La fuga occidentale dall’Afghanistan nell’estate del 2021 e la progressiva cacciata della Francia (e non solo) dal Sahel sono stati due dei maggiori punti di caduta – dal punto di vista militare – dell’egemonia occidentale in contesti che – tranne brevi periodi – sono stati perni del dominio imperialista.
Gli avvenimenti in Afghanistan e Sahel hanno mostrato l’intrinseca debolezza dell’imperialismo occidentale nel mantenere una dinamica neo-coloniale occupando militarmente, soggiogando politicamente e sfruttando economicamente quei territori.
Questi due episodi sono stati la rappresentazione plastica di un mutamento dei rapporti di forza a livello mondiale in un contesto dove è sempre più praticabile la strada dello sganciamento dalle filiere occidentali e la possibilità concreta di inserirsi in una configurazione di relazioni che accantona la logica neo-coloniale.
Con lo sviluppo dell’attuale conflitto israeliano-palestinese questo declino occidentale è emerso in tutta evidenza, soprattutto di fronte alla risposta determinata su scala regionale delle forze della Resistenza che danno sempre più filo da torcere ad Israele ed ai suoi alleati.
Esse sono composte da Hezbollah in Libano che aveva sconfitto Israele nel 2006 dopo averla precedente costretta a ritirarsi dal Sud del paese nel 2000, la Resistenza “sciita” in Iraq che prende di mira costantemente i contingenti statunitensi nel paese ed i Siria, ed i “ribelli” yemeniti forti una capacità militare, e di un consenso popolare, maturati resistendo per anni alla coalizione a guida saudita ed ad una tradizione di lotta tra le più avanzate in tutto il Medio Oriente.
Se le sorti del sionismo sono state legate a doppio filo e da sempre – in una relazione di implicazione reciproca – a quelle del blocco euro-atlantico, è chiaro che è necessario collocare il significato politico della Resistenza palestinese nell’attuale fase storica all’interno di un conflitto più ampio e su scala regionale.
Un contesto in cui si intrecciano il crepuscolo dell’egemonia occidentale e l’affermazione di un mondo effettivamente multipolare: in un quadro di sempre maggiore tendenza alla guerra e di incapacità – da parte di chi è stato il gendarme del Modo di Produzione Capitalista – di risolvere diplomaticamente i conflitti che ha ereditato e contribuito a fomentare.
Siamo altresì, in un passaggio epocale, che non sembra all’oggi configurarsi “pacificamente”.
Questo accade in una regione in cui l’egemonia occidentale è stata messa in discussione da potenze regionali – come l’Iran – , dall’arco della Resistenza della cosiddetta Mezzaluna sciita, e da attori geo-politici globali come la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese, che in un certo senso guidano il riscatto del Sud Globale nel mondo multipolare.
Inoltre anche paesi che erano storiche pedine dell’egemonia occidentale in loco come la Turchia – membro della NATO – e l’Arabia Saudita hanno cominciato da tempo a disegnare il proprio modello di sviluppo ed il quadro delle proprie relazioni economico-diplomatiche in maniera più sganciata dai piani statunitensi.
In questa dinamica di affermazione di un ordine diverso da quello prefigurato dagli USA, due avvenimenti hanno particolarmente marcato le sorti del “Medio-Oriente”.
Il primo, in ordine di tempo, è l’intervento della Russia in Siria contro l’insorgenza jihadista nell’autunno del 2015 che ha contribuito a far fallire i progetti di destabilizzazione occidentale nella guerra per procura contro il paese arabo.
Il secondo è l’inizio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Iran ed Arabia Saudita – con il contestuale aprirsi di una soluzione politico-diplomatica della guerra in Yemen – grazie alla mediazione cinese, avvenuta nella primavera dello scorso anno.
Non di minore impatto sono stati i fallimentari tentativi di fare dell’Iraq un protettorato occidentale dopo averlo invaso e occupato dal 2003, e di affossare la Repubblica Islamica, o quanto meno di far emergere al suo interno una leadership più “dialogante” con l’Occidente.
É da sottolineare anche il ritrovato protagonismo della Lega Araba promosso dall’Algeria. Proprio la Lega Araba, su iniziativa di Algeri, aveva rimesso al centro della sua agenda la lotta palestinese e poi riaccolto tra le sue fila proprio la Siria gettando le basi per una maggiore autonomia delle borghesie arabe nel contrasto al processo di normalizzazione con l’entità sionista.
Se sul piano militare il conflitto israeliano-palestinese ha assunto una dimensione regionale – come è avvenuto, mutatis mutandis, più volte dal 1948 in poi – sul piano politico si è internazionalizzato con l’azione del Sud Africa alla Corte di Giustizia Internazionale dell’ONU, appoggiata da un sempre più ampio arco di paesi e forze.
Quest’azione non mette solo letteralmente sotto processo l’operato di Israele ma le sue complicità occidentali e costituisce un pugno nello stomaco a coloro che si sono eretti portavoce e paladini dei “diritti umani”, ma che restano muti e passivi di fronte al genocidio.
L’operazione “Diluvio di Al-Aqsa” condotta da Hamas il 7 ottobre scorso, ha confermato che non ci può essere la pace in Medio-Oriente senza il soddisfacimento delle storiche rivendicazioni palestinesi.
Allo stesso tempo ha messo in luce che il meccanismo dell’escalation militare nella regione non può essere invertito se non si agisce sul suo maggiore vettore: Israele.
É in questa nuova fase di fine dello stallo nello scontro tra blocchi politici a livello mondiale e di militarizzazione delle relazioni internazionali, che va analizzato e compreso il conflitto su scala regionale.
Per questo stiamo organizzando, come Rete dei Comunisti, una giornata di approfondimento, confronto e dibattito pubblico Domenica 25 febbraio dalle ore 10 a Milano al circolo familiare di Unità Proletaria, n.140 di viale Monza.
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albertogabriele
Condivido ampiamente la vostra analisi