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Crisi del neoliberismo o del capitalismo?

L’estate, invece, è stata calda. Nuovo violento salto della crisi sul piano finanziario e scomparsa del trend positivo della produzione industriale.

La crisi finanziaria ha aggredito gli stati più esposti sul debito pubblico. Era prevedibile, dopo che, per salvare banche e finanza, s’erano accollati sui bilanci statali giganteschi debiti aggiuntivi (il “cerbero dei conti” Tremonti in tre anni ha incrementato il debito pubblico di 240 miliardi di euro. Dove son finiti se non nelle casse disastratissime delle banche?).

La crisi finanziaria e il rischio di default di qualche stato hanno ri-diffuso il germe della sfiducia ovunque e depresso di nuovo anche quei segnali positivi di timida ripresa della produzione.

Questi eventi dimostrano ulteriormente il carattere sistemico della crisi. Essa non dipende da politiche particolari (il neo-liberismo), corrette le quali il sistema possa tornare sulla strada di una nuova stabile e lunga crescita. Il fatto centrale è che nel mondo circola una massa enorme di capitale fittizio che esige la sua valorizzazione. Questo capitale è frutto degli effetti moltiplicatori dell’ingegneria finanziaria cui è stata lasciata, negli ultimi trent’anni, crescente libertà creativa, ma non solo di essa. Anzi, la creatività finanziaria si è affermata per dare risposta al problema esploso nella sfera della produzione: la sovrapproduzione. Le capacità produttive sparse per il mondo sono divenute pletoriche per il sistema. Se tutte insieme funzionassero a pieno regime produrrebbero una massa di merci destinate a rimanere invendute, determinando un ulteriore crollo dei profitti. Il capitale, di conseguenza, fugge dall’impiego produttivo perché questo lo ripaga con profitti decrescenti e insegue il sogno di potersi riprodurre, accrescendo il proprio valore, solo a partire da sé stesso nella sua forma-denaro.

All’alchimia finanziaria si associa l’opera di saccheggio della natura e della vita di intere popolazioni. Il meccanismo del credito, affermatosi nella seconda metà del ‘900 per strozzare i paesi de-colonizzati, si è esteso in modo inarrestabile a tutte le attività di sussistenza anche delle classi già sfruttate dell’Occidente, costrette per compensare i salari decrescenti a ipotecare il proprio futuro prendendo a prestito. Il sogno di ogni speculatore è di diffondere ovunque questo meccanismo usuraio. Di arrivare a prestare a credito ai milioni di arabi e africani, su cui lo stato locale esercita ancora il monopolio del credito interno, e, sogno dei sogni, il miliardo e mezzo di cinesi, cui uno stato “illiberale” impedisce di delibare l’ebbrezza di sottoscrivere prestiti direttamente con le banche occidentali.

L’appoggio delle potenze occidentali alle rivolte democratiche in Nord-Africa contiene questa segreta speranza. Il loro target prediletto sono i giovani acculturati che abbiano il “coraggio” e la “predisposizione” a investire su “sé stessi”, e cercano di sedurli con l’idea che la democrazia simil-occidentale sia il regno delle opportunità e del merito, che per affermarsi avrebbe bisogno solo di oculati finanziatori, sorvolando sul fatto che si tratta di gente che per i propri interessi di classe è disposta a strangolare i debitori.

Prendere la Libia a mano armata (con l’aiuto dei mercenari italici: convinti dalla Rossanda a formare “brigate internazionali”?) serve, tra le altre cose, anche a impedire che le rivolte potessero favorire un tentativo di sviluppo economico a base regionale, finanziato da capitali libici, allo stesso modo di come cerca di fare Chavez con alcuni paesi del Sud America (Gheddafi, con tutte le “stranezze” e infamie che gli si possono addebitare, il tentativo lo avrebbe molto probabilmente messo in atto, considerando l’impegno

degli ultimi anni per un’unione politica, economica e monetaria dell’Africa). Ora si può rubare il tesoretto petrolifero e finanziario libico, offrire ai libici l’emozionante libertà di avere crediti dalle banche euro-americane, dopo averli liberati del paternalismo statale che li riforniva di tutto (o quasi), e, soprattutto, tornare alla carica con i giovani egiziani, tunisini, ecc (con i quali, tuttavia, la partita non ha esito scontato!).

