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Erdoğan, repressione fra misteri e golpismo

Se l’articolo pubblicato ieri a firma Sinistra.ch (Erdoğan cerca la guerra con la Siria…) voleva proprio trovare un paragone con un personaggio italiano avrebbe potuto scegliere qualche esemplare della nostra Prima Repubblica. Vista l’essenza pragmatica e parzialmente paraconfessionale del leader maximo dell’attuale Turchia avrebbe calzato maggiormente l’avvicinamento a qualche ‘democristo’ di rango e di potere. L’ex sindaco d’Istanbul esibisce uno stile freddamente cordiale, è autoritario ma autorevole, risulta però, pur nel suo liberismo, ben lontano dal libertinismo scollacciato del Cavaliere e della sua corte di miracolati. Comunque in quell’articolo ci sono affermazioni che paiono ben più azzardate. Due balzano agli occhi di qualsiasi lettore segua le vicende del grande Stato adagiato fra Europa e Asia. Si parla di “una rischiosissima politica estera “neo-ottomana” eterodiretta da Washington e che prevede un’egemonia di Ankara”. Eterodiretta tramite quale canale? Nel libro “Profondità strategica” (2001), pietra miliare delle teorie neo-ottomane elaborate dalla mente e dalla penna di Ahmet Davutoğlu, consigliere e poi ministro degli Esteri della Turchia di Erdoğan, c’erano valutazioni e piani difficilmente riconducibili alla Casa Bianca. Almeno così ci sembra. Affermare come faceva Davutoğlu: “il Medio Oriente è casa nostra” e ritrovarsi in breve tempo fra la Seconda Intifada palestinese che Israele gestiva a suo modo e gli inferni afghano e iracheno scatenati da Bush, mostra differenti considerazioni di politica estera. Davutoğlu teorizzava “zero problemi coi vicini”, Israele che è il grande alleato statunitense in loco ha sempre posto “molti e gravi problemi ai vicini”. Le teorie dell’astuto braccio destro di Erdoğan hanno ormai dodici anni, risentono degli aggiustamenti che il tempo fa sulla politica mondiale. Già dall’epoca di Piombo Fuso su Gaza, quindi per Mavi Marmara e da mesi sul confine siriano la Turchia, volente o nolente, registra seri problemi coi vicini. Magari scopriremo che il neo-ottomanesimo ha una strategia acuta e dilatata nel tempo, ma quell’elaborazione seguiva la crisi identitaria americana nel porsi come guida del mondo globale e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Oggi deve fare i conti con talune trasformazioni: i due giganti restano sempre competitivi e interessati a una linea di alleanze e comando in una zona energeticamente strategica. Il presunto dominio ottomano di un’ampia area che passa dai Balcani al Caucaso, per il Medio Oriente sino al Golfo Persico e tocca l’Asia turcofona (Azerbaigjan, Turmekistan, Kazakistan, Uzbekistan) è tutto da venire, se mai avverrà. La Turchia, pur nel suo significativo boom economico e politico, non appare una superpotenza (nel Bric Cina Russia e India hanno ben altro impatto). Certo resta a pieno titolo un attore che punta all’egemonia regionale, trovandosi in contesa con l’ideologico Iran, la ricchissima Arabia Saudita e forse addirittura con uno speranzoso Egitto dal rinnovato establishment. Delle manie di grandezza del piccolo grande uomo della politica di Ankara regge tuttora il programma economico, incentrato fra l’altro sulla promozione a grande hub energetico internazionale. In virtù della posizione geografica e degli embarghi occidentali all’Iran, la Turchia può variegare i propri interessi a quelli di soggetti grandi e piccoli del business di gas e petrolio che comprende non solo estrazione ma distribuzione. Insomma in dodici anni il quadro geopolitico ha introdotto novità alle teorizzazioni del neo-ottomanesimo che non può essere letto come testo sacro né mai ci è parso filo statunitense se non nell’accettarne l’alleanza strategico-militare. Ma questa resta immutata dal secondo dopoguerra, lo è con Erdoğan come lo era coi kemalisti.

