Se ripercorriamo l’evoluzione del Movimento degli Indignati nell’ultimo mese e mezzo, possiamo cominciare a estrarre alcune conclusioni che ci servono anche per affrontare scenari futuri. Si possono individuare tre principali aspetti per capire e contestualizzare la mobilitazione: Il dibattito sulla violenza, l’accentuazione del carattere sociale del movimento e le polemiche sulla strategia politica.
1) Il dibattito sulla violenza
Da quando le acampadas si diffondono in lungo e in largo per il paese, molti si domandano come gli indignati renderanno effettive le proprie richieste. La risposta è chiara, si afferma in tutti i modi che l’uso della violenza non ha spazio all’interno del movimento.
Paradossalmente, ai politicanti a cui tanto piace difendere le mobilitazioni pacifiche, risulta tremendamente fastidioso l’uso attivo della non-violenza che il movimento mette in atto. Assistiamo così al teatrino della politica, con discorsi in Parlamento che parlano di infiltrati, estrema violenza, e altre frasi da manuale. La strategia della tensione è la solita, quasi accademica ormai: rendiamo l’ambiente turbolento, evitiamo che la gente si unisca in massa alla mobilitazione per paura della violenza, rimangono così “i soliti”, li provochiamo e apriamo così vie legittime alla repressione poliziesca; ad affare concluso, nascondiamo la polvere sotto il tappeto e l’ultimo spegne la luce. La profezia è così completa: “avete visto che sono violenti? L’avevamo detto”. Questa volta non è riuscita come ci si aspettava.
Detto questo, l’ossessione per il pacifismo, in forme diverse dal “violentismo”, può dare luogo a patologie identitarie, che tendono a cancellare la necessaria separazione fra politica e morale che così bene ci spiega Machiavelli. Non esiste nessuna legge naturale che indichi una relazione de causalità positiva fra l’uso della violenza e la trasformazione sociale, ma nemmeno il contrario; è qui che subentra l’arte della politica.
Disobbedienza civile
La disobbedienza civile mette in evidenza la rottura con il sovrano-cioè con chi comanda-, e genera un alone di incertezza necessario per emozionare e animare la mobilitazione, senza per questo impegnare la gente in una battaglia all’ultimo sangue. Questo incrocio di illegalità-legittimità, è quello che meglio mette in evidenza le miserie di coloro che governano per conto del mercato, di fronte a chi difende invece il bene comune della popolazione. Lo abbiamo visto durante lo sgombero della prima acampada al Sol, nello sgombero di Piazza Catalogna, o nel tentativo di criminalizzazione nel Parlamento Catalano; ognuno di questi fatti ha dato forza al movimento, proprio per l’evidenza creata dalla rottura disobbediente, visto che se questa non esistesse, la mobilitazione diventerebbe solo ornamento esotico della metropoli.
2) L’approfondimento del carattere sociale del movimento
Gli indignati devono reinventare costantemente quelli che negli studi dei movimenti sociali si chiamano “repertori di azione collettiva”, in modo da rinnovare le iniziative e il coinvolgimento collettivo. L’organizzazione nei quartieri attraverso assemblee è il primo passo per espandere sul corpo sociale e metropolitano l’indignazione popolare. Il professore di Scienze Politiche dell’Università Pompeu Fabra Raimundo Viejo, parla di “metafora della medusa”. Questa agisce con un centro temporaneo(le piazze), ma che sa muoversi collettivamente, in assenza di una direzione piramidale, dove i tentacoli rappresentano la diffusione nei quartieri del conflitto, organizzandosi come una rete orizzontale. Il successo delle mobilitazioni del 19 di giugno hanno molto a che vedere con questa diffusione nel tessuto cittadino, e che si è espresso come colonne che attraversavano la città e si incontravano nel centro, per poi tornare indietro verso il
lavoro quotidiano e preparare nuove azioni.
Il movimento ha cominciato a scrivere la propria storia, le sue forme collettive, e a delimitare gli spazzi fisici e mentali della propria sovranità; in una parola, comincia a dare forma all’Autonomia della “gente comune”. Bisogna approfondire questa linea, perfezionando i procedimenti deliberatori, di decisione, trasparenza e verifiche democratiche. Vinta la battaglia simbolica e semiotica, vale a dire, la “battaglia mentale”, il movimento può intraprendere la disobbedienza civile democratica su ciò che viene considerato antidemocratico e indignante.
