In questi duri e drammatici giorni che stanno scandendo la ripresa della Resistenza Palestinese all’inenarrabile ciclo di oppressione neo/coloniale che da molti decenni strangola ogni possibilità di emancipazione del popolo palestinese e del complesso dei popoli medio/orientali avvertiamo – anche tra persone che solidarizzano con la causa palestinese – alcuni distinguo verso determinate “forme di lotta” che vengono “giudicate” attraverso un punto di vista “freddo” e sostanzialmente astratto.
Un “punto di vista” che interpreta gli sconvolgimenti in Palestina (ma, probabilmente, lo stesso metro di misura si applicherebbe in qualsivoglia area di crisi fuori dal “giardino euro/atlantico”) dai divani delle nostre case occidentali dove – oggettivamente – le forme del dominio capitalistico, per quanto accentuate, sono diverse e non assolutamente paragonabili alla spietatezza ed all’assenza di ogni anelito di “umanità” che è la caratteristica fondante con cui si riproduce l’occupazione israeliana in Palestina e, ancora di più, nella Striscia di Gaza.
La diffusa cultura Eurocentrica da più di un secolo è incapace di decifrare il grido di dolore e la richiesta (per quanto possa esprimersi in forme spurie e confuse) che sale dal Sud del Mondo e che, puntualmente, trova muri, rapine di risorse, di forza lavoro e “interventi militari umanitari” da parte dell’Occidente. Una condizione coattiva che non facilita la corretta comprensione degli avvenimenti e che distorce le dinamiche reali aumentando – inevitabilmente – l’incomunicabilità anche tra settori popolari e di classe del Sud e del Nord del Mondo.
La stessa tradizione della “Sinistra Occidentale” (ricordiamoci l’atteggiamento dei comunisti francesi che, agli inizi degli anni Sessanta, stigmatizzavano la lotta e le azioni del Fronte di Liberazione d’Algeria non cogliendo la potenza antimperialista ed anticolonialista dei moti di liberazione nazionale che in Algeria come altrove assestarono un colpo significativo al vecchio ordine imperiale), quando approccia ai conflitti in questa “parte del Mondo” oscilla – nella stragrande maggioranza delle occasioni – tra una atteggiamento esotico ed estetizzante il quale non coglie i contenuti di rottura e di liberazione che si palesano oppure si fa portatrice di categorie interpretative razziste e/o apertamente suprematiste.
Il risultato pratico di tale deriva teorica e culturale è che – di fatto – si lascia “spazio politico” a forze religiose e politiche interclassiste, legate ad interessi delle nuove borghesie/potenze regionali in formazione in quelle aree territoriali le quali assumono, agevolmente, “la direzione” di questi movimenti e moti sociali.
Restando alla Palestina è utile evidenziare che la lunga parabola politica dell’OLP è stata segnata da questa “tara teorica” la quale ha progressivamente subordinato la propria azione nel corso del tempo ad un impossibile compromesso con lo Stato Sionista d’Israele. Una linea di condotta la quale oltre ad accumulare sconfitte per le popolazioni palestinesi ha favorito l’autorevolezza e la crescita delle “alternative islamiche, claniche e legate ad alcuni stati del Vicino e Medio Oriente”.
Ovviamente – oggi – il nostro posto è al fianco della Resistenza Palestinese – senza se e senza ma – ma vogliamo invitare alcuni “critici” alla lettura di un articolo scritto di Karl Marx, pubblicato sul New York Daily Tribune, nel 1857.
In questo articolo Karletto – raccontando la violenta ribellione dei lavoratori indiani contro la Compagnia Britannica delle Indie Orientali e assistendo ai toni di sdegno e di esecrazione che tali avvenimenti avevano provocato nelle opinioni pubbliche occidentali – sferza quanti in maniera ipocrita avevano taciuto, coperto e usufruito delle bestiali forme di aperta schiavitù con cui le Compagnie Britanniche caratterizzavano la loro presenza in India.
