Pubblichiamo l’introduzione dell’opuscolo “Schiavi mai!
La lotta internazionalista di Cuba per la liberazione dei popoli africani” a cura della Rete dei Comunisti. Il pamphlet contiene la traduzione integrale dei discorsi che Nelson Mandela e Fidel Castro tennero per l’anniversario del 26 luglio a Cuba nella città di Matanzas.
L’opuscolo è diffuso in maniera militante dalla RdC e verrà presentato in varie città italiane nel corso dei prossimi mesi.
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«Quello che hai da fare è lottare. Non ci si può arrendere! L’alternativa è la libertà o la morte!»
Nelson Mandela
Castro e Mandela
Il 26 luglio 1991 Nelson Mandela, presidente dell’African National Congress, e Fidel Castro, presidente di Cuba, per la prima volta presero la parola dallo stesso palco. In questa occasione storica, si rivolsero a una folla di decine di migliaia di persone radunatesi a Matanzas, a Cuba, per celebrare il trentottesimo anniversario dell’inizio della rivoluzione cubana.
Castro, allora 64enne, accolse il leader della lotta liberazione sud-africana (9 anni più anziano di lui) in una visita di tre giorni a Cuba, in un tour latino-americano con cui Mandela intendeva fare pressione affinché non venissero alleviate le sanzioni internazionali contro il regime dell’apartheid in una difficilissima fase delle trattative con l’allora presidente sud-africano W. De Klerk.
L’Occidente criticava Mandela per la propria amicizia con Castro, con il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat ed leader libico Gheddafi, tutti vicini alla causa sud-africana.
«Ora siamo consigliati rispetto a Cuba da persone che hanno supportato il regime dell’apartheid quest’ultimi 40 anni (…) Nessun uomo o donna degno di rispetto potrebbe mai accettare consiglio da coloro che non si sono mai interessati a noi nei periodi di maggiore difficoltà».
Nelson Mandela era stato liberato l’11 febbraio del 1990, dopo 27 anni di prigionia. Madiba era entrato in carcere all’età di quarantaquattro anni ed era considerato, al momento della sua cattura, “il nemico pubblico numero 1” del regime dell’apartheid in Sud-Africa.
Era stato arrestato nell’agosto del 1962, accusato di istigazione allo sciopero e di aver lasciato il paese senza passaporto, e condannato a 5 anni di prigione. Nel 1963, dopo che altri leader vennero arrestati a Rivonia, Mandela – che si trovava in carcere – venne processato per sabotaggio. Fu dichiarato colpevole e condannato all’ergastolo insieme ad altre sette imputati.
L’Anc, come le altre organizzazioni che lottavano contro l’apartheid, erano state bandite nel 1960 dal regime ed agivano in clandestinità.
Mandela fu uno dei principali sostenitori all’interno della Anc del passaggio dalla “disobbedienza civile” alla lotta armata, e tra i fondatori e dirigenti della Umkhonto we Sizwe (Mk), ovvero “Lancia della Nazione” in lingua zulu e xhosa.
L’Mk era una struttura costituita per intraprendere azioni violente ai danni dello stato dell’apartheid che comprendeva anche tra i suoi massimi dirigenti, leader del Partito Comunista Sud Africano (SACP) – alleato storico dell’Anc – come Joe Slovo.
Era l'”ala militare” dell’Anc, creata il 16 dicembre del 1961, che iniziò la sua attività combattente contro obiettivi simbolici del regime. Ciò che spinse alla sua creazione furono il fallimento delle campagne non-violente ed i massacri perpetrati dal regime, in particolare quello di Sharpeville (69 morti e 189 feriti) il 31 marzo del 1960, o nella township di Langa.
Una strategia di lotta che evolverà nel tempo e che durò circa 30 anni.
