Non si comprende bene ciò che significa il ddl 953 (già legge Aprea), se non si hanno presenti l’articolo 3 della Costituzione, che attribuisce alla scuola il ruolo essenziale di rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno esercizio della cittadinanza, e l’articolo 5, che limita il campo delle autonomie locali alle esigenze del decentramento amministrativo. Sono questi articoli che danno valore di dettato costituzionale alla libertà d’insegnamento e all’istituzione della scuola della Repubblica per sua natura gratuita e obbligatoria.
Non ci sono dubbi: letto senza pregiudizi, il Decreto 953 si rivela del tutto incompatibile con i vincoli normativi definiti dalla Carta costituzionale. E non si tratta, come si tenta di insinuare da più parti, di un giudizio nato all’interno del mondo della scuola per ragioni puramente ideologiche, spinte conservatrici e ostilità preconcetta a non meglio identificati venti di cambiamento. E’ vero, al contrario, che il governo affronta una questione di fondamentale importanza per la società italiana come se si trattasse di una dettaglio privo di rilievo, senza coinvolgere in alcun modo né i cittadini, che non possono certo essere estranei o indifferenti nei confronti della scuola, né i docenti e gli studenti, che la scuola la “fanno” e ne vivono perciò la realtà e i bisogni. E’ inaccettabile che l’ex legge Aprea, mutata in alcuni dettagli ininfluenti, si faccia passare sotto le spoglie di un anonimo decreto, nell’ombra fidata degli incontri tra segreterie dei partiti, e si discuta “al chiuso”, in Commissione.
Nel merito, la legge, prodotta da politici piovuti in Parlamento dall’alto, cancella gli organi collegiali, nati dai decreti delegati nel 1974, sotto la spinta di un “riformismo” prodotto dal basso, e li sostituisce con organi di autogoverno che ciascuna scuola regolamenta a suo piacimento, con un suo statuto e propri regolamenti. Non bastasse questa sorta di Torre di Babele, la legge consente a privati e soci in affari di entrare in pompa magna negli organi di governo della scuola, compreso quello che si occupa della valutazione, il nuovo feticcio del neoliberismo.
All’intelligenza del ministro Profumo e dei suoi sottosegretari Rossi Doria e Ugolini, tutto questo appare materia priva di importanza nazionale.
La verità, per tornare al contesto del dettato costituzionale, è ben diversa, perché è evidente che una scuola statale affidta a una pluralità di principi soggettivi, fissati in statuti e regolamenti autonomi, l’uno diverso dall’altro e magari contrapposti, significa creare una istituzione che non ha nulla a che vedere con il sistema formativo diseganto dalla Costituzione. La legge ha una sua logica interna e produce un effetto devastante: non avremo più un sistema formativo fondato su caratteri comuni a livello nazionale, ma una miriade di “aziende”, legate a scelte discrezionali, diverse e – perché no? – divergenti. Non più una scuola della Repubblica, quindi, ma migliaia di repubbliche chiamate scuole, l’una scollata dall’altra, tutte condizionate delle più svariate ingerenze di interessi privati particolari e dal ruolo predominante del capo d’Istituto, cui corrisponde l’indebolimento di quello svolto da docenti e studenti. A ben vedere, una vera nebulosa di repubbliche autoritarie. E’ l’epilogo fatale di una concezione dell’autonomia voluta dalla sedicente “sinistra” di Berlinguer, che sin dall’inizio minacciava di stravolgere la natura di una scuola nata come patrimonio della Repubblica, chiaramente definita da una Costituzione che fissa i criteri oggi violati: il finanziamento esclusivamente statale, per vincolo di legge, della scuola della Repubblica e la sua distinzione netta da quella privata, finanziata invece esclusivamente e per obbligo di legge dalla proprietà privata, senza alcun concorso di denaro pubblico.
