Menu

Titanic Europa. La crisi a un nuovo tornante

Recensione a Vladimiro Giacché, Titanic Europa, Aliberti editore, 2012


Riccardo Bellofiore

 

Vladimiro Giacché inizia il suo libro Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato (Aliberti editore, Roma 2012, 14 euro) in modo fulminante, citando il film di John Landis Blues Brothers. Più precisamente la scena dove Jake (John Belushi) incontra la ex fidanzata da lui lasciata sola all’altare, minacciosamente armata di fucile d’assalto M16, intenzionata ad una resa dei conti finali. Jake inanella una serie di scuse palesemente infondate, una più dell’altra. Così, ci dice Giacché, è per la lettura delle cause della crisi che ci è stata rifilata in questi anni. Non è uno dei pregi minori di questo libro agile, che si legge d’un fiato per la scrittura limpida e la chiarezza delle argomentazioni, il fatto di smontare la narrazione dominante: una narrazione che come nel caso di Jake – Giacché non lo dice, ma lo fa capire – è risultata miracolosamente convincente. Un’altra vera e propria ‘fabbrica del falso’. Sicché, passata la fase più grave della tormenta 2007-2009 ci si illuse di esserne fuori, mentre ora si va profilando una seconda immersione, forse ancora più grave, nella Grande Recessione. Se non il rischio di scivolare in un nuovo Grande Crollo, come negli anni Trenta del secolo scorso.

 

Chi è alla ricerca di una descrizione aggiornata dell’evoluzione della crisi, dalla prima fase centrata sugli Stati Uniti, alle risposte di politica economica che hanno spostato il debito dai soggetti privati allo Stato, al presente incubo europeo, trova qui, per così dire, il libro più breve, succoso, e intrigante: anche perché Giacché è sempre attento alle questioni teoriche sottostanti, e alle implicazioni di politica economica. Giacché ha, ai miei occhi, un solo competitore, forse adesso un po’ datato, perché precedente la deriva per cui l’esplodere del debito sovrano ha messo in questione l’esistenza stessa dell’euro, e precedente la crisi europea come moltiplicatore della crisi globale: il libro di Paul Mason, Meltdown: The End of the Age of Greed, Verso 2008 (in italiano: La fine dell’età dell’ingordigia. Notizie sul crollo finanziario globale, Bruno Mondadori, 2009).

 

Giacché, come spiega la descrizione editoriale, è intellettuale dalle molte vite. Laureato in Filosofia alla Normale di Pisa (con Nicola Badaloni e Claudio Cesa), è autore non solo di un manuale ma di fini testi di filosofia hegeliana. Editorialista del Fatto quotidiano, è dirigente di Sator, gruppo finanziario specializzato in investimenti industriali in un orizzonte di medio-lungo periodo. Ha pubblicato un libro – le Fabbriche del falso, appunto – che smaschera “le strategie della menzogna nella politica contemporanea” (e qui già ci avviciniamo ai temi di questo libro). Qualche anno fa ha curato una silloge di scritti di Marx sulla crisi, con una sua informata introduzione e soprattutto, finalmente, con una traduzione della sezione sulla caduta tendenziale del saggio del profitto dalla MEGA2: rendendo così disponibile la autentica scrittura di Marx, non la rielaborazione di Engels nel terzo libro del Capitale (e qui cadiamo in pieno nei temi della crisi attuale). Chi segue la sua pagina Facebook, ne conosce l’amore per la musica (non solo classica o jazz). Insomma, me lo immagino come l’incarnazione dell’ideale comunista di Marx: la mattina fine analista finanziario, il pomeriggio critico dell’economia politica, la sera filosofo, la notte dedito al rock. Soprattutto, quello che qui conta di più, quando scrive di economia, crisi e Marx, sa di cosa parla. Non è così comune, nemmeno (o soprattutto) per gli economisti patentati. E qui si vede. Essendo anche spiritoso, siamo certi che apprezzerà, nello spirito dell’altro fratello Blues, Elwood, che lo si incoraggi con una critica costruttiva.