Come riporta Nelson Mandela nella sua autobiografia Lungo il cammino verso la libertà nel 1990: «il 6 agosto l’Anc e il governo firmarono la cosiddetta Convenzione di Pretoria, in cui l’Anc accettava di sospendere la lotta armata. Come avrei ripetuto più volte ai nostri militanti la sospensione dell’azione armata non significava la fine della lotta».
La lotta di massa tornava ad essere uno degli strumenti principali per fare avanzare il processo politico e portare il Sud Africa ad essere una democrazia multirazziale che garantisse non solo le libertà civili e politiche, ma i bisogni sociali primari (alloggi, istruzione, salute) della popolazione “non-bianca” ed il controllo delle principali risorse strategiche da parte dello Stato.
La liberazione di Mandela fu la premessa dell’inizio di un processo nient’affatto lineare e l’inizio di una nuova fase, in cui l’emersione dalla clandestina delle organizzazioni che avevano guidato la lotta contro l’apartheid coincideva con un clima di recrudescenza della violenza di una parte degli apparati dello Stato che volevano sabotare il processo di transizione in corso in combutta con le milizie zulù dell’Inkatha Freedom Party, e con con atteggiamento piuttosto dilatatorio da parte dell’establishment politico che godeva dei privilegi dell’apartheid, nonostante le notevoli pressioni internazionali per far voltare pagina al paese.
Fu un periodo piuttosto complesso in cui la stessa base dell’Anc, di fronte ai massacri impuniti ed agli omicidi politici contro semplici militanti e leader del movimento anti-apartheid, non pensava che la situazione potesse trovare uno sbocco positivo e giudicava che i negoziati con il governo fossero giunti ad un vicolo cieco, e che quindi, bisognasse tornare alla lotta armata.
L’abilità della leadership di Mandela e Slovo fu riuscire a fare avanzare, non senza difficoltà, il processo fino alla sua prima concretizzazione nel 1994.
Le pagine che seguono contengono il testo completo dei discorsi tenuti da Nelson Mandela e da Fidel Castro al raduno di Matanzas, nonché la risoluzione del Consiglio di stato di Cuba con cui venne assegnata a Mandela la medaglia José Martí, la più alta onorificenza conferita dal governo di Cuba.
Mandela e Castro spiegano qui perché le lotte di cui essi sono i leader insostituibili – la battaglia per costruire in Sudafrica un movimento rivoluzionario e democratico capace di sradicare il sistema dell’apartheid, e la battaglia per consolidare l’indirizzo internazionalista e comunista della rivoluzione cubana – si siano sviluppate in parallelo nel corso dei precedenti tre decenni.
Il 1991, l’anno in cui si sono tenuti questi discorsi, è stato, un “tornante” storico per un mondo bi-polare al crepuscolo, pieno di incognite per i due leader ed il futuro dei rispettivi paesi.
La deleteria politica interna ed estera sovietica inaugurata da Michal Gorbačëv in URSS ed il corso politico-economico avviato nella Cina post-maoista, di fronte ad un imperialismo nord-americano sempre più aggressivo – almeno dall’ascesa di Ronald Regan alla Casa Bianca ad inizio Anni Ottanta – hanno costituto un indebolimento del retroterra strategico per le forze rivoluzionarie e progressiste in tutto il mondo, facendo mancare una sponda concreta sia al socialismo cubano che alla lotta contro l’apartheid in Sud Africa.
Cuba e l’Africa
La politica internazionalista di Cuba in Africa inizia con il il supporto alla Rivoluzione Algerina, lanciata dal Fronte di Liberazione Nazionale nel 1954 e che culminerà con il raggiungimento dell’indipendenza nel 1962.
Castro e Ben Bella, avranno un rapporto “fraterno” e consolideranno le relazioni tra i due paesi fino al colpo di Stato di Boumedienne nel 1965, che “raffredderà” temporaneamente il rapporto tra i due paesi.
Quella algerina è il prima tappa significativa di impegno internazionalista che avrà un suo importante sviluppo con la missione militare del Che in Zaire, a fianco dei ribelli simbas di Kabila a metà degli Anni Sessanta.