Così stando le cose, non ci sono dubbi: Aprea e i nominati che la sostengono, stanno disegnando una scuola che rinnega i principi su cui si fonda il sistema formativo voluto dai deputati eletti nell’Assemblea Costituente. Anche da un punto di vista puramente linguistico, che non è ovviamente formale, ma sostanziale, Aprea e Profumo si collocano agli antipodi del dettato costituzionale. Cercare nella Carta costituzionale una scuola definita “servizio”, un sistema formativo degenerato nell’indeterminatezza del “bene comune” o, peggio ancora, nell’ambigua formula della “comunità educante” sarebbe fatica vana. In quanto al linguaggio mutuato dal mercato, di cui l’esempio classico è l’offerta formativa, chiunque può da solo verificare: siamo su un altro pianeta. In un quadro di valori fatto di un merito anteposto alla solidarietà e di una qualità che sfocia nella concorrenza, Aprea volutamente nega il ruolo primario della rimozione di ogni ostacolo, sia economico che sociale, della promozione dell’eguaglianza tra cittadini come garanzia di libertà e democrazia.
Passa in Parlamento, senza discussione tra i cittadini, il frutto avvelenato di un leghismo inaccettabile nella sua ispirazione separatista, figlio di un volgare, acritico e astorico egoismo regionalista, che sacrifica il principio della pari opportunità e mette a repentaglio il ruolo di un sistema formativo che muta col mutare dei “confini” territoriali, per fare del Nord un corpo estraneo al Sud e disarticolare la Repubblica. Passa per la porta di servizio, ma non fa danni minori, un attacco alla libertà d’insegnamento, delineatosi nelle reiterate richieste di “controllo” politico sui libri di testo, nell’imposizione di una “verità storica di Stato”, che legge le foibe in senso antislavo e anticomunista, che aggredisce l’antifascismo e la Resistenza, spezza il filo della trasmissione della memoria come patrimonio comune delle diverse generazioni e apre la porta a un autoritarismo di fatto. Aprea segna così la fine della scuola della repubblica e dimostra che anche in questo delicatissimo campo della vita nazionale, la crisi si fa strumento di un progetto politico sempre più chiaramente orientato in senso classista, sempre più connotato come attacco ai diritti e alla democrazia di cui è garante per quello che può una Costituzione che non è figlia del “libro nero del comunismo”, ma del compromesso tutto sommato nobile tra forza di ispirazione antifascista, siano state esse moderate o progressiste .
In questa bufera fare scuola, difendere la libertà del pensiero critico, la trasmissione quanto più possibile corretta e pluralista della nostra memoria storica, della nostra identità culturale e del patrimonio di lotte sociali che sono garanzia di un rapporto fecondo tra le generazioni, non è impresa facile, ma sarebbe davvero un crimine rinunciare alla lotta. Un insegnante privato della libertà d’insegnamento non può più assolvere alla sua funzione docente. Si può piegare il capo, in fatto di stipendi, non si può cedere sul terreno dei principi. I titolari della scelte dei contenuti e delle impostazioni metodologiche e didattiche sono i docenti e nessuna legge può legalmente imporre a un insegnante della scuola statale di dipendere su questo terreno da soggetti e interessi privati, da finanziatori e sponsor che si statuiscono allo Stato. A scuola non possono esistere altri “datori di lavoro” se non le Istituzioni repubblicane definite e riconosciute dalla Costituzione. E’ tempo di obiezione di coscienza o, se non dovesse basta, tempo di una lotta senza quartiere della quale la responsabilità è tutta e solo di chi ha scelto la via autoritaria. Noi siamo di fronte a un dilemma tragico: ubbidire a una violenza legale – come avvenne ai tempi del fascismo – o sopportare con coraggio e fermezza le conseguenze di un no. Ed è chiaro a tutti: più numerosi saremo, più possibilità ci saranno di limitare i danni. Da Bassanini a Brunetta si è lavorato per condurci al bivio. C’è chi dice che questa legge si tiene volutamente al limite della legittimità costituzionale e si prepara alla resa mentre il Ministro Profumo programma aumenti d’orario e diminuzione di stipendi: “più bassi per chi vuole lavorare solo la mattina“, uguali a quelli attuali “per chi accetta l’aumento delle ore“. Chi è più attento coglie la portata della ferita arrecata al tessuto democratico del Paese, intuisce che un attacco eversivo viene ormai apertamente dall’alto e sa che di fronte abbiamo un bivio: ci tocca scegliere tra dignità e quieto vivere, rassegnata vergogna e orgogliosa ribellione. La sorte della democrazia, i diritti conquistati lottando e il destino stesso dei nostri figli, tutto è ancora nelle nostre mani.
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