 

All’inizio del volume Giacché si sente obbligato a snocciolare alcuni luoghi comuni degli economisti marxisti e keynesiani. Non è la crisi finanziaria ad avere contagiato la crisi reale, è vero semmai il contrario: credo, per mio conto, che le due dimensioni siano inseparabili, e sia futile attribuire il primato a un lato o all’altro. Il trentennio che segue il grande sviluppo postbellico è caratterizzato da una crescita asfittica, e la finanziarizzazione (termine ambiguo quant’altri mai) viene di qui, dalla ricerca di rendimenti al di là di quel che l’economia reale può dare: credo invece che si sia trattato di una particolare forma dell’accumulazione capitalistica, non priva di aspetti dinamici, le cui contraddizioni interne spiegano la crisi, come anche che la c.d. età d’oro del capitale fu una eccezione nel lungo periodo del capitale, e non può essere assunta come pietra di paragone. Ciò che spiega la presunta debolezza dello sviluppo capitalistico, per Giacchè, è la caduta del saggio del profitto nella formulazione originale marxiana (l’autore fa riferimento soprattutto agli studi di Kliman): credo invece che la caduta del saggio del profitto nella sua versione tradizionale non tenga, e vada recuperata come meta-teoria delle crisi. In un ragionamento dove le controtendenze hanno la meglio sulla tendenza; eppure proprio le contraddizioni insite nelle controtendenze danno conto della ricorrenza delle crisi generali del capitale.

 

Questa linea di lettura, peraltro, ha i suoi meriti. Salva infatti Giacché dal cadere nell’altro, più diffuso, vizio dei lettori di sinistra della crisi, specie keynesiani e neoricardiani, tanto più se si travestono da marxisti, l’idea cioè che la crisi sia dovuta al sottoconsumo: credo piuttosto che il basso consumo delle masse sia la causa ultima delle crisi, ma proprio per questo non ne spieghi davvero nessuna. Non che l’autore, del tutto a ragione, non dia il giusto peso alla esplosione delle diseguaglianze e alla compressione del salario: non si trova però nel libro una sola frase che sostenga l’idea che la causa di questa crisi siano i bassi salari. Analogamente questa sua linea di lettura gli consente di dire forte e chiaro che la finanza non è la malattia ma il sintomo. Al passivo, il fatto che nelle pagine iniziali, sviluppando questo tipo di ragionamento, Giacché finisca inevitabilmente con il sottoscrivere il punto in cui i ‘marxisti’ degni di questo nome ritengono di doversi separare dai keynesiani, e un punto su cui questi ultimi hanno invece ragione: la tesi che la crescita del debito in quanto tale, dunque l’esplosione dello stesso debito ‘sovrano’, sia un fenomeno patologico che fotografa lo stato di declino dell’economia capitalistica.

 

Questi limiti che mi pare di poter rilevare svaniscono come neve al sole dal secondo capitolo in poi. La narrazione e l’interpretazione della crisi data dall’autore si leggono senza dover cambiare una virgola, anche se questi punti problematici fossero semplicemente cancellati dal libro. Il problema, ci dice Giacché, non è il debito pubblico (di cui viene presentata una analisi molto fine nei vari paesi), semmai la gigantesca trasformazione del debito privato in debito pubblico. La dinamica del debito pubblico non ha nulla di autonomo, è conseguenza e non causa della crisi. Se il debito dei paesi fosse calcolato nelle sue varie dimensioni (delle imprese, finanziarie e non, e delle famiglie, come anche degli Stati) l’Italia non ne uscirebbe così male; e, negli anni precedenti la crisi, ad esplodere non fu affatto l’indebitamento delle imprese statunitensi, che erano anzi creditrici nette, ma quello delle famiglie. Giacché offre anche una ricostruzione finalmente convincente di quello che chiama il ‘successo catastrofico’ dell’euro, che eliminò il rischio di cambio ma, soprattutto, abbassò significativamente e per un decennio i tassi di interesse. Così la moneta unica, mentre confermava i paesi nelle loro specializzazioni produttive, consentiva loro di finanziare i disavanzi delle partite correnti nascondendo gli squilibri.

 

Ci vorrebbe forse più coraggio da parte di Giacché nel contestare due tesi molto diffuse a sinistra. La prima è che l’origine dei problemi europei di oggi stia sic et simpliciter nei disavanzi di conto corrente. Non si vede perché. Forse che se, per assurdo, la Sicilia fosse una regione che esportasse fuori Italia beni manufatti di qualità nel resto del mondo mentre la Lombardia producesse servizi consumati solo all’interno della nazione questo dovrebbe preoccupare l’Italia anche se quest’ultima avesse (come è il caso dell’eurozona) un bilancio di parte corrente in sostanziale pareggio? In una autentica unione monetaria la banca centrale deterrebbe nel suo stato patrimoniale i debiti delle banche dei paesi in disavanzo e i crediti delle banche centrali dei paesi in avanzo. Non è dunque questo che mette in difficoltà l’unione monetaria. Come scrive lo stesso Giacché, il problema attiene semmai alla dimensione reale, cioè al fatto che siano assenti politiche integrate (di natura strutturale e fiscale) a livello europeo tali da colmare gli squilibri.

