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Quello di Marchionne è fascismo aziendale?

Caro Cremaschi,

venerdì scorso 25 novembre ero presente all’iniziativa indetta dal “Comitato 1° ottobre – Noi il debito non lo paghiamo” di Torino. In un coinvolgente intervento Giorgio Cremaschi ha fatto una lucida analisi della situazione politica e sindacale italiana, che condivido e in cui ho riconosciuto molte delle posizioni che sostengo da anni. Al termine della serata ho avvicinato Cremaschi e gli ho fatto presente che su una sola proposizione non ero d’accordo: nel definire fascista il comportamento di Marchionne nei confronti delle sue maestranze. Ma poi non c’è stato il tempo di argomentare la mia tesi. Su Liberazione di domenica 27 ottobre, Cremaschi torna su questo argomento con un articolo di fondo in prima pagina intitolato “Ecco perché quello di FIAT è fascismo aziendale”.

A prima vista, stabilire se quello di Marchionne sia o no fascismo, sembrerebbe una disputa bizantina sul sesso degli angeli, ma in realtà a seconda della risposta che si sceglie, ne conseguono questioni pratiche molto diverse. Nella conclusione del suo articolo, lo stesso Cremaschi ammette che la dizione “fascismo aziendale” pur se tecnicamente esatta, è un po’ “forte, si capisce chi la critica ricordando che il fascismo è stato qualcosa di ben altro e di ben più terribile. Tuttavia io penso che debba essere usata e urlata per forare il muro dell’ indifferenza e della complicità che sta coprendo il massacro delle libertà fondamentali in FIAT. In FIAT soltanto? Un’altra eccezione (come Pomigliano)? Non credo proprio”. Io credo invece che bollare Marchionne di fascismo non è “forte”, ma è sbagliato e fuorviante. Non mi piace ripetermi, ma sono costretto a dire, pur in modo abbreviato, cose che ho già detto e scritto in passato.

Il fascismo è stato un fenomeno storico del Novecento che si è ormai da tempo concluso. In estrema sintesi, si può affermare che la funzione assegnata dal grande padronato ai fascisti si conclude definitivamente nel 1980. Da quel momento in poi, per tenere a bada le rivendicazioni delle classi subalterne sono bastati il PCI-PDS-DS-PD, i sindacati collaborazionisti CGIL-CISL-UIL, Cossutta, Bertinotti e oggi il poeta-cialtrone pugliese che ha ancora una volta il compito, come fu per il PRC, di coprire dal lato sinistro le scelte liberiste del PD. Certamente permangono organizzazioni politiche che ancora si richiamano al fascismo o si dichiarano esplicitamente fasciste come Casa Pound, ma obiettivamente sono estremamente marginali e certamente non costituiscono un pericolo né per i lavoratori, né per la “democrazia” italiana.

Fra l’altro, se proprio si vuole a tutti i costi fare un paragone storico con il fascismo dello scorso secolo, faccio notare che il nuovo regime italiano PDL-UDC-PD-IDV-SEL, che ha il compito di adeguare il sistema economico e politico italiano alle esigenze dell’attuale fase del capitalismo, è assai peggiore dal punto di vista sociale del regime mussoliniano; regime durante il quale venne costruito un pezzo del welfare di cui tuttora, ma ancora per poco, godiamo. Perché oggi la parola d’ordine della commissione europea in proposito è “una sola, categorica e impegnativa per tutti”: “Se resteranno gli odierni ritmi di crescita, non sarà più possibile conservare l’attuale livello di protezione sociale” (La Stampa, 18 novembre 2011).

Tradizionalmente, tutti gli avversari politici che si sono opposti alla marcia del PCI-PDS-DS-PD verso il governo, sono stati qualunquisticamente bollati come fascisti. Basta qui ricordare l’appellativo di “cavaliere nero” appioppato a Berlusconi quando dichiarò di preferire Fini a Rutelli nelle elezioni amministrative di Roma nel 1993. Il conseguente, viscerale anti-berlusconismo, quello ultraliberista stile “Repubblica” e “Corriere della Sera”, e quello giustizialista alla Travaglio, è stato devastante per la sinistra. A ben vedere l’anti-berlusconismo liberista/giustizialista/moralistico è stato assai più devastante del berlusconismo. La gioia dell’intellettuale di regime Marco Revelli, scritta e orale, in occasione della sostituzione di Berlusconi con Monti è il migliore esempio di questa devastazione culturale.