Un articolo che è utile ricordare anche alla luce dei recenti avvenimenti in Palestina.
La rivolta indiana
Le violenze commesse dai Sepoy in India sono invero atroci, mostruose, indicibili come ci si aspetta di trovarne solo in guerre insurrezionali, di nazionalità, di razza, e soprattutto di religione. Insomma sono come quelle che un inglese per bene soleva plaudire allorché commesse dai Vandeani sui Bleus1, dai guerriglieri spagnoli sugli infedeli francesi, dai serbi sui vicini tedeschi e ungheresi, dai croati sui ribelli viennesi, la Garde Mobile di Cavaignac e i Décembristes di Luigi Bonaparte sui figli e le figlie della Francia proletaria. Benché infame, la condotta dei Sepoys è che il riflesso, in forma concentrata, della stessa condotta degli inglesi in India, non solo durante il periodo di fondazione del loro impero orientale, durante l’ultimo decennio di una dominazione ormai consolidata, per caratterizzare la quale basti dire che la tortura formava un istituto organico della politica finanziaria del governo 2. C’è nella storia umana un che di simile alla legge di compensazione e uno degli articoli di questa legge è che il suo strumento sia forgiato non dagli oppressi, ma dagli oppressori.
Il primo colpo alla monarchia francese fu vibrato dai nobili, non dai contadini. La rivolta indiana non inizia coi ryot torturati, insultati e denudati dagli inglesi, ma dai Sepoys ch’essi avevano vestito, nutrito, adulato, pasciuto e corteggiato. Quanto a trovar dei paralleli alle atrocità dei ribelli non serve risalir al Medioevo come dice la stampa londinese, né uscir dalla storia dell’Inghilterra contemporanea. Basta studiare la prima Guerra dell’oppio: un evento di ieri, per così dire. Allora la soldatesca britannica commise orrori per il solo gusto di commetterli, non essendo le sue passioni santificate dal fanatismo religioso, né esacerbate dall’odio per una tracotante razza conquistatrice, né alimentate dalla resistenza caparbia di un nemico eroico. Lo stupro, l’uccisione a fil di spada dei bambini, il rogo dei villaggi, furono allora sollazzi gratuiti, narrati dagli stessi ufficiali e funzionari inglesi, non dai mandarini.
Anche nella catastrofe presente sarebbe un errore imperdonabile dar ai Sepoys il monopolio della crudeltà e alla parte avversa quello della carità. Le lettere degli ufficiali inglesi trasudano malvagità. Scrivendo da Peshawar, e raccontando il disarmo del 10° cavalleria irregolare (rea di non aver caricato la 55ª fanteria indigena come ordinatogli) un ufficiale esulta perché, nonché disarmati, gli uomini sono stati privati dei vestiti e delle scarpe e, ricevuti 12 scellini a testa, spinti in colonna alla riva del fiume, imbarcati e spediti a valle dell’Indo, dove lo scrittore gongola all’idea che ogni figlio di donna trovi infine il modo di annegare nelle rapide. Un altro informa che alcuni abitanti di Peshawar, rei di procurato allarme notturno avendo fatto esploder delle cartucce in onore di una coppia di sposi (un costume nazionale), l’indomani furono legati e «ricevettero un’indimenticabile dose di nerbate». Giunge notizia da Pindee che tre capi indigeni stessero complottando? Sir John Lawrence3 risponde ordinando a una spia di sorvegliarli e in base al suo rapporto scritto spedisce un semplice messaggio: «Impiccateli». I tre vengono impiccati. Un funzionario dell’amministrazione civile scrive da Allahabad: «Abbiamo potere di vita e di morte e vi assicuriamo che non lo lesiniamo». Un altro dalla stessa città: «Non passa giorno senza che ne infilziamo da dieci a quindici [di non combattenti]».