L’Avana, infatti, si impegna direttamente nella lotta di liberazione in Congo-Zaire successiva all’uccisione di Lumumba, nello strenuo tentativo delle vecchie e nuove potenze coloniali – tra cui gli Stati Uniti – di condizionare il corso politico del Paese in senso fortemente filo-occidentale ed estromettere qualsiasi leader che non fosse un fantoccio dell’Occidente e guardasse all’Unione Sovietica come possibile partner.
Dall’Assemblea Generale dell’ONU Ernesto Che Guevara si riferì al «tragico caso del Congo» e denunciò «l’inaccettabile intervento» delle potenze occidentali, citando i «paracadutisti belgi, trasportati dal veicoli statunitensi, che sono decollati da basi britanniche».
Cuba non si limitò a denunciare l’operato degli imperialisti, ma mandò una colonna di 150 combattenti – comandati da Victor Dreke – a cui parteciperà direttamente il Che. Dreke, qualche anno dopo avrebbe guidato la missione cubana nella Guinea-Bissau Capo Verde.
Proprio dall’esperienza in Zaire, conclusasi amaramente per il Che ed i suoi compagni, Cuba seppe trarre gli insegnamenti necessari per far fare un notevole “passo in avanti” alla sua politica internazionalista nel continente e “calibrare” il rapporto con i leader ed i movimenti di liberazione africani.
Insieme all’America Latina, l’Africa è il continente nel quale la giovane rivoluzione cubana si adopera maggiormente per sostenere i percorsi di liberazione ed affiancare i paesi approdati all’indipendenza “formale” nella lotta contro il neo-colonialismo, ed i tentativi di destabilizzazione occidentali, intrecciando numerose relazioni.
Cuba sostiene attivamente, tra l’altro, sia i movimenti di liberazione delle colonie portoghesi (Guinea-Bissau e Capo Verde, Mozambico e Angola) che la lotta contro il regime dell’apartheid in Sud Africa.
Castro è particolarmente colpito dalle capacità di Amilcar Cabral, tra i fondatori del PAIGC nel 1956 ed una delle figure più rilevanti del panafricanismo, che viene assassinato a Conakry il 20 gennaio del 1973, circa otto mesi prima della dichiarazione unilaterale dell’indipendenza dal Portogallo da parte della Guinea Bissau.
Il discorso che Cabral terrà all’Avana durante la prima conferenza della Tricontental, nel gennaio del 1966, per conto dei movimenti di tutte le colonie portoghesi, sarà magistrale e ne influenzerà profondamente i lavori.
Ma è con l’intervento in Angola nel 1975 che la politica internazionalista di Cuba compie un ennesimo salto di qualità che renderà il contributo di L’Avana strategico per quanto riguarda i processi di liberazione nell’Africa australe: Angola, Namibia e Sud-Africa.
Nel novembre del 1975 il governo cubano, come risposta a una richiesta del governo dell’Angola. inviò in quel paese migliaia di volontari per contribuire alla difesa contro l’invasione delle forze armate del regime dell’apartheid del Sudafrica.
Pretoria era determinata a impedire al popolo angolano di realizzare la sua lotta di indipendenza dal Portogallo, duramente conquistata e dichiarata 1’11 novembre 1975. I governanti dell’apartheid si resero conto che lo sgretolarsi dell’impero portoghese fedele alleato di Washington, e ultimo baluardo del colonialismo europeo nel continente africano, avrebbe dato impulso nel Sudafrica stesso a lotte che avrebbero posto fine al governo della minoranza bianca.
Il governo cubano chiamò la propria missione internazionalista in Angola “Operazione Carlotta”, dal nome della schiava che nel 1843 fu a capo di una rivolta nella provincia di Matanzas a Cuba – il luogo del raduno del 26 luglio.