 

Questo apre peraltro ad un’altra questione che Giacché non tocca, ma che discende dritta dritta dalla sua analisi. Il problema delle divergenze dei costi relativi del lavoro non sta tanto nell’andamento dei salari, ma in primis in quello della produttività, una variabile su cui si dovrebbe intervenire con politiche industriali in senso lato, e con politiche che trasformino in profondità il mondo della banca e della finanza. Altrimenti si cade nella illusione, anche questa corrente a sinistra, che basti far crescere i salari come o più della produttività nelle aree più avanzate per procedere al riequilibrio. Non è in questione l’opportunità di un aumento del salario reale dopo la compressione degli ultimi decenni, e tanto meno di una crescita del salario superiore alla crescita della produttività per recuperare quote distributive. Ciò che però si deve evitare è sostituire alla divaricazione nella competitività tra i paesi europei una divergenza sempre maggiore delle condizioni salariali nei vari paesi. La questione, insomma, va presa dal lato del lavoro, non dal lato del salario, promuovendo direttamente una convergenza reale.

 

Se la questione è affrontata da questo versante, ne discende immediatamente quanto Giacché coglie molto bene. Che i problemi europei riguardano non il solo lato della domanda ma anche quello dell’offerta (ciò è evidentemente ancora più vero per l’Italia, afflitta dall’accoppiata micidiale di elevato debito pubblico e bassa crescita). E che senza un intervento da entrambi i lati la crisi non può che scaricarsi, non soltanto in una stagnazione che produce disoccupazione e ulteriore compressione del salario diretto, ma anche in un attacco al salario indiretto e differito, “riportando i costi della riproduzione sociale in capo agli individui” (si dovrebbe dire: in primo luogo, le donne). Stanno in questo quadro le politiche di privatizzazione, e la accelerazione della centralizzazione del capitale tramite l’acquisto di società sottocosto da parte di società con sedi in altri paesi.

 

Giacché ha il coraggio di scendere sul terreno infido della politica economica, traendo l’inevitabile conclusione di quel che precede. Mentre il marxista ortodosso, richiamata la caduta del saggio del profitto, e affermato con vigore che la crisi è crisi del capitalismo (come in effetti è), ne trae l’insegnamento indubbiamente utile che l’unica via d’uscita è il comunismo, e per il resto ci lascia affamati e assetati, l’autore di Titanic Europa si espone senza timore alla critica di ‘riformismo’ che senz’altro gli verrà avanzata. Giacché propone la BCE come ‘prestatore di ultima istanza’ in grado, alla bisogna, di finanziare illimitatamente i disavanzi degli stati stampando nuova moneta (qualcosa che oggi viene fatto indirettamente, via banche ordinarie). Basterebbe minacciarlo, osserva, per ottenere il risultato voluto. Cita poi il Keynes che sostiene che l’austerità va bene nei periodi di espansione, non di recessione. Dovrebbe, è vero, qualificare, ricordando che per l’economista cantabrigense il pareggio di bilancio vale solo in pieno impiego, e per la sola spesa corrente, non per la spesa in conto capitale. Il nodo politico diviene dunque la battaglia su cosa significa ‘investimento’ nel caso della spesa pubblica, in una politica economica alternativa. Ma quest’ultimo punto Giacché lo ha ben presente, perché aggiunge subito che il debito non si riduce risparmiando ma investendo: in infrastrutture (fisiche e non), in formazione, in ricerca, in settori chiave e in settori di interesse sociale, e così via. E’ solo aumentando il debito pubblico rispetto al PIL nel breve-medio termine – con disavanzi ‘buoni’ e ‘pianificati’, in valori d’uso sociali: in altri termini, ‘socializzando’ in profondità le economie – che si potrà evitare il naufragio.

 

Il difetto dei keynesiani più radicali, anche quando si avvicinano a questa prospettiva – non è il caso, per lo più, della comunità degli economisti italiani di sinistra: negli ultimi decenni si sono soprattutto preoccupati di rivendicare meno diseguaglianza, salari più alti, stabilizzazione del debito pubblico, espansione della domanda) – è che vedono in politiche del genere una nuova soluzione di equilibrio del capitalismo, un ‘buon’ capitalismo, che può essere imposto dall’alto, cambiando i consiglieri del principe. Il limite di Giacché è di tacere su questo punto. Personalmente, non credo soltanto che una prospettiva del genere si apra solo con lotte dal basso, e con una ispirazione strategica che metta in questione il modo di produzione (come, cosa e quanto produrre). Penso anche che così si determinerebbe una situazione di ‘squilibrio’, dalla quale si possa riproporre la sfida di una fuoriuscita dal capitalismo, uno sbocco politico che apra a nuove e diverse contraddizioni. Magari Giacché sarebbe daccordo. Almeno un po’.

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *