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Legalità e illegalità

In sintesi, i “corrispondenti londinesi” denunciano, ponendosi su un piano di equidistanza, sia la miseria sociale in cui versano quote non secondarie di popolazione britannica, sia la loro insorgenza dal sapore barbarico. Allo stesso tempo stigmatizzano l’inattività del governo nei confronti della “nuova questione sociale”, ma al contempo rimproverano a tale “questione” di manifestarsi in forme e modi non legittimi. Certo, non escludono la necessità della lotta purché i confini della legalità non vengano varcati, come se la cornice della legalità fosse qualcosa di ontologicamente dato e non il frutto di determinati rapporti sociali, di Parlamenti che legiferano secondo la cultura del tempo e gli orientamenti (ondivaghi) degli eletti.

In tempi normali, questi “corrispondenti”, potrebbero essere facilmente liquidati come poveri ingenui: tuttavia, la presa che tali ordini discorsivi hanno tra i mondi della sinistra del nostro Paese, consigliano di non sottovalutarli e dedicare un minimo di risorse ed alla loro confutazione, anche perché la cura di questa vera e propria malattia – il legalitarismo a prescindere, secondo la lezione di Totò – è un presupposto non secondario al fine di far tornare a essere l’Italia un Paese normale.

Ciò che i “corrispondenti” dimenticano – o, sul piano delle idee, non hanno mai conosciuto ­ è il rapporto materiale che fa da sfondo a ogni idea di legalità e alla sua formalizzazione giuridica. La legge non è un né un insieme di norme divine immutabili né un corpo morto avulso dalla storia, dai suoi conflitti e dalle continue modificazioni che i rapporti di forza tra le classi continuamente determinano bensì, la codificazione di questo rapporto sul piano giuridico formale.

Paradigmatica, al proposito, la nostra storia costituzionale. Difficile pensare al suo varo mettendo tra parentesi il peso che la lotta armata operaia e partigiana aveva avuto e, a ridosso di ciò, il permanere di un’ipotesi soviettista tra quote non secondarie di classe operaia e masse subalterne. Il varo della Costituzione non poteva obiettivamente ignorare questo contesto. Ma la Costituzione stessa – in virtù di una serie di principi sanciti formalmente ma da realizzare in un futuro prossimo “concretamente determinato” – si presentava come uno dei terreni di scontro tra le diverse anime sociali e politiche legittimate dagli esiti della guerra a decidere sulle sorti del Paese.

La legge costituzionale era il frutto di una guerra dentro la quale – questo è il punto – le masse subalterne avevano giocato in piena autonomia un ruolo centrale. Sono le lotte operaie delle grandi fabbriche del Nord Italia a liquidare il fascismo, è l’incessante lotta partigiana a tenere sotto scacco le forze d’occupazione tedesche e i suoi servi italiani in camicia nera. La resa alle organizzazioni armate operaie e partigiane genovesi siglata dal comando militare tedesco ne rappresenta,con ogni probabilità, il passaggio maggiormente esemplificativo. La resa, prima politica e poi militare, di un esercito regolare e pertanto “legittimo” a un organismo politico costituente, quale il CLN, definisce i contorni di una nuova legittimità e legalità obbligandola a cancellare con un sol tratto l’intero ordine discorsivo che relegava le forze partigiane a semplici “banditi”.

Ciò che l’esercito tedesco sancisce con la resa, attraverso la non secondaria e meno simbolica mediazione della Chiesa Cattolica, è la legittimazione politica di quel “partito operaio e partigiano dell’insurrezione” che aveva tenuto battesimo negli scioperi di massa del 1943. Non semplice resa militare dovuta a una pura contingenza bellica, ma resa politica a una parte costitutiva e costituente del nuovo ordine politico in gestazione. L’Italia ha ritrovato un volto presentabile e un ruolo internazionale minimamente credibile solo in virtù di una popolazione civile in grado di armarsi e combattere il fascismo interno e quello tedesco. Un Quisling democratico, messo a Palazzo Venezia al posto del “puzzone”, non avrebbe avuto né peso né ruolo.

I lettori de Il Fatto, notoriamente proni alla difesa ad oltranza degli attuali assetti costituzionali, dovrebbero tenere tutto ciò continuamente a mente. La Costituzione, a parole per loro così intoccabile, è nata grazie al fucile in spalla agli operai e non in virtù della mente di qualche giurista. È il “terrorismo gappista”, lo ”squadrismo delle SAP”, la “illegalità banditesca” ad aver fornito, almeno in parte, l’inchiostro per la stesura della Carta. È stata un’azione illegale ma legittima, fattasi sempre più insubordinazione di massa, divenendo infine insurrezione ad aver dettato parti non secondarie della Carta. È il permanere di questa tensione organizzata, anche dopo la liquidazione del Regime, a obbligare la borghesia a cedere, anche sul piano dei principi formali, alla legittimazione delle forze operaie e popolari. In poche parole: la legge democratica nasce dalla canna del fucile. Non è affatto una rarità; anche l’habeas corpus inglese o il Codice Napoleonico sono nati da due rivoluzioni alquanto illegali e parecchio sanguinose.

