Il diavolo si nasconde nei dettagli, si dice. E qui ne vogliamo mettere in evidenza uno.
La “terza via” illustrata da Trovati è poco più di una trappola. In pratica, l’obbligo di attendere i 66 anni prima di poter lasciare il lavoro (mantenendo i diritti maturati) vale solo temporaneamente per quanti avevano già 18 anni di contributi al momento della “riforma Dini”, nel 1996. Per tutti gli altri, il cui trattamento già calcolato con il “contributivo”, potrebbero andare in pensione anche a 63 anni.
Certo, capisce anche Trovati, ci andranno con ben poco, visto che la certezza del “lavoro fisso” non abita più qui e i periodi di precarietà, lavoro nero, part time finto, ecc, abbattono drasticamente i “monte contributi” totalizzato presso l’Inps. La “responsabilizzione” dei singoli, secondo il suo ragionamento, comporterebbe una corsa vero la “previdenza integrativa”, la pensione privata che ognuno può guadagnarsi versando un fisso mensile.
La contraddizione è evidente: come faccio a versare un fisso mensile se ho molti periodi di lavoro intermittente? Cavoli tuoi, risponde il fondo pensione privato. e quindi agli analisti di Confindustria non interessa più di tanto.
Ma c’è un dato che viene sorvolato con eccessiva leggerezza. Potranno anticipare l’uscita solo coloro che hanno totalizzato almento 20 anni di contributi e se l’assegno che si può percepire è superiore di 2,8 volte l’assegno sociale (417,3 euro mensili, nel 2011). Quindi almeno 1.168,44 euro. Decisamente tanto, per uno che abbia lavorato poco più di 20 anni. Praticamente non ci andrà nessuno o quasi. Gli analisti di Confindustria – sospettiamo – guadagnano molto più delle persone su fanno le analisi…
Tutti quelli che avranno “messo da parte” meno contributi dovranno continuare a lavorare, per rispettare – come dicono al governo – il principio “tanto versi, tanto prendi”.
All’analista sfugge, ma questo principio contiene una conseguenza imprevista, che dal nostro punto di vista è addirittura qualcosa di “buono”. I lavoratori appena un po’ informati – certo, c’è da lavorare molto su quessto fronte – saranno incentivati a fuggire come la peste i lavori in nero, i part time e tutte le formule para-contrattuali che abbattono i contributi versati. Saranno cioè incentivati a chiedere un salario “vero”, con contributi pieni e regolarmente versati. Saranno insomma incentivati a lotare per guadagnarsi questo diritto. E i padroni saranno incentivati dal canto loro a fare esattamente l’opposto, a “risparmiare” su fastidiose incombenze come il versamento dei contributi previdenziali. L’insieme dei due incentivi accentua il conflitto sindacale, la “lotta di classe quotidiana”.
Il diavolo si nasconde nei dettagli, l’avevamo detto.
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Tra vecchiaia e «anticipata»si apre la terza via
Gianni Trovati
La previdenza riformata dal decreto «salva-Italia» apre due porte per l’assegno: «dal 1° gennaio 2012», spiega il decreto legge, le vecchie strade verso l’uscita dal lavoro sono sostituite dalla «pensione di vecchiaia» (dopo i 66 anni, per le donne 62 dal 2012 e 66 dal 2018) e dalla «pensione anticipata», quella che si ottiene dopo 42 anni (41 per gli uomini).
In questa architettura, delineata così nitidamente nelle sue linee generali, si apre però anche una «terza via»: per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996, e quindi viaggia verso un trattamento interamente calcolato con il metodo contributivo, la pensione può arrivare anche a 63 anni, a patto che si abbia alle spalle almeno 20 anni di versamenti contributivi.
Nel meccanismo che lega il valore dell’assegno solo al monte versato nei periodi di lavoro, il trattamento previdenziale dipende anche dalla regolarità con cui si sono versati i contributi. Nel mondo dei lavori flessibili e discontinui, quindi, il solo requisito anagrafico rischia di non essere sufficiente a garantire al pensionato un livello di reddito sufficiente per evitare problemi eccessivi.
Per la stessa ragione, la regola fissa anche un terzo paletto: la porta si aprirà solo se il trattamento previdenziale a cui il 63enne aspirante pensionato può ricevere sarà almeno pari a 2,8 volte l’assegno sociale.
La «terza via» della previdenza riformata dal decreto «salva-Italia» è interessante per varie ragioni. Prima di tutto, rompe lo schema rigido fondato su 66 anni di età o 42-41 anni di contributi (entrambi incrementati nel tempo in base alla dinamica della speranza di vita), e offre una chance in più a chi è entrato nel mondo del lavoro dopo la messa in mora del metodo retributivo. Tutto il sistema, però, è fondato su un binomio che accanto alla «libertà di scelta» prevede anche la «responsabilità» di garantirsi un assegno previdenziale sufficiente.
Da questo punto di vista, è degno di nota anche il meccanismo pensato per aggiornare periodicamente l’importo-soglia che permette il pensionamento dei 63enni: la sua evoluzione sarà collegata a quella del prodotto interno lordo, attraverso un parametro che misura l’evoluzione quinquennale del Pil in una serie storica calcolata dall’Istat appositamente per fissare le nuove soglie nel tempo.
Si completa così un’architettura modulare, che ha al proprio interno gli strumenti per auto-aggiornarsi nel tempo senza bisogno di continui interventi esterni. Con una precauzione, implicita nel principio «tanto versi, tanto prendi»: con lavori troppo discontinui, o contributi troppo bassi, la porta rimarrà sbarrata.
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