Questi indubitabili successi nel soggiogare il mondo all’usura internazionale potranno, probabilmente, servire a ripagare il capitale fittizio di una quota maggiore di interessi reali a cospetto di quelli cartacei prodotti dall’alchimia finanziaria e, quindi, potranno contribuire a rimandare di un tot esplosioni più devastanti della bolla finanziaria, ma potranno risolvere stabilmente il problema centrale del sistema?

Per quante modifiche il capitalismo abbia inserito nel suo modo di essere non può affrancarsi dalla sua maledizione di fondo: il bisogno di alimentare la sua valorizzazione attraverso l’unica forma che realmente lo valorizza: sottrarre pluslavoro al lavoro salariato, trasformandolo in plusvalore. Il rapporto tra capitale investito e plusvalore prodotto non va considerato a livello di singola impresa, ma come rapporto sociale con dimensioni ormai mondiali. La massa del capitale mondiale si appropria del plusvalore prodotto a scala mondiale (grazie ai meccanismi di mercato, in particolare dei mercati finanziari compiutamente globalizzati). La crescita esponenziale del capitale che esige la propria valorizzazione si confronta, dunque, con la base della produzione materiale e con l’estrazione di plusvalore che riesce ad operare ai suoi danni.

La crescita di entrambi diviene sempre più problematica.

La produttività, ormai, cresce essenzialmente tramite la compressione dei salari, ossia attraverso la loro svalorizzazione. Dove più (Usa e Gb), dove meno (Germania), la svalorizzazione dei salari è stata già notevole. Margini per incrementarla ce ne sono ancora, ma ciò non toglie che si avvicina il limite fisico oltre cui c’è solo una planetaria Auschwitz, in cui la forza-lavoro è impiegata a costo zero fino alla consunzione.

Ancora più difficile è incrementare la produzione ai tassi che sarebbero necessari per ripagare con plusvalore reale il mostruoso capitale esistente. Negli ultimi decenni un gruppo di paesi “emergenti” ha effettivamente incrementato la produzione a tassi elevati (Cina in testa, Brasile, Russia, Sudafrica, India, Turchia) e ciò si è tradotto in plusvalore che in misura notevole è affluito in Occidente, consentendo di rinviare manifestazioni più devastanti della crisi capitalistica mondiale. Tuttavia, questa crescita non può essere eterna. Già dà segnali di difficoltà e, soprattutto, inizia a doversi confrontare con un risveglio di lotte operaie (soprattutto in Cina) che rischiano di tagliare fortemente la messe di profitti dirottati a Ovest.

Il problema con cui, quindi, fare i conti è che il capitale esistente si rivela sempre più eccessivo rispetto alla base produttiva che lo deve riprodurre con profitto. Per risolverlo i governi e le classi dominanti promuovono, al momento, una politica basata su due capisaldi: a) salvare il capitale fittizio addossandone il costo sul debito pubblico, costringendo “ceti medi” e lavoratori a pagarne il prezzo con tagli al salario differito (pensioni, sanità, ecc.); b) “creare le condizioni per un ritorno all’investimento produttivo”, ossia aumentare l’estrazione di plusvalore, riducendo le resistenze individuali e collettive allo sfruttamento.

Macelleria sociale. Per evitarla, si avanzano a sinistra alcune soluzioni che ruotano attorno alla riedizione del keynesismo o del mitico new deal. Le ricette si presentano come realistiche, pragmatiche, ecc. e miranti a salvare capra (capitalismo) e cavoli (lavoratori e “benessere diffuso”). Hanno davvero tutti questi pregi?

Una lettura meno mitizzata del new deal rivelerebbe facilmente che i miglioramenti economici furono per le classi lavoratrici molto meno profondi di quanto si dice, mentre ebbero uno straordinario effetto, sul piano politico, a serrare legami nazionalistici tra la classi in preparazione del secondo conflitto mondiale. Peraltro, un confronto tra i contenuti delle politiche newdealiste e quelle fasciste e naziste rivelerebbe delle “sorprendenti” analogie. In entrambi i casi lo stato “entrava” in economia, si mettevano alla berlina gli

“speculatori” per esaltare la produttività del lavoro, si sostenevano politiche protezioniste senza lesinare critiche feroci ai concorrenti, si legava a doppio filo lo sforzo di lavoro al bene “del paese”. In entrambi i casi, inoltre, un vero rilancio della produzione si ebbe solo con l’incremento della produzione bellica.