Quando i volontari cubani arrivarono, le truppe del Sudafrica si erano inoltrate nel territorio dell’Angola per più di seicento chilometri e le forze antigovernative avevano raggiunto i sobborghi della capitale Luanda. Entro la fine di marzo del 1976, tuttavia, le ultime forze di invasione erano state ricacciate fuori del confine meridionale dell’Angola, in Namibia, a quel tempo ancora colonia del Sudafrica.
Ma la debacle angolana fu anche una cocente sconfitta per gli Stati Uniti, che pensavano di replicare con successo – con l’operazione segreta della CIA chiamata IAFEATURE contro il MPLA di Neto – ciò che avevano fatto in Zaire, questo anche per cercare di recuperare a livello internazionale il prestigio che avevano di fatto perso con la sconfitta in Vietnam.
L’amministrazione Ford, su diretto impulso di Henry Kissinger, deciderà per un intervento degli USA nel Paese in funzione anti-comunista, preferendo l’ingerenza militare rispetto ad una posizione di maggiore neutralità in quella guerra civile che si stava sviluppando tra il MPLA ed i “filo-occidentali” FNLA di Holden Roberto e l’UNITA di Jonas Savimbi, formazione che diverrà successivamente, sotto l’amministrazione Reagan, uno dei perni degli USA in Angola.
L’invio di armi attraverso Kinshasa (Zaire) ed il finanziamento di mercenari per combattere il MPLA saranno i primi strumenti dell’ingerenza diretta di Washington in Angola, non diversa dalle missioni statunitensi che verranno poi messe in piedi per aiutare i mujaheddin in Afghanistan – già nel 1979 sotto l’amministrazione Carter – ed i Contras in Nicaragua, contro la rivoluzione sandinista che aveva rovesciato la dittatura militare filo-statunitense di Somoza nel 1979, nonostante il divieto esplicito del Congresso..
Le prime 3 tranches di aiuti statunitensi per l’operazione, versati tra il luglio e l’agosto del 1975, autorizzati da Ford, saranno di 24,7 milioni di dollari, e gli USA si troveranno per così dire in buona compagnia da un lato di Francia e Gran Bretagna, e dall’altra dello Zaire di Mobutu e dal Sud Africa, nell’impedire l’affermazione del MPLA di Neto.
E proprio la sconfitta angolana per i piani di Washington, dopo la fuga da Saigon, che contribuì a far mutare la bilancia di potenza in maniera negativa per gli USA a favore di quell’arco di forze del campo socialista che faceva riferimento all’URSS, tra cui Cuba.
Questa prima sconfitta dell’esercito dell’apartheid diede nuova linfa alla lotta per una repubblica non razzista e democratica in Sudafrica, e diede un gigantesco impulso alla lotta di liberazione dello SWAPO in Namibia.
Come puntualizzò una analista militare sud-africano nel febbraio 1976: «in Angola le truppe nere, cubane e angolane, hanno vinto le truppe bianche negli scontri militari (…) hanno vinto, stanno vincendo (…) questo vantaggio che l’uomo bianco ha sfruttato per più di trecento anni di colonialismo e di impero è in corso di dissoluzione. La supremazia bianca ha sofferto di un colpo irreversibile in Angola ed i bianchi che c’erano lo sanno».
Nel giugno del 1976, infatti, i giovani scesero nelle strade di Soweto e in altri ghetti neri sparsi nel paese. Un anno dopo, il montare della protesta portò alla nascita di una nuova rete di comitati popolari e di organizzazioni anti-apartheid sia a livello locale sia nazionale. Lavoratori sottoposti a uno sfruttamento intollerabile intrapresero scioperi e formarono organizzazioni sindacali a dispetto dei divieti governativi.
La sconfitta militare in Angola è stata la premessa per lo sviluppo del movimento reale in Namibia ed in Sud Africa.
La nuova ondata di lotte rafforzò l’African National Congress (ANC), che era stato messo fuori legge nel 1960 e che aveva avuto molti dei suoi dirigenti, tra i quali Mandela, incarcerati per le loro attività anti-apartheid, e fece sorgere una nuova giovane leva di futuri dirigenti.
