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Sardegna in piazza, ripensare le forme di lotta

Da quello Chimico a quello manifatturiero, da quello agroalimentare a quello turistico a quello minerario, ogni settore produttivo in Sardegna è entrato in crisi prima della Crisi, e oggi rasenta lo smantellamento completo. Nella Sardegna del 2013, se fosse possibile, perfino il cielo produrrebbe meno nuvole, perfino il mare entrerebbe in cassaintegrazione.

Lo stato di crisi feroce e generalizzato ha fatto nascere numerose vertenze sindacali. Le più “clamorose” in termini di durata e di risonanza mediatica sono state quella dei pastori e quelle operaie. Alcoa, Rockwool, Ottana, Vinyls*  hanno lottato per impedire la chiusura totale o parziale dei rispettivi impianti, fallendo complessivamente e miseramente su ogni obiettivo rivendicativo.

Apparentemente diverso, ma non nella sostanza, l’esito della vertenza dei lavoratori della miniera Carbosulcis. La miniera è di completa proprietà della Regione Sardegna, che da decenni la mantiene con grandi quantità di soldi pubblici nonostante produca a costi fuori mercato. In questo caso, i lavoratori sono riusciti a rinviare la chiusura in cambio di una sperimentazione sulla estrazione e lo stoccaggio del carbone. Una sperimentazione, a detta di molti esperti, non scevra di gravi pericoli. Probabilmente sarà solo un rinvio della chiusura di pochi anni e, in ogni caso, una vittoria di Pirro.

Per il resto, usando un gergo pugilistico, si sono contati solo knock out al primo round.

È vero, non sono mancate le resistenze dei lavoratori e delle loro apparenti organizzazioni.

Talvolta sono state organizzate singole ruvide  manifestazioni operaie nelle piazze locali e in trasferta a Roma, si sono susseguite occupazioni di pozzi e di fabbriche accompagnate da gesti ad effetto e dalla fuga in elicottero di due ministri della Repubblica in visita nel Sulcis. A chi abbia seguito il tam tam mediatico sulla Sardegna dal Continente  può avere avuto la sensazione che nell’Isola ci fosse o stesse montando un clima pre-insurrezionale.

Niente di più sbagliato.

Nella Sardegna abitata da meno di un milione e mezzo di persone, in cui il 16% della forza lavoro e il 30% dei giovani sono disoccupati, e in cui a tali cifre vanno sommate decine di migliaia di cassaintegrati, lavoratori con salari e stipendi dal bassissimo potere d’acquisto e pensionati che stanno al di sotto della soglia di povertà o la superano di poco, la lotta non è stata “Senza tregua”, come l’ha praticata altrove Giovanni Pesce, né tantomeno “dura e senza paura”.

La paura, quella sì, c’è tutta e da un lato è totalmente comprensibile. Si tratta di quella paura scontata e sacrosanta che sempre colpisce i lavoratori improvvisamente esclusi, in toto o in parte, dal ciclo produttivo, i quali temono di non poter più dare da mangiare o pagare gli studi ai figli, di perdere la casa o di non arrivare mai a una pensione ecc.

Dall’altro lato c’è, e forse c’è sempre stata,  una paura di “volare alto”, di pensare in prospettiva, di concepire la lotta non come singola e/o solamente vertenziale, ma mettendola in relazione al tipo di società desiderata e  autodeterminando il proprio modello produttivo. Si tratta di quella stessa temerarietà dei lavoratori, e della cecità o malafede di chi doveva organizzarli, che negli anni ’60, ai tempi dei Piani di Rinascita, ha fatto passare l’alternativa della chimica industriale insulare senza la progettazione di un “piano b”, nonostante se ne percepissero i limiti strutturali e lo smantellamento nel giro di pochi decenni. L’allora sinistra di classe sarda, politica e sindacale, ha dimostrato fin da quegli anni di non essere tale, preferendo inseguire la cooptazione tra buste paga e iscritti/elettori piuttosto che la ricerca del conflitto e della progettazione. Con questo articolo non si vuole entrare nel merito politico e sindacale delle singole vertenze, né tantomeno approfondire le ragioni storiche del fallimento dei Piani di Rinascita, si vuole però sottolineare il deficit degenerale di un metodo, considerando che il metodo è anche sostanza.

Il Moloch di questo disastro sociale è senz’altro il Sulcis-Iglesiente che riportiamo come caso emblematico e non come eccezione.