È possibile il new deal in condizioni diverse? Il suo presupposto è la crescita dell’indebitamento dello stato. Se ad essa non consegue un incremento di produzione e plusvalore, si sostanzia semplicemente in creazione di ulteriore capitale fittizio, e, dunque, in un aggravamento del problema e non nella sua soluzione. Di un rischio del genere lo stato e le classi dominanti si possono far carico in un solo caso: quando si punta a distruggere una grande quota di capitale fittizio … in mano ai concorrenti/nemici.

Analogo risultato (moltiplicazione di capitale fittizio) avrebbe oggi qualunque tipo di politica keynesiana. Questo effetto non si produsse negli anni successivi alla seconda guerra mondiale esclusivamente perché le distruzioni belliche avevano creato le condizioni per la crescita reale della produzione materiale, e, di conseguenza, i debiti pubblici degli stati poterono funzionare come volano della ricostruzione e del riavvio del ciclo del capitale, liberatosi della zavorra del capitale fittizio antecedentemente creato, con la distruzione di buona parte delle capacità produttive in eccesso e, soprattutto, della forza-lavoro eccedente.

Oggi nessuno stato rinuncia al keynesismo per indebitarsi a pro di grandi opere infrastrutturali. Ma Tav, ponti, autostrade, Malpense, Expo, non riescono in nessun modo a essere di stimolo al rilancio dell’attività produttiva, mentre ingigantiscono i debiti pubblici. Effetto non diverso si avrebbe se al posto delle grandi si finanziassero le piccole opere. Molte di queste avrebbero reale utilità sociale a confronto con le grandi, ma il valore d’uso dal capitalismo è preso in considerazione solo in quanto suscettibile di trasformarsi in valore di scambio capace di realizzare plusvalore. Le grandi opere hanno rispetto alle piccole il pregio di generare grandi profitti anche se condividono con esse l’incapacità di promuovere un rilancio generale della produzione, cioè un ritorno massiccio dell’investimento di capitale nell’attività produttiva.

Su questo piano efficacia nulla hanno anche i progetti di nuovi prodotti atti a soddisfare nuovi bisogni ambientali, ecologici, di vita sociale e individuale ecc. Grandi o piccoli piani di green economy possono, tuttalpiù, sostituire parte delle merci oggi prodotte, ma non sono in grado di risolvere alla base il problema del sistema capitalistico che necessita di incrementare, allo stesso tempo, produzione e plusvalore in proporzioni adeguate a riprodurre con profitto il capitale accumulato. (E inoltre che fine farebbero i capitali investiti in produzioni old style? Si tradurrebbero in ulteriore capitale fittizio a caccia di valorizzazione…).

A fronte di tutte queste soluzioni che si avanzano a sinistra per rilanciare il sistema, bisogna dire che, da un punto di vista capitalistico, è molto più coerente quella di Sacconi-Bonanni: per attrarre capitali nella produzione spogliamo i lavoratori di ogni diritto; visto che la competitività è sul costo del lavoro, riduciamo il più possibile quello dei lavoratori italiani. Certo, sarebbe anch’essa una soluzione momentanea, che ridurrebbe un po’ la crisi per il capitale nazionale, scaricandone un po’ di più altrove, ma, almeno, avrebbe la possibilità di suonare davvero seduttiva per qualche detentore di capitale a caccia di remunerazione.

Per poter rilanciare il sistema del profitto c’è bisogno, dunque, di una significativa limatura del capitale esistente, di una sua pesante svalorizzazione, di bruciare, insomma , una buona parte di capitale fittizio. La tornata di crisi del 2007-2008 ne ha bruciato un po’, anzitutto negli Usa, ma l’intervento dei governi ha limitato le conseguenze della svalorizzazione, sostenendo i valori finanziari con l’immissione di nuovi capitali fittizi. Ha rinviato il problema, nella speranza di trovare le soluzioni per rilanciare l’attività produttiva. Invece del rilancio della produzione è arrivata una nuova tornata della crisi finanziaria che sta bruciando altre quote di capitali fittizio, soprattutto ai danni dei paesi europei periferici e delle banche che ne detengono i titoli del debito pubblico. Si tratta, però, ancora di quote limitate. Come realizzare una più

generale svalorizzazione? Nelle precedenti crisi l’evento in grado di distruggere capitale fittizio e reale (a partire dal capitale umano forza-lavoro) è stata la guerra. Rischia di tornare all’ordine del giorno?