I progressi della lotta all’interno del paese accentuarono la condizione di paria e di isolamento intemazionale del regime dell’apartheid. In forme limitate e incomplete, i governi imperialisti dell’Europa, del Nordamerica, dell’Asia e del Pacifico cedettero (malvolentieri e molto parzialmente) alle crescenti richieste delle forze anti-apartheid di imporre al Sudafrica sanzioni di carattere economico, sportivo, culturale e di altro genere.
Questo anche per l’intensa attività di un movimento che nei paesi occidentali chiedeva la fine dell’apartheid promuovendo il boicottaggio, il dis-investimento, e l’approfondimento delle sanzioni, e naturalmente per l’appoggio dell’URSS.
Nel corso dei dodici anni successivi i governi dell’Apartheid promossero diverse azioni militari penetrando profondamente all’interno del territorio angolano. Incoraggiato dall’atteggiamento “ambiguo” del governo di Washington, che sosteneva l’UNITA trasformato né più né meno che in un esercito mercenario al soldo statunitense, ed anche regime di Pretoria armò e finanziò le forze dell’UNlTA, che portò a termine operazioni di terrorismo controrivoluzionario nell’Angola meridionale.
Nel novembre del 1987, tuttavia, di fronte a una situazione critica nella quale le truppe del Sudafrica avevano circondato Cuito Cuanavale, nel sud-est dell’Angola, Cuba prese la decisione di spedire migliaia di volontari di rinforzo e massicce quantità di armi e rifornimenti.
Nel marzo del 1988, a Cuito Cuanavale venne inflitta alle truppe sudafricane una decisiva sconfitta da parte dellle forze combinate dei volontari cubani, dell’esercito angolano e dei combattenti dello SWAPO.
Gli invasori del Sudafrica vennero costretti a ritirarsi dall’Angola; nel corso di successivi difficili negoziati il regime dell’Apartheid concesse l’indipendenza alla Namibia, che celebrò la fine del dominio coloniale razzista e l’insediamento di un governo indipendente nel marzo del 1990 in cambio della partenza delle truppe cubane dall’Angola.
La crociata “anti-comunista” Reagan subiva una delle sue cocenti sconfitte, proprio mentre la nuova dirigenza sovietica sembrava “cedere” su tutta la linea all’agressività nord-americana.
Smascherando una volta per tutte il mito dell’invincibilità, propagandato dai sostenitori della supremazia bianca, l’esito della battaglia di Cuito Cuanavale diede un ulteriore impulso alla lotta contro l’Apartheid all’interno del Sudafrica. La fiducia nelle proprie forze dei governanti capitalisti del Sudafrica subì un duro colpo e si registrarono divisioni intestine in merito alla tattica da adottare.
Sconfitto militarmente, isolato internazionalmente, messo sotto pressione da un’ampia opposizione popolare al suo interno e messo sotto scacco dall’azione armata dell’Mk, la leadership sudafricana del National Party doveva trovare una exit strategy per quanto fosse potenzialmente indigeribile per una parte consistente della propria base sociale meno lungimirante. Una base che andava radicalizzandosi a destra: il voto del NP rischiava di essere cannibalizzato dall’estrema destra oltranzista del Conservative Party.
Certamente l’Occidente si sarebbe accontentato di un allentamento dell’apartheid e non della sua abolizione formale, ma la dirigenza del movimento (e la propria base) non era disposta a riforme parziali che strictu sensu avrebbero conservato il privilegio bianco.
Il 2 febbraio 1990 il governo del primo ministro F.W. de Klerk annunciò la revoca della messa al bando dell’African National Congress e di altre organizzazioni anti-Apartheid.
Nove giorni dopo, 1’11 febbraio, Nelson Mandela varcò trionfalmente la soglia del carcere di Victor Verster nei pressi di Città del Capo, per la prima volta libero dopo ventisette anni e mezzo passati prevalentemente nell’isola-carcere di Robben Island e nella prigione di massima sicurezza di Pollsmoor.