Usare la difesa legittima di fronte alle provocazioni e cariche poliziesche, armandosi di scudi non è un sinonimo di violenza, è più che altro buon senso. Non ci si può assumere centinaia di feriti per la mancanza di un minimo di difese. Gli scudi dipinti ad esempio con i ritratti di Gandhi, Rosa Parks o Luther King, lontano dall’essere una dichiarazione di guerra, rappresentano un meccanismo idoneo per segnalare dove risiede la violenza e dove le vittime della violenza.
Radicamento nel tessuto sociale, legittimità e sovranità, tre caratteri fondamentali per ampliare reti che possono sfociare in una mobilitazione ancora più partecipata di quella del 19 giugno: lo sciopero generale metropolitano.
3) Le polemiche sulla strategia politica
In sintonia con il mio collega, il politologo Iñigo Errejon, credo che il coordinamento di uno sciopero generale metropolitano motivato da diversi attori sociali, di quartiere e sindacali, e soprattutto dal movimento 15-M, può essere il prossimo passo per l’affermazione dell’influenza politica degli indignati: la capacità di darsi un agenda e fare pressione per portare avanti le rivendicazioni sociali sorte nelle reti e nelle piazze, che già contano secondo l’ultima inchiesta de El Pais, con un appoggio sociale maggioritario: superiore al 70% e che sfiora il 90% nelle parti che riguardano la lotta contro la corruzione, ai temi dei disoccupati, e alla restituzione da parte delle banche dei soldi pubblici con cui sono state salvate.
Parliamo di sciopero metropolitano e non solo generale, perché in questo sciopero i contenuti di recupero del pubblico e della democrazia riassumono un ruolo centrale, affrontando un establishment unito nell’immolare la sovranità popolare ai piedi dei poteri economici.
I sindacati maggioritari, CCOO e UGT, devono essere all’altezza delle circostanze, saper leggere la nuova situazione e offrirsi con coraggio e generosità alla rinascita democratica. Alcuni gesti del CCOO negli ultimi giorni sembrerebbero aprire delle possibilità di correzione della deriva concertativa e complice che ha dato così pessimi risultati. La sua presenza è indispensabile per la riuscita dello sciopero, ma anche per la sua propria sopravvivenza e legittimità fra i salariati del paese.
Altrimenti, come è già successo ai partiti, si vedrà sommerso dallo tsunami di un movimento che mette a giudizio non la politica in se stessa, ma a un modo ben concreto di intendere la politica.
Max Weber ci dice che parlare di politica è, in definitiva, parlare di potere e dei meccanismi della sua gestione e distribuzione. Il potere non solo risiede nell’Istituzione Pubblica, esistono altre forme di potere, come quello sociale, ma a mio giudizio non sempre la differenza fra questi due sono così nette, dipende da come li si intenda. Ogni movimento che voglia essere trasformatore deve ottenere il principale appoggio dal potere sociale, che da forza al movimento, ed è il luogo dove risiede la sua sovranità. Detto questo, si possono elaborare forme di utilizzo del potere istituzionale senza per questo piegarsi alle norme che regolano la partitocrazia. Se si costruisce dal basso, liberi da opportunismi narcisisti che cercano di capitalizzare individualmente i frutti del lavoro collettivo, si può interferire con le istituzioni piegandone le logiche.
Non si tratta di sacralizzare o distruggere dogmaticamente le istituzioni, al contrario, partire da una propria normativa permette di decidere liberamente e indipendentemente attraverso l’azione collettiva. Costruire candidature che propongano un programma in assumibile dai partiti, dove i candidati non siano altro che appendici e ubbidiscano ai dettami del movimento, significa democratizzare la politica. Avvicinare i beni comuni al diritto di decidere delle persone su questioni che riguardano la propria vita, creare spazi di discussione liberi dai dibattiti commerciali della televisione e approfondire l’uso di internet, non ha niente a che vedere con la carta bianca del voto consegnata ogni quattro anni.
Tornando di nuovo a Machiavelli, chirurgo della politica, rimane valida l’avvertenza sul fatto che a garantire la libertà deve stare sempre il popolo, perché a differenza del principe, ha meno motivi per usurparla.
www.kaosenlared.net/noticia/movimiento-15-m-retos-estrategias-futuro
Traduzione a cura di Contropiano Bologna, 10-07-2011
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