Un buon punto di partenza per cominciare ad inquadrare la questione in modo più problematico di quanro non facciano i soliti “entusiasti” della moda di turno.
L’intervento di Florian è ripreso da http://www.lavoroculturale.org
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Il telegrafo lega con un filo vitale tutti i paesi del Mondo. […] è impossibile che i vecchi pregiudizi e le ostilità esistano ancora, quando uno strumento simile è stato creato per lo scambio di idee fra tutti i paesi della Terra.
New Englander, 1858
“Vi basta un click! Dai un click e metteremo gente che ha la fedina penale pulita, gente che ha voglia di fare […] è una cosa fatta bene, è gente vera! è il popolo che deve andare a Montecitorio!”
Beppe Grillo su contattonews, 2012
Se c’è qualcosa in cui l’essere umano eccelle è il saper ripetere continuamente i propri errori. Negli ultimi tempi, tra il malcontento generale e una diffusa mancanza di aspettativa nei confronti dei movimenti, forse alimentata dalla comodità della poltrona, è emersa una fiducia smoderata nei confronti della Rete, Internet, considerata da tanti lo strumento con il quale e sul quale le masse possono finalmente organizzarsi per giungere ad un cambiamento sociale.
Nel 1993, il produttore televisivo Rupert Murdoch affermò che la TV satellitare rappresentava una forza incontrastabile per l’esportazione della democrazia nel Mondo, perchè oltrepassando i confini territoriali poteva fornire ad ogni popolo le informazioni necessarie per acquisire una consapevolezza globale tale da permettere l’abbattimento di ogni dittatura. Una previsione che già all’epoca risultava risibile, visto quanto già allora la televisione fosse veicolo di messaggi sessisti, razzisti e di propaganda, ed è proprio partendo da questo esempio che possiamo trarre le prime argomentazioni per smontare la visione web-utopistica.
La visione ottimistica della Rete è fondata sul presupposto che Internet sia uno strumento tecnologico esclusivamente in mano alle forze democratiche della società, dimenticando il ruolo che svolge, come d’altronde ogni tecnologia, nell’intensificazione del controllo sociale e per il mantenimento dello status-quo. La Rete è semplicemente una rete, e la Rete è la rete degli individui che abitano questo pianeta, dalle casalinghe ai serial-killer. Così come ogni baldo giovine può effettivamente comunicare al Mondo intero le sue opinioni, così circolano in gran quantità messaggi inneggianti all’odio razziale e vengono ogni giorno aperte su Facebook pagine di gruppi neofascisti.
Per di più oltre a proseguire grazie a cookies e tracciamenti le pratiche di sorveglianza a cui siamo abituati, grazie al Web 2.0 e ai social network il controllo sociale è riuscito a creare profitto, grazie alla vendita di dati personali ad agenzie di marketing. Gli stessi social network che, per giunta, hanno realizzato come non mai il concetto di pluslavoro, riuscendo a guadagnare interamente sulla produzione immateriale dei propri utenti, veri creatori del prodotto finale.
Oltre che ridimensionare notevolmente l’immagine utopistica della Rete, è anche necessario comprendere meglio i meccanismi di causa e strumentalizzazione che vengono fatti di questa concezione.
Un tweet non fa primavera
Un caso di rilevanza internazionale che ha portato questi temi sulle prime pagine dei giornali è stata senza dubbio la rivolta iraniana, addirittura passata alla Storia come la “rivoluzione di Twitter”.
Nel giugno del 2009 migliaia di iraniani affollavano le strade di Teheran per contestare l’irregolare rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. È a questo punto che Andrew Sullivan, giornalista della rivista americana “Atlantic”, propone per primo il ruolo che twitter avrebbe avuto nella vicenda. Nel post The revolution will be tweettered definisce twitter “lo strumento cruciale per l’ organizzazione della resistenza in iran”, a quanto pare basando la sua analisi esclusivamente sulla circolazione di tweets, senza verificare quanti di questi fossero stati inviati da iraniani residenti all’estero.