Oggi il Sulcis è la provincia più povera d’Italia. Per decenni la classe dirigente sulcitana ha tenuto “vivo” il più spudorato  intreccio di logiche clientelari dell’Isola. Un modello in cui il voto di scambio – totalmente trasversale – canalizzato nel rapporto tra cittadini-sindacati-partiti, ha lottizzato ogni singolo spazio della società. Vincono ovviamente la palma per maggior responsabilità i sindacati confederali locali, più abili nello spegnere ogni fuocherello rivendicativo dei “teamster” di Jimmy Hoffa1. Diceva qualcuno che il conflitto genera progresso: ecco spiegato il sottosviluppo del Sulcis e di tutta l’Isola.

Oggi la Sardegna non ha una politica industriale alternativa a quella passata, né tantomeno ha una politica agropastorale. La crisi ha soffiato ininterrottamente sulla storia dell’Isola degli almeno ultimi dieci anni, prima per ragioni congiunturali generali, poi per ragioni strutturali e congiunturali sardi, infine per cause di crisi internazionale del sistema capitalistico.

L’unico modo in cui la classe operaia abbandonata a se stessa si è saputa o potuta auto-organizzare è stato quello, forse, più desolante possibile. Il modo del disperato gesto eclatante ed effimero sempre a un passo dall’essere elemosina spettacolarizzata. Così si sono susseguiti i saliscendi dei lavoratori da cornicioni, gru e torrette industriali, le occupazioni dei pozzi sotterranei accompagnate da strette di mano agli stessi politici concausa del disastro in visita dentro le miniere. E ancora gli operai in tuta balneare sotto il Consiglio Regionale a Cagliari stile flash-mob, e infine, apoteosi dell’impotenza fatta classe, il reality sulla propria miseria: “L’isola dei cassaintegrati”.

Così si è consumata l’umiliazione di una intera classe sociale. Quella stessa classe capace nel ‘900 di essere  protagonista di tutti gli eventi, a tal punto da rendere le proprie giornate di lavoro, i propri scioperi, le proprie manifestazioni e il proprio tempo libero influenti finanche sulle forme di estetica del periodo, comprese quelle borghesi. In questi anni, viceversa, nella Sardegna del XXI secolo e altrove, è stata l’estetica televisiva e “glamour” a influenzare le forme di lotta.

Figli di questa superficialità anche molti recenti e roboanti proclami di rivolta e di indipendenza, sbraitati ma non perseguiti, fuori e dentro alle istituzioni.

Così si è consumata la sconfitta in tutto il recente ciclo di lotte in Sardegna.

Il quadro che abbiamo dipinto è impietoso ma, ben lontani dalla predica di qualsiasi teoria dell’arrendevolezza, siamo invece convinti che dal disincanto e dalla coscienza dei propri errori possa rinascere anche la coscienza di classe. E allora, per quanto lontano l’assalto frontale di leniniana memoria, potrà almeno ricominciare un lungo assedio che lo prepari.

Piazza del Foro

http://piazzadelforo.altervista.org/index.php
 
 
*Sulcis – Oltre ad Alcoa è in bilico tutta la filiera dell’alluminio. Per la ex Ila, dopo l’acquisto da parte di un nuovo imprenditore sardo, si attende il progetto per il riavvio dello stabilimento che occupava 170 operai. Ancora nulla di fatto, invece, per la prima vertenza aperta nel territorio, quella dell’Eurallumina. Chiusa definitivamente la Rockwool di Iglesias (150 lavoratori) a causa di una delocalizzazione produttiva di lana di roccia che in Sardegna non generava perdite. I 500 minatori della Carbosulcis (100 posti nell’indotto), dopo una dura protesta a meno 373 metri nel tunnel con esplosivo, hanno strappato l’impegno dal governo per rivedere il progetto integrato di centrale elettrica alimentata con il carbone e lo stoccaggio dell’anidride carbonica, evitando la fermata a fine 2012.

 

Keller – Sfumato l’accordo con il gruppo ceco della Skoda, si attende che si concretizzi l’ipotesi di un gruppo austriaco che affitti il ramo d’azienda dell’azienda di Villacidro (Medio Campidano) per produrre motrici e carrozze ferroviarie.

 Ottana, energia e manifatturiero – In un territorio che ha già perso oltre 2.000 posti di lavoro nel tessile, non regge neppure la chimica del Pet, travolta dall’annunciata chiusura della centrale elettrica Ottana Energia, in partnership tra il gruppo Clivati e i thailandesi di Indorama. Annuncio di mobilità per 250 lavoratori dopo che Terna non ha inserito la centrale tra le produzioni indispensabili per garantire l’equilibrio della rete.

 Vinyls – Nel peltrolchimico di Porto Torres non operano più 1.200 lavoratori e per i 150 della Vinyls, dopo l’occupazione per oltre un anno dell’isola dell’Asinara, ribattezzata Isola dei cassintegrati, non c’è ancora pace.

1 http://it.wikipedia.org/wiki/Jimmy_Hoffa

 

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