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Dopo Tripoli: colonialismo, jihad e politica comunista

Il tratto apertamente razzista del nuovo governo è cosa sin troppo nota. La mano libera verso politiche di questa natura sarà una delle poche autonomie che il “governo degli insorti” potrà esercitare, senza particolari limiti alla sua “sovranità”da parte degli “alleati”. Per i migranti, soprattutto quelli provenienti dall’area sub sahariana, la “primavera libica” consisterà nel passaggio da un regime poliziesco (per il quale i migranti erano, al contempo, un business e uno strumento di pressione nei confronti degli stati europei al fine di ottenere contratti e scambi vantaggiosi per il governo) a un regime poliziesco razzista dove l’oppressione delle razze inferiori è un programma che, di per sé, non deve neppure essere spiegato. Un semplice dato di fatto. Del resto è tipico dei regimi coloniali: la parte di nativi in qualche modo elevata a “rappresentate legittima” della nazione ha sempre avuto la possibilità di esercitare un’autorità pressoché indiscutibile su qualche altra razza, etnia o minoranza. Come dire: il petrolio e il logistico militare spartito tra le potenze coloniali, i negri in libera concessione ai rappresentati del “popolo libico”.

Allo stesso modo è assai probabile che i tassi di sfruttamento nei confronti dei lavoratori provenienti dai paesi arabi conosca un’ulteriore impennata. Già non erano bassi sotto l’antico regime, ora non conosceranno limiti. In qualche modo, i “nuovi governanti”, compenseranno le cospicue riduzioni delle entrate petrolifere, il prezzo della libertà pagato ai liberatori, elevando al massimo l’estrazione di plusvalore dai lavoratori dati loro in libera concessione. Del resto, senza l’intervento “alleato”, non si sarebbe giunti a una soluzione così rapida del conflitto poiché, ancora in queste ore, per venire a capo delle piccole roccaforti lealiste sono necessari massicci interventi militari da parte della Nato e/o delle truppe speciali sotto diretto comando delle forze imperialiste. Senza di queste, con ogni probabilità, la “nuova Libia” non avrebbe mai visto la luce.

In Libia hanno combattuto tutti, dalle truppe Nato ai reparti scelti dei singoli stati imperialisti, così come non è mancata la presenza degli attuali eserciti privati. I tre contractor italiani saliti repentinamente alle cronache ne sono solo una piccola testimonianza. Finita la battaglia, tutte le multinazionali, private e pubbliche, definiscono il loro “grado di influenza” politica economica e militare sul suolo libico. Un ingerenza più che “legittima” poiché, dalla loro, possono vantare il peso delle “baionette”, di cielo, di mare, di terra e di etere (l’importanza strategica dell’informazione, spesso trascurata, si mostra lampante) grazie alle quali l’insorgenza è andata a buon fine. La Libia, adesso, si presenta come una grande base militare dove eserciti pubblici e privati non solo scorazzano liberamente ma, questo l’aspetto decisivo, si insedieranno in vista delle nuove conquiste. Prossima fermata: Damasco? Non è così improbabile. In poche parole, il carattere coloniale dell’intervento, oggi, non lo nega più nessuno.

Dal punto di vista dei blocchi imperialisti, la “campagna di Libia” ha rappresentato, in contemporanea, un laboratorio e un banco di prova. Un laboratorio perché gli ha consentito di tastare “empiricamente” quanto la loro azione non trovi sostanziali forze d’opposizione sia internamente sia sul piano internazionale; in seconda battuta – aspetto che apre a scenari veramente “innovativi” rispetto alle logiche politiche proprie del secondo Novecento – è stato un banco di prova di non poca importanza per l’autonomia mostrata da alcune consorterie imperialiste che hanno sperimentato di poter imporre il proprio punto di vista in relativa autonomia dalle decisioni dell’imperialismo a dominanza statunitense. La fine dell’egemonia politica, economica e militare dell’imperialismo nordamericano implica la rimessa in discussione, complessiva, dell’influenza e del controllo su intere aree d’importanza strategica sotto il profilo economico e militare. Ciò che, nel corso del secondo Novecento, era una semplice “tensione” tra le diverse forze imperialiste, circoscritta alla sfera economica – ma con il dollaro che rimaneva sempre la moneta di riferimento internazionale – oggi pone la competizione anche sul piano direttamente politico e militare. Avremo sempre più a che fare con gli imperialismi, “concretamente organizzati”, piuttosto che, come nel passato, con un imperialismo connotato da una precisa dominanza.

Questo, in maniera molto sintetica, lo scenario messo in atto dalle forze imperialiste dentro la “campagna di Libia”.