La teoria prende immediatamente piede, in parte sostenuta da editori di destra (Michelle Malkin definì twitter uno strumento rivoluzionario clandestino), in parte accresciuta dall’ entusiasmo di tecnofili e esperti di telecomunicazioni, fino ad approdare su testate come Wall Street Journal e New York Times.
Chi sostiene il protagonismo di twitter nell’organizzazione delle rivolte arabe dimentica che questa teoria è nata e stata diffusa esclusivamente da fonti occidentali che non si sono preoccupate di analizzare i veri processi di strada e di piazza che hanno portato a questa mobilitazione, senza contare l’enorme influenza che hanno le multinazionali di Silicon Valley sull’agenda governativa statunitense.
Ad essere ancora più celato è il ruolo che Internet ha avuto successivamente, quando il governo iraniano, apprendendo dalla stampa estera le voci che circolavano in merito, ha creato un team di 12 specialisti incaricati di cercare sui social network foto di cybercriminali da pubblicare su siti governativi per far partire la caccia all’uomo.
Nel dicembre 2009 il sito pro-Ahmadinejad Raja News ha pubblicato più di un centinaio di foto che segnalavano volti cerchiati in rosso e hanno permesso di arrestare almeno 40 attivisti.
Più di un attivista ha inoltre smentito la teoria twitter-centrica (si vedano le testimonianze dei blogger Vahid Online e Alireza Rezai), mentre è sicuro che la tensione creatasi ha portato il governo ad una durissima politica di controllo dei mezzi di comunicazione, includendo la telefonia mobile.
Ma ormai era troppo tardi per fermare il tecno-entusiasmo, tanto che a fine 2009 il consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush, Mark Pfeifle, propone di candidare Twitter a Premio Nobel per la Pace, un po’ come proporre la piazza del mercato per il Premio Nobel per l’Economia.
Rete libera tutti!
Caso vuole che proprio nel 2009 era già arrivata una proposta simile, quando Wired Italia, lanciando il progetto “Internet for Peace”, aveva candidato ufficialmente il Web al Premio tanto agognato. L’ iniziativa viene sostenuta da molti, tra cui il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, il Professor Umberto Veronesi, lo stilista Giorgio Armani, e le redazioni di Wired USA e Wired Uk.
Alla presentazione del progetto il direttore Riccardo Luna ha così commentato l’iniziativa:
Dobbiamo guardare ad Internet come ad una grande community in cui uomini e donne di tutte le nazionalità e di qualsiasi religione riescono a comunicare, a solidarizzare e a diffondere, contro ogni barriera, una nuova cultura di collaborazione e condivisione della conoscenza. Internet può essere considerato per questo la prima arma di costruzione di massa, in grado di abbattere l’odio e il conflitto per propagare la democrazia e la pace.
È interessante come in questo discorso a dir poco spaesante si ritrovino gran parte delle fallacie che caratterizzano la visione distorta della Rete.
Come già sottolineato in precedenza, Internet appare come un mezzo in mano a “tutti”, o meglio in mano a tutti coloro che vogliono “solidarizzare, diffondere cultura e conoscenza”, mentre ogni altro utilizzo viene furbamente eclissato. Ma è la conoscenza che gioca un ruolo fondamentale nella costruzione dell’argomento.
Come in tanti, tantissimi casi storici precedenti ad Internet siamo davanti alla convinzione che l’unico ostacolo che impedisce la liberazione dei popoli dalla tirannia sia la mancanza di informazione, come se il motivo per cui le masse non si mobilitano, per cui non si attivano processi collettivi costituenti, sia esclusivamente la mancata consapevolezza di ognuno di noi di ciò che accade nel resto del Mondo, e nel momento in cui ognuno è a conoscenza dello sfruttamento minorile del Pakistan ecco che, come per magia, le piazze si riempiono di manifestanti incalliti.
È il mito della trasparenza assoluta, che tralascia ogni analisi sociale, dimentica i rapporti di forza che determinano i processi, ma nel quale le uniche parti contrapposte che vengono evidenziate sono “l’odio e il conflitto” contro “la democrazia e la pace”. Altro che classi, conflitto di interessi e strati sociali, niente di tutto ciò, solo una fiabesca visione di “bene” contro “male”.
