci tutti, conviviamo con questa idea come se fosse una cosa, in fondo, risolvibile con la bacchetta magica, all’improvviso; come se fosse semplicemente una trovata pubblicitaria, o una cosa che non ci riguarda perché tanto moriamo fra venti o trent’anni, gli altri ci penseranno, o si troverà magicamente una soluzione tecnica. Non ci sono soluzioni tecniche magiche:e non è vero che si tratta di controllare la tecnologia: il problema è il modo di produzione; o affrontiamo questo “corno”, questo “nodo”, che è quello posto dal marxismo, o in realtà c’è solo la morte.

L’abitudine alla catastrofe non è, nel nostro caso, da ricondurre ad una “inerzia” delle masse, ma al peso di una sconfitta, il che è profondamente diverso. Il movimento operaio ha sempre imparato molto più dalle sue sconfitte che dalle sue vittorie. La storia del movimento operaio non è fatta di tante vittorie, quelle che ci sono state, però, hanno pesato e hanno cambiato il mondo. La storia del movimento operaio è una storia dura, che ha subito tante sconfitte. La gravita della nostra situazione presente è che manca un bilancio, una consapevolezza sufficientemente approfondita, di quello che è stato l’ultimo grande periodo, che non è il ‘68 ma è il ‘68/’77, o meglio sono gli anni ‘60 e gli anni ‘70 nella loro complessità, quello che è stato in Italia quasi un ventennio di lotte. La mancanza di questa analisi, di questa riflessione, il fatto che non ci sia, per questo periodo, quello che Lenin ha fatto per il 1905, è una cosa molto grave, molto pesante. Oggi la storia non è più fatta a livello individuale, ma a livello di grande istituto: è tutto computerizzato, controllato attraverso i mass-media, presto non sarà più possibile fare storia autonomamente.

Il problema della memoria, cioè della consapevolezza critica rispetto al presente e al futuro in relazione al passato, è uno dei grandi problemi della nostra cultura. Perché a un certo punto finiamo con il credere alle immagini invece che a quello che è avvenuto: sempre più la immagine diventa ciò che è credibile. In questi anni duri, in questi anni di assenza, quando pensiamo al nostro passato lo pensiamo come il passato di un altra persona, come se fossero passati secoli tra ciò che è avvenuto qualche anno fa e ciò che sta accadendo a-desso. A volte ci si sente un’ombra. È importante capire che si è resi ombra da un certo tipo di cultura. È necessario non permettere questa operazione. Cessare di essere ombre e riprendere in mano il proprio filo, il proprio passato, la propria storia e ricominciare a raccontarla, ricominciare a testimoniare.

*filosofa marxista, scomparsa a marzo 2021

(la grafica di copertina è di Paolo Burani)

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