 

Detto ciò volgiamo lo sguardo verso il vecchio regime e focalizziamo l’attenzione intorno a un paio di passaggi pronunciati dallo stesso colonnello. Pochi giorni dopo l’aggressione Nato, Gheddafi parla di attacco da parte dei crociati. Non usa termini quali imperialismo o colonialismo, così come non fa riferimento agli interessi delle multinazionali o alla Libia come area di interesse strategico da un punto di vista militare dentro la competizione globale. Non usa il lessico di fine anni Sessanta ma, forse con non poca gioia di Samuel P. Huntington, retrodata il suo discorso all’epopea del conflitto tra crociati e musulmani. L’aggressione alla Libia, se atto colonialista è, lo è dentro la cornice dello “scontro di civiltà”: la croce contro la mezzaluna. Qualche mese dopo, in prossimità della disfatta, fa appello, come unica forma di resistenza possibile, alla jihad avendo a mente il significato, guerra santa contro i crociati e gli ebrei, che ha assunto (ancorché impropriamente), dentro il mondo islamico. Nel crepuscolo del suo potere l’ultimo appello sembra rivolgersi a quella forza “arabo – afgana” con la quale, obiettivamente, non aveva mai avuto nulla a che spartire e nei cui confronti, occorre ampiamente riconoscerlo, si era sempre mostrato un avversario non formale.

Due atti sui quali è più che opportuno soffermarsi. Perché, da parte di un uomo ampiamente disincantato come il colonnello, evocare crociati e jihad? Perché fare ricorso a retoriche che non gli sono mai appartenute essendo lui, cosa non proprio secondaria, un uomo tutto interno all’epopea della decolonizzazione dentro cui il lessico di tutte le forze anticolonialiste era ben distanti da argomentazioni di questo genere?

Molto pragmaticamente Gheddafi ha fatto ricorso all’unico linguaggio in grado, oggi, di catturare il cuore e l’attenzione di masse non secondarie di popolazione che vivono sotto il diretto dominio del colonialismo o l’incubo di un possibile suo intervento. Dentro queste schiere sterminate di subalterni l’unico discorso che sembra in grado di fare presa è esattamente la guerra contro gli “infedeli”. Del resto, nei confronti dei governi islamici, agenti locali degli interessi delle multinazionali, non viene lanciata un’accusa politica: essere governi fantoccio in mano alle consorterie imperialiste internazionali, bensì un rimprovero etico-religioso: essere i traditori dei valori autentici dell’Islam. Un passaggio che introverte la contraddizione dentro il proprio mondo.

Lo stesso richiamo a retoriche proprie del nazionalismo progressista, tipiche della fase anticoloniale e proprio per questo arma fatta propria anche dalle borghesie nazionali, cade del tutto nel dimenticatoio. L’intera epopea di Bandung è così definitivamente archiviata. Alla Weltanschauung imperialista si contrappone la Weltanschauung dell’Islam. Con ogni probabilità, tale tardivo richiamo non avrà effetti rilevanti sulle sorti del colonnello e del regime nazional–borghese che rappresentava, ma non è affatto escluso che – a breve e sotto il segno della “disillusione” – possa sorgere in Libia un “movimento di resistenza” islamista. Di fronte all’occupazione coloniale delle potenze imperialiste e alla costituzione di un governo fantoccio a queste prono e assoggettato, il sorgere di un’opposizione e/o di una guerriglia a dominanza islamica è tutto tranne che un’ipotesi di scuola.

 

Certo, in Libia come del resto in tutto il mondo arabo o nei Paesi di confessione islamica, non sono assenti forze laiche e socialiste ma, questo il punto, la loro capacità di farsi soggetto egemone, o per lo meno compartecipe a tutti gli effetti di un ipotetico fronte antimperialista sembrano essere ridotte all’osso. Non si tratta solo di una questione di numeri. Le forze comuniste, solo per fare un esempio non proprio insignificante, presenti all’inizio della guerra antimperialista in Cina erano a dir poco modeste eppure, nonostante ciò, il loro peso politico risultò sempre di primaria importanza. Perché, nonostante i numeri limitati, in Cina i comunisti sono stati immediatamente in grado di ricoprire un ruolo così importante? La risposta non è poi così complicata. Questi avevano dietro di loro una Weltanschauung che andava direttamente a catturare il cuore e la mente delle classi sociali subalterne. E una “pratica di massa” conseguente a questa visione generale. Il numero limitato di militanti e quadri politici comunisti cinesi poteva quindi far leva su una idea–forza in grado di divenire forza materiale a tutti gli effetti. La Weltanschauung del proletariato era in grado di incarnare i bisogni, i desideri e le aspirazioni di milioni di cinesi sfruttati, nella quasi totalità contadini poveri. Per quella Weltanschauung, la cui concretizzazione aveva preso forma nell’Internazionale comunista, valeva la pena non solo di lottare, ma di vivere o morire. Questo è ciò che, per molti versi, è purtroppo in grado di fare attualmente l’Islam.

