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Uno sciopero contro l'”economia di guerra”

Uno sciopero contro l’economia di guerra è diventato qualcosa di più e di diverso da come era stato concepito al momento della proclamazione.

Nato come momento di conflitto generalizzato e convergente intorno alla “questione operaia”, lo sciopero del 22 aprile e la manifestazione nazionale a Roma sono diventati necessariamente altro.

Una prima esigenza era stata quella di portare in piazza tutte le crisi industriali che stanno falcidiando l’occupazione e i salari nel paese, da nord a sud.

La seconda era quella di aver individuato, e di voler spezzare, la “catena del valore” su cui il capitale aveva riorganizzato il proprio ciclo di accumulazione, basandolo su filiere produttive estese a livello mondiale e su una maggiore circolazione delle merci attraverso l’intensificazione della logistica.

Ma su questa, che pure è una visione avanzata del conflitto sociale e della “variante operaia” nelle condizioni del capitalismo moderno, sono intervenute variabili pesantissime come la prolungata interruzione delle filiere produttive, prima, e la guerra in Europa poi.

La crisi pandemica del Covid ha fatto saltare un intero sistema di forniture alle imprese fondato sulla delocalizzazione e catene di rifornimento lunghissime.

Il capitalismo europeo ha provato a correre ai ripari con il Recovery Fund e con la ri-centralizzazione delle filiere. Una enorme ristrutturazione tesa a concentrare risorse, tecnologie, semilavorati in Europa per rendere i “campioni europei” in grado di stare al passo con la competizione globale o la “ipercompetizione”, come è stata definita dalla commissaria Von der Leyen.

Contropartita di questa operazione era la totale subalternità di lavoratrici e lavoratori, dei loro salari e dei loro diritti.

Ma poi è arrivata la guerra in Ucraina, ed è arrivata proprio a ridosso dell’Europa, facendo saltare una tabella di marcia che – a bocce ferme – sembrava avviata senza troppi ostacoli interni.

Che Washington non gradisse affatto l’ambizione di autonomia strategica dell’Unione Europea è diventato evidente anche agli atlantisti de noantri. E quindi una nuova guerra in Europa, dopo quella del 1999 nella ex Jugoslavia, è diventata –insieme alla Nato – lo strumento per bloccare la tabella di marcia.

Ma il combinato disposto tra crisi pandemica e guerra covava dentro di sé un altro cigno nero: l’inflazione. Ovvero l’incubo peggiore delle classi dominanti europee, e non solo, contro il quale era nata proprio la Ue e l’Eurozona.

Il risultato è che ci troviamo dentro fino al collo in una economia di guerra dove convivono penuria di beni, deficit energetico, aumento dei prezzi. Iatture che le classi dominanti hanno sempre scaricato, e intendono nuovamente scaricare, sulla spalle e sulla pelle delle classi popolari, ipotecandone ogni aspettativa in positivo.

E’ stata proprio tale ipoteca su presente e futuro ad innescare una nuova variante del conflitto sociale: quella studentesca e giovanile, che si è riconosciuta e saldata con quella operaia riconoscendosi come “figli della stessa rabbia”.

L’alleanza operai-studenti non è solo una suggestione, né una mitologia dei momenti migliori del movimento di classe in Italia; è un prodotto della realtà sociale che si è andata determinando in questi anni di crisi ripetute, che hanno costretto le nuove generazioni a maturare più rapidamente e i settori operai a ritrovare una propria identità e funzione generale, proprio dentro una catena del valore del capitale che va spezzata per ritrovare forza e protagonismo.

Sta in questa convergenza di fattori oggettivi e capacità soggettive la forza e la novità dello sciopero operaio e studentesco del 22 aprile. E le novità non si misurano in singoli momenti, ma nell’onda lunga che mettono in moto.

Era tempo, era ora.

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