Ancor meno comprensibile, e non sappiamo se suffragato da che genere di segreti di Wikileakes, è un secondo passo che recita:“Erdoğan ha infatti decapitato l’esercito turco (che storicamente rappresenta un pilastro del laicismo e dell’unità nazionale), con diverse centinaia di generali e alti ufficiali incarcerati negli ultimi mesi. Guarda caso si tratta di ufficiali che si erano pubblicamente espressi in modo critico verso la politica imperialista e guerrafondaia della NATO e dei partner USA e Israele”. Ufficiali e ancor più generali anti Nato e anti imperialisti ai vertici delle Forze Armate di Ankara? Ma… E’ vero che la politica, anche quella militare che appare assolutamente scontata, può riservare sorprese d’ogni genere. Saremmo però curiosi di sapere in base a cosa almeno due generazioni di generali e ufficiali – che hanno servito gli ultimi governi diretti dal partito islamico (Adalet Kalkınma Partisi), i precedenti del socialdemocratico Ecevit e altri premierati egualmente laici e assai kemalisti (pur facendoli talvolta cadere con putsch supervisionati dalla Cia) – mostrerebbero tendenze anti Nato. I generali e ammiragli che tredici mesi fa si dimisero (il capo di Stato Maggiore generale Isik Kosaner, i suoi colleghi dell’Esercito Erdal Ceylanoglu, dell’Aeronatica Hasan Aksay, della Marina Ugur Yigit) con quel gesto senza precedenti nella storia patria manifestavano solidarietà ai colleghi incriminati per il caso Sledgehammer cui era seguito quello Ergenekon. I due affari erano stati anticipati dallo scandalo Susurluk. Erdoğan fu lesto, sì, a sostituirli e a trovare comandanti fedeli alla nazione. Per rivisitare ogni questione e non dilungarci in quest’intervento sui particolari suggeriamo ai lettori di digitare su qualsiasi motore di ricerca le voci menzionate per ottenere a cascata informazioni e i molti articoli presenti sul web. Oppure si può cercare in qualsiasi emeroteca. Ricordiamo in breve che su queste vicende la magistratura turca indaga da tempo e ne sta constatando le finalità eversive volte alla destabilizzazione del Paese. Si tratta di legami clandestini fra apparati dell’Intelligence, militari in pensione e in servizio che, attraverso l’attuazione di attentati a cose e persone, puntavano al caos interno per rilanciare un colpo di Stato simile a quelli attuati fra il 1960 e il 1980. Golpe quelli sì diretti da Washington. L’intreccio è politico (s’è parlato di Gladio turca) e profondo, implica legami con gruppi e partiti attraverso i famigerati Bozkurtlar, i fascistissimi “Lupi grigi”, e l’ultradestra del Movimento nazionalista (Millyetçi Hareket Partisi) di cui tanti militari e poliziotti sono il serbatoio elettorale. Comprende legami con affaristi e padrini della mafia locale e internazionale impegnati nei grandi commerci di droga, prostituzione, traffico d’armi, di clandestini e nel conseguente riciclaggio. Vede coinvolti come imputati anche alcuni giudici e giornalisti, sebbene quest’ultimi si dichiarino vittime dell’attacco erdoğaniano all’informazione. Insomma anche nella sua storia recente la Turchia trova nelle potenti Forze Armate (circa un milione di uomini, compresi i riservisti, che in virtù della tecnologia in dotazione ne fanno il terzo apparato mondiale Nato dopo Usa e Germania) una struttura disposta a insidiare la vita civile e l’apparato rappresentativo secondo strategie para-imperiali e antidemocratiche più che contro di esse. Può darsi che lo stesso disegno d’insinuarsi nei gangli della società turca (anche nell’esercito) teorizzato dal movimento gulenista attraverso l’Akp, additato dagli avversari d’ogni colore e ricordato nell’articolo, sia un attacco alla nazione laica in base a intenti confessionali. Sul versate opposto gli fa da contraltare un progetto pericoloso, esplicitamente eversivo il  Derin Deviet, lo Stato profondo, un sistema che esasperando nazionalismo, corporativismo e lobbismo vuole limitare la democrazia. Un quadro davvero inquietante per la Turchia con cui non solo il premier ha il dovere di misurarsi.

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1 Commento


  • almanzor

    Ottimo. Neanch’io avevo apprezzato l’articolo di sinistra.ch. E poi: va bene avversare l’intervento in Siria, ma esaltare un partito turco già ‘maoista’, che fonde insieme ‘marxismo e kemalismo’ fa venire le vertigini …

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