La mancanza di parti in gioco si traduce in prima istanza nella mancanza della necessità di uno scontro, e la “rivoluzione” appare come un processo indolore, automatico e umanitario, nel quale è sufficiente abbandonarsi al potere della tecnologia, che dotata di forza autonoma conduce i popoli verso la Terra Promessa dai grandi player dell’ information technology.
Quando il cyber-utopismo fa comodo al padrone (o al populista)
Come dicevo, la fiducia sfrenata nella forza della tecnologia è una storia vecchia, basti pensare che dietro ad ogni invenzione, dalla radio alla televisione, e addirittura all’areoplano, l’uomo ha sempre sperato di poter considerare questa il mezzo definitivo con cui poter giungere ad un cambiamento sociale.
A trattare di tutti questi casi, recenti o meno, è il sociologo bielorusso Evgeny Morozov, che nel suo famoso L’ingenuità della Rete conia proprio il termine “cyber-utopismo” per indicare questo comportamento.
Un caso particolarmente analizzato è il ruolo che la propaganda statunitense avrebbe cercato di attribuire alle comunicazioni occidentali nell’abbattimento dell’ Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Un’interpretazione dei fatti ben approssimativa ma che ha permesso a Ronald Reagan di elogiare di fronte al Mondo intero la fondamentale importanza dei servizi televisivi statunitensi – Voice Of America in primis – appiattendo ogni analisi sulle vere cause strutturali e sociali che hanno portato alla fine della dittatura (analisi non certo semplice, ma di certo non riducibile all’effetto di onde radio).
Tornando vicino a noi nel tempo e nello spazio, possiamo riscontrare un altro caso di strumentalizzazione se pensiamo a quanto, dopo l’ esito del Referendum abrogativo italiano del 2011, i telegiornali abbiano insistito nel proporre la retorica del “popolo della Rete” che aveva vinto contro il “popolo della televisione”.
Premessa la contraddizione in termini che vede accostare un “popolo” – massa di individui uniti da un’appartenenza comune – e “rete” – insieme di nodi e link che collegano strutture differenti – un’interpretazione del genere nasconde ancora una volta i veri processi verificatisi, dal lavoro di tante e tanti attivisti che per mesi si sono impegnati nelle piazze per raccogliere firme e distribuire volantini, alla distorsione delle parti in gioco, qui approssimati come “tv contro web” anziché come difesa per i beni comuni contro interessi dei privati.
Infine, se vogliamo trovare il pelo nell’uovo, non ci vuole un genio per capire che ancora oggi gli spettatori del Tg1 sono dieci volte tanto rispetto a quelli che si informano sul Web, dunque questa grandissima vittoria trova la motivazione ben al di là della tastiera e del mouse.
Il neologismo di “popolo della Rete” ci porta ad un altro grande, grandissimo cyber-utopista che questi ultimi anni stanno conoscendo nel nostro paese: Beppe Grillo.
Mentre ad inizio secolo nei suoi spettacoli frantumava monitor con un martello (“è una tecnologia che ci prende per il culo […] è una una tecnologia invasiva”), ad un tratto, folgorato sulla via del Parlamento, inizia la sua campagna elettorale con il Movimento 5 Stelle, che fonda ogni discorso sull’uso rivoluzionario del web come strumento di condivisione tra pari. La Rete è stata proprio quello specchio per allodole che ha appiattito ogni discorso di democrazia interno al Movimento ad una questione virtuale, senza permettere agli attivisti di rendersi conto che nel mondo reale quella che si stava instaurando era una dittatura bella e buona.
L’errore principale del m5s, tra i tanti, è aver enfatizzato le pratiche via web sottovalutando l’ importanza di un forte radicamento territoriale, credendo nella forza omogeneizzante della Rete e bloccando così sul nascere ogni discussione che potesse portare alla formazione di un programma davvero condiviso, tanto è vero che l’esplosione del Movimento non ha portato ad una maggiore mobilitazione di piazza, semmai ad un aumento di click, condivisioni e “i like it”.