Un ufficiale scrive esultando: «Holmes li impicca 20 per volta come un mazzo». Un altro, alludendo all’esecuzione sommaria di parecchi indigeni: «Allora sì che inizia lo spasso!». E un terzo: «La corte marziale sta nella nostra sella: infilziamo o fuciliamo ogni negro che incontriamo». Da Benares risulta che trenta zâmindâr furono impiccati per il vago sospetto di simpatie per i connazionali e interi villaggi furono inceneriti per lo stesso capo di accusa. Sempre da Benares, in lettera pubblicata dal Times, un ufficiale scrive: «Posti dinanzi agli indigeni, i soldati europei si trasformano in demoni».
Non si deve dimenticare, d’altra parte, che le atrocità degli inglesi sono pubblicizzate come atti di vigor marziale (descritti semplicemente, rapidamente, senza trattenersi su particolari disgustosi) mentre le indubbie atrocità dei ribelli sono esagerate apposta. Da chi è venuto, per esempio, il racconto circostanziato delle atrocità commesse a Delhi e a Meerut, apparso prima sul Times e poi diffuso da tutta la stampa londinese? Da un parroco codardo residente a Bangalore, Mysore, cioè a più di mille miglia in linea d’aria dal teatro dell’azione. I resoconti ufficiali trasmessi da Delhi provano che un parroco anglicano può immaginar orrori inimmaginabili per un indù ribelle. Naturamente, per la sensibilità europea le orribili mutilazioni inflitte dai Sepoys (il taglio di nasi, seni etc.) sono peggio del lancio di palle infocate sulle case di Canton a opera di un segretario della manchesteriana Società della pace4 o il rogo di arabi stipati in caverne per ordine di un maresciallo francese5, o il gatto dalle sette code che scortica vivi i soldati britannici giudicati per direttissima da corti marziali, o qualsiasi altro arnese filantropico usato nei penitenziari britannici. La crudeltà come tutte le cose ha le sue mode diverse a seconda del tempo e del luogo. Cesare, il raffinato uomo di cultura, narra candidamente di aver dato ordine di tagliar la mano destra a molte migliaia di guerrieri galli. Napoleone ne sarebbe arrossito: preferiva inviar reggimenti sospetti di simpatie repubblicane a Santo Domingo, a morir di peste o per mano di negri.
Le orrende mutilazioni dei Sepoys ricordano una delle tante pratiche del cristiano impero bizantino, o gli articoli del codice penale di Carlo V, o le pene inglesi per alto tradimento descritte dal giudice Blackstone6. Agli indù, virtuosi per tradizione religiosa nell’arte di torturare sé stessi, tali torture inflitte a nemici della loro razza e della loro fede sembrano affatto naturali: e come dovrebbero sembrare altrettanto naturali agli inglesi che in anni recenti solevano fare profitti dalle cerimonie nel tempio di Jaggernaut, proteggendo e favorendo i riti sanguinari d’una religione crudele?
Le urla frenetiche del «bloody old Times»7 (come era solito chiamarlo Cobbett), il suo recitar la parte del personaggio collerico del Ratto dal Serraglio di Mozart (che nel finale si scioglie nella più melodiosa aria di Osmino all’idea d’impiccare il nemico, poi arrostirlo, poi squartarlo e metterlo allo spiedo e infine scuoiarlo vivo; quel ridurre la passione della vendetta in cenci e brandelli), tutto ciò apparirebbe stupido senza veder dietro il pathos della tragedia i trucchi della commedia. Non è soltanto il panico che spinge il Times a caricare la sua parte. Esso fornisce alla commedia un personaggio ignoto pure a Molière: il Tartufo della vendetta. Il suo scopo è solo giustificar le spese in bilancio e coprir il governo: poiché Delhi non è caduta al primo soffio di vento come le mura di Gerico, è necessario immergere in grida di vendetta John Bull, fino alle orecchie, per fargli dimenticare che del malanno causato, e delle dimensioni colossali che gli si è lasciato prendere, è responsabile primo il suo governo.
New York Tribune, 26 settembre 1857
(da K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, pagg 139-143, Ediz Il Saggiatore, 1976)
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