Perché vi sia lotta e resistenza, soggettivamente organizzata, non è sufficiente una situazione di dominio e sfruttamento. Tale condizione – come una serie infinita di esempi storici sono lì a ricordare – nella migliore delle ipotesi può dare addito a rivolte tanto radicali quanto disperate (fatte le tare del caso, i riots metropolitani ci somigliano molto) senza essere in grado però di incarnare un progetto politico consistente. Perché ciò accada è necessario che i dominati – oltre a lottare contro – possano “concretamente” pensare per cosa lottare. È in questo senso, allora, che una Weltanschauung diventa forza materiale. E con ciò arriviamo ad affrontare la nostra spinosa questione.

Come tutti sono in grado di constatare, all’interno di questo scenario, vi è una grande assente: la politica comunista. Se, negli anni Sessanta o Settanta del secolo scorso, si fosse prefigurata un’operazione come la “campagna di Libia” è facile immaginare come, immediatamente, nei nostri mondi avrebbe preso forma un movimento di opposizione di massa di portata non irrilevante. Di tutto ciò, oggi, non vi è stato traccia. Non stupisce, pertanto, che, le masse extraoccidentali guardino a noi come un mondo sostanzialmente ostile capace solo di progettare, contro di loro, guerre e invasioni. È facile immaginare come, ai loro occhi, noi rappresentiamo un tutto organico cementato dalla condivisione della medesima “civiltà” nei confronti della quale, necessariamente, occorre contrapporne una propria. Mentre, agli occhi di un extraeuropeo, il Vecchio Continente novecentesco poteva apparire come un mondo attraversato dalla dicotomia conflittuale proletariato/borghesia, oggi questo stesso mondo appare uno spazio politico sostanzialmente pacificato e privo di conflitti politici in senso esistenziale. In poche parole non è difficile capire perché da noi non si aspettino nulla e ci osservino con continuo sospetto e diffidenza. Non stupisce pertanto come l’evocazione dei crociati sortisca gli effetti a tutti noti.

Chiunque abbia a che fare, concretamente, con i mondi dell’immigrazione (e in particolare con quella araba e musulmana) ne ha una quotidiana testimonianza. Nella migliore delle ipotesi la pragmatica Weltanschauung che siamo in grado di offrirgli, la stessa che onestamente fa da corollario alle nostre esistenze, non va oltre al tirare a campare. Una Weltanschauung da saldo di fine stagione sicuramente non in grado di scaldare i cuori e armare le menti.

Potrà sembrare in apparenza strano, specialmente avendo a mente il mondo in guerra in cui ci troviamo, ma, alla luce di quanto affermato, la battaglia forse più importante che ci troviamo a dover combattere ha per cornice il mondo delle idee. Senza la rimessa in circolo di una idea-forza in grado di farsi forza materiale, ben difficilmente saremo in grado di cogliere le occasioni che la crisi e le guerre imperialiste stanno obiettivamente offrendo su un vassoio d’argento. In assenza di una nuova Weltanschauung comunista dovremmo rassegnarci a osservare, sostanzialmente impotenti, il divenire degli “scontri di Civiltà” o, guardando più direttamente in “casa nostra”, all’esplosione di insorgenze proletarie e popolari tanto radicali e violente quanto impossibilitate a mutare i rapporti di forza e di potere tra le classi.

Il problema di una Weltanschauung comunista si pone, in tutta la sua urgenza, sia per sottrarre le masse extraoccidentali alle sirene dell’Islam, sia per emancipare dal nichilismo cieco e senza costrutto in cui sono destinate a piombare le lotte dei subalterni delle metropoli imperialiste.

C’è un filo rosso che, oggettivamente, lega Londra a Tripoli, ma senza soggettività politica non può che diventare una matassa ingarbugliata. Certo, questo passaggio non lo si può improvvisare, tuttavia alcune cose è possibile iniziare a metterle in cantiere sin da subito.

Chiamare a un primo incontro internazionale le avanguardie di classe per mettere a regime una “linea di condotta” comune e operativa sulla questione del colonialismo può essere un primo passaggio, formale e sostanziale al contempo, per riannodare il filo rosso al filo del tempo.

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