Nel suo discorso al raduno di Matanzas, Mandela rese omaggio all’ineguagliabile contributo reso dai volontari internazionalisti di Cuba alla lotta per l’indipendenza dei popoli africani, alla libertà e alla giustizia sociale.
«La disastrosa sconfitta dell’esercito dell’Apartheid a Cuito Cuanavale è stata una vittoria per l’intera Africa» disse Mandela.
«La sconfitta dell’esercito dell’apartheid è stato un esempio per il popolo in lotta all’interno del Sudafrica. Senza la sconfitta di Cuito Cuanavale, alle nostre organizzazioni non sarebbe stato tolto il bando. La sconfitta dell’esercito razzista a Cuito Cuanavale mi ha permesso di essere qui oggi… Cuito Cuanavale è stato un momento di svolta decisivo nella lotta di liberazione del continente e del nostro paese dal flagello dell’apartheid.»
L’internazionalismo cubano ed il futuro della Rivoluzione
Rispondendo all’omaggio di Mandela, Castro spiegò che la Cuba rivoluzionaria aveva scommesso tutto – inclusa la sopravvivenza della rivoluzione stessa – nell’inviare quegli ulteriori aiuti militari alla battaglia di Cuito Cuanavale. È bene ricordare che come è stato dimostrato storicamente Cuba agì – come una dozzina di anni prima – in autonomia dall’URSS.
«Nel fare ciò» disse Castro, riprendendo un tema che aveva attraversato molti dei suoi discorsi degli ultimi anni «il governo e il popolo cubano hanno dimostrato una volta di più come l’internazionalismo sia il sangue e l’ossatura della rivoluzione, perché qualsiasi rinuncia ad aiutare coloro che lottano, in qualsiasi parte del mondo, suonerebbe come una campana a morto per la stessa rivoluzione cubana.»
Come Castro spiegò in un discorso nel dicembre del 1988 all’Avana, davanti a mezzo milione di persone tra cui molti uomini e donne delle forze armate cubane e della guardia territoriale armata, «chiunque è incapace di lottare per gli altri è incapace di lottare per se stesso. E l’eroismo dimostrato dalle nostre forze, dal nostro popolo in altri paesi, in paesi molto lontani, serve anche a far capire agli imperialisti cosa li aspetta se un giorno ci obbligheranno a combattere qui, in questo paese»
L’intervento internazionalista pianificato in Angola è decisivo in rapporto alle questioni vitali riguardanti la rivoluzione cubana stessa, messe in luce da Castro nel discorso qui pubblicato.
Washington non ha mai perdonato il popolo cubano per la sua dichiarazione di indipendenza dal neocolonialismo statunitense, proclamata nel 1959; non lo ha mai perdonato per la rivoluzione sociale cui ha dato vita più di 60 anni fa.
Castro descrive alcuni degli ultimi traguardi e delle conquiste politiche di questa rivoluzione, e spiega perché i dirigenti cubani continueranno a seguire la linea di condotta tracciata centocinquant’anni prima da Marx ed Engels, per un mondo in cui gli esseri umani vivano e lavorino insieme come fratelli e sorelle, invece di essere costretti a darsi la caccia l’un l’altro come lupi.
Un discorso decisamente in controtendenza. Il socialismo cubano doveva misurare la sua capacità di tenuta in condizioni assolutamente avverse a causa del venire meno dello “scambio solidale” con l’URSS, del persistere del Bloqueo statunitense, del feroce terrorismo anti-cubano portato avanti dalla Mafia di Miami.
Dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta, le missioni internazionaliste come quelle intraprese da centinaia di migliaia di cubani in Angola – così come a Grenada, in Nicaragua e in altri paesi – sono state il principale mezzo di aiuto sociale e politico per mobilitare e infondere fiducia politica nel popolo di Cuba.