Oltretutto, usare la categoria di fascismo per definire le iniziative di Marchionne genera una serie di contraddizioni degne della “commedia degli equivoci” di Plauto. Alcuni esempi. Se il comportamento di Marchionne è fascista significa che chi appoggia la linea Marchionne è complice del fascismo. Qui l’elenco delle persone, dei partiti politici e delle organizzazioni sindacali sarebbe infinito, cominciando ad esempio da tutti i dirigenti del PD, Chiamparino e Fassino in testa, che come si è visto con Marchionne sono culo e camicia. Ciascuno decida a piacere chi è l’uno e chi l’altra. Se oggi, come nel 1943-1945, il nemico da battere fosse ancora il fascismo, stavolta nelle vesti di Marchionne, sarebbe opportuno formare un fronte antifascista, ma come abbiamo visto il PD sta dalla parte del “fascista” Marchionne e la più accreditata organizzazione antifascista, l’ANPI, è da sempre un satellite del PD. Come si vede, usando ancora oggi la chiave di lettura basata sulla contrapposizione fascismo/antifascismo per comprendere i comportamenti della FIAT, e non solo della FIAT, non si va da nessuna parte, né tantomeno si “buca il muro dell’indifferenza”, ma si ingenera solo confusione.

Io credo che ci troviamo in una fase di passaggio “dalla democrazia oligarchica ad una dittatura colonial-tecnocratica” come scrive il professor James Petras nel breve saggio “Il nuovo autoritarismo: dalle democrazie in decomposizione alle dittature tecnocratiche, e oltre” pubblicato su Global Research del 28 novembre e che si può trovare tradotto in italiano su www.resistenze.org e su www.contropiano.org a cui rimando i lettori interessati.

Cordiali saluti.

Cesare Allara (Torino, 1 dicembre 2011)

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Ecco perché quello di Fiat è fascismo aziendale

di Giorgio Cremaschi

Vorrei rispondere alle critiche che ho ricevuto per aver usato la definizione fascismo aziendale per quello che oggi sta facendo la Fiat di Marchionne.

Partiamo dai fatti. Dopo la svolta di un anno e mezzo fa, quando l’amministratore delegato del gruppo lanciò il suo diktat agli operai di Pomigliano, l’aggressione al diritto dei lavoratori si è estesa a valanga nel Paese. Altro che eccezione, come disse allora il segretario del partito democratico. Il ricatto Fiat («O rinunci ai diritti o non lavori») è diventato il leit motiv che ha guidato la più grave offensiva contro i contratti, i diritti, le leggi a tutela del lavoro dal ’45 a oggi. Il sistema Pomigliano si è prima esteso a tutto il sistema Fiat e poi è diventato un modello per tutte le relazioni sindacali. L’arroganza e lo strapotere della casta dei top manager ha perso ogni senso della misura.

Cito qui, tra tanti episodi, il vergognoso licenziamento di Riccardo Antonini deciso dall’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Licenziamento avvenuto perché questo ferroviere è tecnico di parte civile per le famiglie vittime della strage di Viareggio. Il dovere della fedeltà, costi quel che costi, al capo dell’azienda e ai suoi principi è diventato la costituzione formale che ha sostituito in tanti luoghi di lavoro i principi della costituzione repubblicana.

Con l’accordo interconfederale del 28 giugno il principio delle deroghe al contratto nazionale è stato accettato da tutti i sindacati compresa la Cgil e con l’articolo 8 del decreto sulla crisi, voluto da Sacconi, si è persino stabilita la facoltà per le imprese prepotenti (e per i sindacati venduti ad esse) di non applicare più la legge dello Stato, a partire dalla tutela contro i licenziamenti.