Di guerre nel mondo ce ne sono già, e sono tutte, in ultima istanza, guerre per il profitto o per il dominio ai fini del profitto, ma quella che servirebbe allo scopo suddetto dovrebbe essere ben altrimenti distruttiva, e, soprattutto, distruggere là dove il capitale s’è accumulato in eccedenza: Usa, Europa e Giappone.

All’immediato le condizioni del precipitare in un conflitto bellico mondiale sembrano non esserci (non va, tuttavia, dimenticato che al precipitare della II guerra mondiale fu sufficiente un periodo brevissimo, 5-6 anni), eppure non si può negare che anche nel campo di antiche alleanze che sembravano fuse nell’acciaio iniziano a emergere linee di contrapposizione e di rottura, che vanno al di là di una “normale” concorrenza.

Un terreno molto importante è, per esempio, la guerra finanziaria tra dollaro ed euro. Il declino relativo degli Usa come potenza produttiva è stato inarrestabile dalla fine della seconda guerra mondiale. Controbilanciato dalla potenza finanziaria e monetaria, sostenuta da una inaudita potenza di fuoco che ha garantito la stabilità dell’intero sistema capitalistico ed è riuscita a vanificare l’ondata di lotte anti-imperialiste suscitate dalle spinte de-colonizzatrici degli anni ‘50 e ’60. Finanza e dollaro hanno conservato agli Usa il ruolo di collettore principale del plusvalore prodotto in tutto il mondo, ma li hanno resi anche più esposti all’avanzare delle contraddizioni del sistema (i divari sociali, anche se non ancora le tensioni -paradossalmente frenate dalla presidenza Obama- sono potenzialmente più esplosivi che in Europa). Gli Usa sono il detentore della quota maggiore di capitale fittizio e sono il paese che ha dovuto svenare di più i bilanci pubblici per evitare una maggiore esplosione della bolla finanziaria. Il forte indebitamento (pubblico e privato) degli Usa ha consentito di rimandare l’esplosione dei problemi, tenendo in vita gli apparati produttivi dislocati altrove, mentre il signoraggio del dollaro gli permetteva di sottrarre profitti e plusvalore dappertutto. La sostenibilità di questo indebitamento diviene però sempre più problematica, e il dollaro da moneta-rifugio rischia di trasformarsi in un buco nero che minaccia di svalutarsi, deprezzando, di conseguenza, tutti gli assets detenuti in dollari, facendo esplodere dalla fondamenta l’american way of life.

Per arrestare il declino del dollaro è, per i capitali Usa, essenziale evitare che si configuri un’alternativa al dollaro. La Cina va prospettando insistentemente la necessità di una moneta mondiale, basata sulla media ponderata delle principali monete. Una soluzione che gli Usa osteggiano, anche se molti statunitensi (a partire da quelli raccolti nel Club Bilderberg assieme ad altri maggiorenti mondiali) cominciano a prenderla in considerazione, contando di poter conservare comunque il predominio in ragione della potenza bellica e della capacità di controllo politico sull’intero mondo. Se la minaccia potenziale è posticipata, esiste tuttavia la minaccia reale della concorrenza dell’euro come moneta più affidabile del dollaro. La finanza americana si è, di conseguenza, impegnata a dimostrare che l’euro non è affatto più sicuro del dollaro, dando avvio a ricorrenti speculazioni sui titoli del debito pubblico dei paesi e delle banche europee. La manovra punta anche a un secondo obiettivo. La crisi finanziaria in Europa brucerebbe, infatti, una parte del capitale fittizio complessivo, lasciando, tuttavia, le ceneri al di qua dell’Atlantico.

Questi attacchi sono andati, finora, a buon fine. L’euro ha traballato (e traballa) davvero, alcuni stati europei sono a rischio default, l’intera costruzione europea rischia di scomparire come elemento in grado di porsi come alternativa economica-finanziaria agli Usa nel predominio sull’intero mondo. Una crisi dell’euro e della UE non ridurrebbe, ma anzi aggraverebbe tutti i fattori generali di crisi. Di questo sono senz’altro consapevoli i dirigenti politici e finanziari nordamericani, ma, non di meno, al punto in cui sono le cose comincia a farsi strada la necessità di rivalutare l’antico motto: mors tua, vita mea.