L’impegno internazionalista è stato contrapposto al disorientamento politico alimentato dagli indirizzi di governo, dalle istituzioni e dalle priorità politiche che sono state messe in pratica a Cuba all’inizio degli anni Settanta, in larga misura riprese da quelle dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Europa dell’Est.
Allorché i dirigenti del Partito comunista di Cuba lanciarono, nel 1986, quello che è conosciuto come il processo di revisione, con l’intento di combattere le radici sociali e politiche di una depoliticizzazione protrattasi per un decennio, un contributo di primo piano a questo sforzo venne dato dalla decisione di portare lo spirito politico e la fiducia generata dalle missioni internazionaliste in Angola nella battaglia quotidiana per l’avanzata della rivoluzione in patria.
In questo caso l’impegno internazionalista sul “fronte esterno” era indispensabile per la battaglia sul “fronte interno”, ed il mantenimento del socialismo a Cuba sarà poi fondamentale per la ripresa del movimento anti-imperialista altrove, e per “conservare” quei semi che in un mondo sempre più multipolare – come quello attuale – hanno maggior possibilità di germogliare.
Mutatis mutandis, non possiamo che tracciare un parallelo rispetto al contributo essenziale portato dal personale medico ed infermieristico cubano che ha prestato la propria opera e la propria esperienza in aiuto di differenti popolazioni ANCHE durante il periodo della Pandemia da COVID-19, nonostante la difficoltà nell’affrontare l’emergenza sanitaria, dovute al blocco economico promosso da Washington ed inasprito dall’amministrazione Trump.
Una lunga tradizione di aiuti sanitari iniziati proprio nell’Algeria indipendente agli albori dell’avventura internazionalista cubana in Africa.
Nella parte conclusiva del discorso di Matanzas, Castro confuta gli argomenti di coloro che affermano che il socialismo è uscito sconfitto dalla guerra fredda e che il capitalismo ne è emerso quale vincitore.
Un discorso lucidissimo, quello di Castro, se letto ad una trentina d’anni di distanza, che mette in luce il fatto che sebbene l’imperialismo abbia vinto politicamente non ha risolto le contraddizioni del modo di produzione capitalista.
Egli illustra le condizioni della concorrenza tra i paesi imperialisti, ed enumera le devastazioni economiche e sociali arrecate dal capitalismo ai popoli dell’America latina, a cui una “prima” ed ora una “seconda” ondata progressista stanno cercando con difficoltà di porre rimedio, muovendosi (consapevolmente o meno) in quella direzione regionale auspicata proprio da Castro nel suo discorso (sganciata dagli USA), ora in un contesto sempre più marcatamente policentrico.
Il capitalismo, osserva, è qualcosa che il popolo cubano conosce bene, in ogni suo risvolto, attraverso la propria dolorosa storia. È la dannazione del passato, e non la promessa del futuro come hanno pensato coloro che hanno capitolato di fronte al nemico.
Questa esperienza storica rafforza il rifiuto di Cuba di ritornare nelle baracche degli schiavi dello sfruttamento capitalista – le stesse che vediamo sorgere nelle nuove township della “nostra” filiera agricola – e del dominio imperialista.
I rivoluzionari cubani, precisa Castro, sono più che mai convinti che il futuro dell’umanità non sia nel cammino a ritroso verso “l’iniziativa privata e il libero mercato”, bensì verso un mondo liberato dalla povertà, dal razzismo e dallo sfruttamento provocati dal capitalismo.
Le parole di un gigante com’era Fidel Castro tornano di stringente attualità ora che un mondo multipolare sta prendendo forma nel Tricontinente e la sete di riscatto dell’Africa sta mettendo a dura prova l’imperialismo euro-atlantico proprio dove aveva pensato di aver realizzato il suo sogno neo-coloniale.
Anche in Sud Africa, che ha ospitato l’ultimo l’ultimo summit dei Brics, il sogno degli imperialisti era stato quello di legare il destino del paese alle oligarchie occidentali, ma così non è stato.
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