Il dilagare del modello Marchionne ha comportato un giro di vite terribile sulle libertà dei lavoratori. Anche chi non usa quegli strumenti esplicitamente, li utilizza come minaccia. Se consideriamo che già una parte del mondo del lavoro, quello con contratti precari, è sottoposto al supersfruttamento, comprendiamo come l’attacco alla dignità delle lavoratrici e dei lavoratori sia diventato una costante comune ovunque.

In Fiat a tutto questo si aggiunge un sistema persecutorio meticoloso e raffinato, indagini sul pensiero e sui sentimenti dei dipendenti che vanno persino a rovistare su facebook. Un clima di intimidazione e di attacco alle libertà personali che si traduce nella consapevolezza che ogni lavoratore ha di essere sottoposto a un regime speciale.

I licenziamenti politici, come quelli avvenuti a Melfi, l’autoritarismo continuo, l’oppressione sul lavoro resa ancora più forte dal fatto che si continuano a chiudere fabbriche, tutto questo non è ancora fascismo.

Nel suo bellissimo ultimo romanzo “One big union” Valerio Evangelisti ci racconta le terribili lotte e le violentissime persecuzioni che subì il movimento operaio americano alla fine dell’ottocento. Marchionne e la casta manageriale che ragiona e si comporta come lui vengono da quella cultura. Da quelle campagne antisindacali fondate sulla liquidazione di chi si oppone ai voleri dell’azienda e sulla costruzione sapiente di sindacati servili per il padrone e inutili per i lavoratori. La storia della Fiat affonda in queste radici americane. Quelle che fecero sì che il presidente Roosevelt, negli anni Trenta considerasse Henry Ford un padrone autoritario da contrastare e combattere in tutti i modi.

Si può quindi definire la politica di Marchionne come una politica autoritaria, aziendalista e reazionaria, distruttrice di posti di lavoro e di diritti, senza utilizzare il termine fascismo. Perché allora l’ho usato? Perché con l’ultima decisione, quella di applicare dal 1° gennaio il contratto Fiat a tutti gli stabilimenti del gruppo, sia dell’auto che degli altri settori, l’azienda compie un passo in più.

Negli anni Cinquanta il capo della Fiat, Vittorio Valletta, usò tutte le politiche antisindacali e autoritarie, tutti gli strumenti della repressione allora conosciuti. Si fermò però di fronte ad una soglia: non abolì mai le elezioni delle commissioni interne. Anche nei periodi più bui della persecuzione della Fiom e dei comunisti e dei socialisti in fabbrica, i lavoratori periodicamente votavano per eleggere i propri rappresentanti. Marchionne ha invece abolito le elezioni. Dal 1° gennaio 2012 i lavoratori Fiat avranno solo sindacalisti nominati dall’alto, con il gradimento dell’azienda, le elezioni delle Rsu sono formalmente abolite.

C’è un solo precedente nella storia del nostro Paese che possa essere citato. Il 2 ottobre 1925, presidente del consiglio Benito Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi e fascisti si accordarono per riconoscersi reciprocamente l’esclusiva nella rappresentanza sindacale. E conseguentemente abolirono le elezioni delle commissioni interne.

In un Paese ove è stata condotta una grande e giusta campagna contro i parlamentari nominati, e che però oggi subisce un governo nominato, non c’è da stupirsi se la cancellazione della democrazia formale negli stabilimenti Fiat passi sotto silenzio. Purtroppo verifichiamo ogni giorno che quando si parla di economia non c’è più la democrazia e che i principi brutali annunciati un anno e mezzo fa da Marchionne si stanno estendendo dalla fabbrica a tutta la società e a tutte le istituzioni. Per questo ho usato questo termine.

Marchionne ha dichiarato che la disdetta di tutti i contratti per imporre un nuovo sistema senza alcuna libertà formale per i lavoratori costituisce una semplice scelta tecnica. Tecnicamente è fascismo aziendale. La definizione è un po’ forte, si capisce chi la critica ricordando che il fascismo è stato qualcosa di ben altro e di ben più terribile. Tuttavia io penso che debba essere usata e urlata per forare il muro dell’indifferenza e della complicità che sta coprendo il massacro delle libertà fondamentali in Fiat. In Fiat soltanto? Un’altra eccezione? Non credo proprio.

 

 

 

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