Non siamo alla precipitazione dello scontro, ma, per ora, agli sgambetti tra antichi amici, che possono anche semplicemente preludere a un nuovo compromesso, in cui, però, qualcuno dovrebbe rimetterci qualcosa. La trovata degli eurobonds, per esempio, piace a molti statunitensi. Con essi si progetta di salvare l’euro, perché le finanze degli stati “sani” garantirebbero la solidità del debito di quelli “malati”. L’euro continuerebbe a sopravvivere, ma sarebbe più debole, in quanto la speculazione finanziaria avrebbe la certezza che ogni attacco a stati o banche europee andrebbe a sicuro bottino, pagato da economie più solide. Per la finanza Usa sarebbe come mettere un’ipoteca permanente sulla capacità produttiva europea, e in particolare tedesca. Il progetto eurobonds naturalmente piace agli stati europei “periferici”, perché sarebbe una garanzia dal proprio default, tuttavia, ove la Germania vi acconsentisse porrebbe condizioni di politica finanziaria e fiscale per l’intera Europa da far gridare fin d’ora all’esproprio di sovranità nazionale.

Così da un lato si fa avanti chi denuncia lo strapotere finanziario anglo-americano che vuole succhiare il sangue dei popoli che producono. Dall’altro qualcuno già comincia a paventare che un nuovo nazismo si faccia largo dietro le pretese tedesche di determinare le politiche degli altri paesi. Non è “curioso” che riaffiorino temi così spaventosamente simili a quelli che fecero da prodromo alla seconda guerra mondiale?

Un altro segnale dell’aprirsi di scontri tra vecchi sodali è stata la vicenda libica, con Sarkozy-Cameron fortemente impegnati (mentre realizzavano l’obiettivo collettivo di tutti i paesi imperialisti di rinforzare la riconquista coloniale dell’Africa, e respingere l’estensione degli affari cinesi) sia a stabilire alleanze preferenziali con gli Usa, smarcandosi dalle preoccupazioni tedesche, sia a tirare un bel tiro mancino all’alleato italiano che in Libia vi predominava per affari e investimenti.

Un’analisi approfondita di questioni geo-politiche potrebbe offrire molti più elementi per rispondere alla domanda (si pensi, per esempio, alla assoluta identità di politiche, tra presidenti americani neo-cons e lib-dem, nell’accerchiare politicamente e militarmente la Cina, o nel tenere nel mirino Cuba, Venezuela, Siria ed Iran), ma non è questa la sede per farla. Quei pochi cenni servono solo per approcciare una risposta alla domanda: la possibilità della precipitazione della crisi in uno scontro armato generalizzato è peregrina?

Un evento di quel tipo avrebbe bisogno del realizzarsi di una seconda fondamentale condizione: la disponibilità di massa a immolare la vita lavorativa e la propria vita tout court per il bene supremo della difesa della patria. È immaginabile che dalle società odierne si transiti verso una partecipazione massiva a guerre generalizzate? La questione meriterebbe un esame approfondito. Anche uno sguardo superficiale, ad ogni buon conto, mostra che anche su questo piano alcuni elementi cominciano a farsi spazio.

Innanzitutto la base del nazionalismo, nonostante gli effetti disastrosi delle due guerre mondiali, non si è mai dissolta. È stata tenuta accuratamente in caldo da tutte le forze politiche che hanno gestito il potere dopo la “liberazione dal fascismo e dal nazismo”, e, soprattutto, è divenuta il terreno naturale del movimento operaio, dopo la breve parentesi internazionalista degli anni ’20. Ha gioco facile oggi un Napolitano a fare appello all’unità del paese contro i rischi della crisi, trovando ascolto nelle opposizioni interne ed esterne al parlamento. Anche a sinistra predominano di gran lunga coloro che si muovono dentro lo stesso orizzonte, preoccupato di salvare il “nostro paese”, orizzonte solo apparentemente più ampio è coltivato da coloro che lo allargano fino a comprendere l’Europa. Ovunque agisce la convinzione di muoversi nell’interesse di comunità pluriclassiste (all’interno delle quali rivendicare, tuttalpiù, una diversa re-distribuzione della ricchezza) che si identificano con un territorio, contrapponendosi ad altre realtà con gli stessi caratteri. Il paese (per alcuni l’Europa) diviene così “bene comune” per antonomasia.