Questo è stato ancora più evidente durante le primarie on-line, che hanno visto 1400 candidati pubblicare su youtube video di presentazione individuali, senza promuovere processi di partecipazione quanto invece un aumento di pratiche narcisistiche ed egocentriche, perfettamente in linea con la retorica grillina del “il potere fa schifo perchè al potere ci devo andare io”.
Poco fuori dall’Italia sono i Partiti Pirata che stanno cascando, anche se in maniera più moderata, nello stesso tranello, troppo attenti a programmare l’ algoritmo perfetto per il software di democrazia liquida Liquid Feedback tanto da trovarsi tra i candidati simpatizzanti per il regime nazista.
Curioso è come in alcuni post del suo blog Grillo abbia fatto uso dello slogan “The Revolution will be not Televised” – titolo del famoso singolo di Gil Scott-Heron – non come critica al tecno-utopismo ma proprio per enfatizzare il contrasto tra la televisione (il mezzo dellla ka$ta!!!) contro Internet (il mezzo del popolo).
Siamo al limite del ridicolo, e se pensiamo ai danni che questi comportamenti causano ai veri movimenti comprendiamo quanto fare queste analisi sia oggi fondamentale, prima che si diffonda a macchia d’olio la visione grillina di “rivoluzione via web”, slogan che suggestiona scenari da far invidia ai fratelli Wachowski.
Fuori da Matrix
Il grillismo è solo l’ esempio più evidente di un fenomeno macroscopico che coinvolge ormai tutta l’internet-sfera: l’attivismo da tastiera, o come qualcuno preferisce chiamarlo click-tivism, porta ad identificare sempre più nella Rete non solo il mezzo dell’agire politico, ma anche lo scopo dell’azione. Una partecipazione limitata a petizioni on-line, pagine anti-regime e community portano l’utente ad isolarsi dal resto della comunità, senza creare partecipazione attiva e ancor peggio dando l’illusione di una partecipazione virtuale, che nulla però ha di concreto.
Una volta incantati dalla comodità della scrivania è ancora più difficile organizzare eventi reali, ormai ritenuti quasi obsoleti.
Per non cadere in facili accuse di luddismo, ci tengo a precisare che non intendo di certo sostenere la nocività assoluta del mezzo che mi sta permettendo ora di diffondere questa breve riflessione.
Ancora una volta siamo chiamati a dover comprendere le contraddizioni in termini che si insinuano in ogni mezzo che abbiamo a disposizione. Non possiamo negare i tantissimi casi di progetti nati e gestiti via web che sanno fornire un supporto fondamentale per la propaganda e l’organizzazione politica, come nel caso di Indymedia durante il movimento di Seattle o tanti portali di movimento oggi in circolazione. Ciò che caratterizza questi esempi è una forte presenza sul territorio, nelle università e nelle città, veri obbiettivi dell’azione. La Rete per essere sfruttata in modo consono deve semplicemente ed esclusivamente fungere da “rete” tra strutture esistenti, deve fornire semplicemente un collegamento, senza diventare elemento preponderante o luogo di discussione.
Un’idea critica nei confronti della Rete nasce dall’intenzione di smontare il feticismo digitale, iniziando a comprendere i rapporti di potere che determinano la Rete e che la Rete determina nel mondo reale, chiedendosi cosa si intende per “Net Neutrality”, distinguendo le pratiche di liberazione dalle pratiche di assoggettamento che ogni tecnologia può offrire. Uno strumento potente come Internet, se utilizzato senza un’adeguata comprensione, potrà solo essere una trappola mortale, nella quale ogni nostra informazione personale è a totale disposizione degli organi che tentiamo di combattere.
Infine, dietro al cyber-utopismo si nasconde un tentativo di individuare al di fuori di noi, nella tecnologia, il fattore scatenante di un movimento globale. Un utilizzo consono di Internet richiede la messa in gioco di noi stessi come unici veri costruttori di processi sociali, riponendo al centro dell’attenzione la nostra partecipazione fisica a percorsi collettivi e consapevoli che il riscatto dei nostri diritti non è un compito che possiamo delegare alle macchine.
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