Difficile, in assenza di una presenza politica e militare di quella consistenza da parte delle masse subalterne, giungere al varo di una Costituzione dove il peso delle classi lavoratrici, sul piano giuridico formale, potesse trovare altrettanta attenzione e legittimazione. La forza e il suo esercizio, quindi, si mostrano come aspetto indissolubile dalla messa in forma del giuridico. Affermazione al limite del banale ma che, oggi, incontra ben pochi consensi. Il diritto in quanto fonte di diritto è una tesi che cattura i più anche se, con ogni probabilità, tutto ciò ha ben poco a che vedere con una improbabile renaissance kelseniana ma molto, invece, con un’idea irenica della politica e del “politico”, coltivata nelle nostre società.

Sostenere che il diritto è, in quanto tale, fonte di diritto significa, oggettivamente, rendere eterni, ancorché migliorabili e “riformabili”, i rapporti sociali esistenti. Se il diritto non è “storicizzabile”, o almeno non lo è più, allora diventa impensabile ogni forzatura degli orizzonti del presente e l’attuale legalità l’unica possibile e pensabile. Non perché stia ferma (basti pensare a che fine hanno fatto il reato di falso in bilancio e i diritti dei lavoratori, che pure erano tutelati da un serie di leggi).

Ciò è esattamente quanto le borghesie imperialiste, a partire dal 1989, hanno iniziato a sostenere sia teoricamente sia, in non poche occasioni, facendo ricorso all’uso spregiudicato della forza. Ora, come ricorda Max Weber, le società moderne si differenziano sostanzialmente da quelle precedenti poiché, abolendo il diritto di faida, pongono il monopolio della forza all’interno dell’entità statuale. Non finisce, con la modernità, l’uso della forza e tanto meno il conflitto tra le diverse classi sociali per la conquista e la gestione del suo monopolio; ciò che realmente cambia è il quadro all’interno del quale tale conflitto si consuma. Nelle nostre società, la battaglia si gioca intorno allo Stato in quanto sintesi del potere politico.

Nell’era attuale, invece, sembra essere venuta meno la legittimità di tale conflitto. In altre parole le classi sociali subalterne hanno perso il diritto a farsi Stato. Ma perdere il diritto a farsi Stato significa perdere tutto, poiché comporta irreparabilmente l’esclusione dalla dimensione propria del “politico”. Una classe alla quale è negato il diritto a farsi Stato è una non classe, un magma informe, un insieme di individui pre-sociali perché incapaci di stabilire tra loro un qualunque sodalizio sotto forma di patto. Esclusi, marginali, reietti. Esattamente questo è il progetto strategico, il “cuore del politico”, dell’attuale fase imperialista.

Ma, come sempre, non è possibile fare i conti senza l’oste. Dentro quote non secondarie di masse proletarie, europee e non, i sogni dell’imperialismo stanno iniziando ad andare, fuor di metafora, in fumo. L’insubordinazione proletaria, oggi, è ben distante dall’essere il desiderio di qualche inguaribile acchiappanuvole, ma la realtà materiale con la quale le borghesie imperialiste dovranno sempre più fare i conti. Lo spettro proletario torna ad aleggiare nel mondo cercando, per quanto ancora in maniera limitata, di rovesciare sulla borghesia costi ed effetti della crisi e per farlo, inevitabilmente, dovrà porsi la questione centrale del potere politico.

Ciò che ai “corrispondenti londinesi” sfugge, e insieme a loro a gran parte della sinistra riformista, è che nelle strade di Londra si è assistito, ancorché sul piano della semplice spontaneità, a una risposta di classe alla crisi del Modo di Produzione Capitalista. Queste lotte sono certamente una eccezione, ma lo sono proprio in virtù del fatto che è questo stato di eccezione che detta e detterà i tempi dell’azione di classe dentro la crisi. Ciò che i “corrispondenti londinesi” non colgono è la richiesta di potere (poter fare, poter avere, poter cambiare la propria vita) che fuoriesce dalle strade londinesi e la necessità del partito dell’insurrezione che si porta appresso. Le masse non hanno infatti alcun bisogno della legalità imperialista, bensì di affermare la loro legittimità storica.

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