Questo “naturale” nazionalismo è una base utile per sviluppare un consenso di massa ad eventuali scontri bellici, ma non è, ovviamente, sufficiente. Dovrebbe, per così dire, aggressivizzarsi. Un compito che

può far proprio solo una destra estrema. Questa, al momento, è presente dappertutto, ma con dimensioni e influenza decisamente scarse (anche se, a volte, cfr. eccidio di Oslo, decisamente esplosive!). Anche su questo terreno, però, non tutto è fermo. Le teorizzazioni dell’’unità interclassista a difesa della patria (italiana, padana, norvegese, ecc.) in modo aggressivo contro l’arabo-islamico, lo stra-potere americano (da ultimo, la Le Pen in Francia), oppure, contro la concorrenza “sleale” della Cina, incontrano un favore “popolare” crescente. “Prove di trasmissione” che hanno fatto, però, già alcune esperienze di mobilitazione di massa contro immigrati e rom, puntualmente dipinti come parassiti in contrappunto al popolo produttivo padano, italico, europeo… Un percorso, insomma, che introietta l’esigenza del sistema capitalistico di ri-generarsi tornando al “lavoro produttivo”, dopo aver eliminato il “parassitismo” da lui stesso generato.

È possibile fermare questa deriva?

Un pacifismo come quello contro la guerra all’Iraq (peraltro assente, se non complice, sulla guerra alla Libia) avrebbe ben scarse possibilità. Per fermarla c’è un’unica possibilità: un forte e organizzato movimento internazionale che leghi strettamente la lotta alla guerra alla lotta al sistema capitalistico che di continuo la produce. Un movimento che rifiuti l’artificiosa linea di faglia costruita sulla “nazione” o sul “paese” e che si attesti, invece, su una linea di faglia di classe, che non si blocchi ad alcuna frontiera.

È un discrimine puramente ideologico? Nelle condizioni attuali di sviluppo delle resistenze di massa e della discussione politica che le circonda, può apparirlo. Eppure non lo è affatto, perché ha dei formidabili risvolti immediati sul terreno pratico: quanta più forza si avrebbe già ora se invece di considerare gli operai cinesi (polacchi, rumeni, ecc.) concorrenti sleali sul costo del lavoro, li si considerasse alleati nella resistenza allo sfruttamento? Analogo ragionamento vale per le masse arabe, sudamericane, ecc.: possono essere alleati nella lotta o vanno lasciati sotto il dominio della “comunità internazionale” che è formata dagli stessi governi, banchieri, padroni che operano il saccheggio ai danni delle classi sfruttate d’Occidente?

Le resistenze di massa ai passaggi della crisi non mancano (dalla straordinaria resistenza dei No-Tav alle lotte inglesi, greche, nord-africane, cinesi, indiane, sud-americane, persino israeliane e italiane, al di là di chi al momento si propone come direzione politico-sindacale). Il rifiuto di “pagare la crisi” apre sprazzi di coscienza su chi non la paga, ma anzi ne approfitta, dopo esserne stato causa. Si tratta di elementi importanti, sui quali si possono aprire dinamiche profonde di lotta tra le classi. Sul piano delle potenzialità, da essi può svilupparsi tanto una lotta contro il sistema capitalista nel suo insieme quanto una lotta per rilanciare un “capitalismo degli onesti” che “rigeneri lo stato” e consolidi una “comunità nazionale” che tiri fuori le unghie nel confronto con gli altri stati. A determinare quale percorso prevarrà intervengono molteplici fattori. Ciò non di meno un fattore molto importante potrebbe essere costituito dalla presenza di una tendenza politica che accompagni quelle resistenze, le appoggi e le rafforzi (anche imparando da esse), con una sua autonoma presenza anticapitalista. Nel senso di contro il capitalismo e non contro questa o quella sua stortura. Che non si preoccupi di trovare merci “socialmente utili” da produrre, ma che metta in discussione il sistema stesso delle merci. Che non si preoccupi di come distribuire il denaro, ma di come abolirlo per fondare i rapporti di produzione non sullo scambio monetario -che presuppone il guadagno e l’accumulo individuale di ricchezza- ma sui bisogni di vita della comunità umana nella sua integrazione con l’ambiente naturale. Che si batta per fondare una società umana non basata sul potere di chi detiene le leve proprietarie o della conoscenza per muovere le forze produttive, ma sulla cooperazione sociale di esseri umani che non sono caratterizzati dalla loro collocazione sociale (operai, tecnici, manager, professori, ecc.) ma dalla possibilità di vivere ognuna di queste funzioni senza essere schiavizzati in nessuna di esse.

Utopia? Non è forse più utopico credere, ancora oggi!, nella riforma del capitalismo, o addirittura nella sua auto-riforma?

 

da infoaut.org

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