L’appello, che nelle sue linee generali condivido, è alla costruzione di un movimento anticapitalista e libertario. Ritengo, tuttavia, che il termine “movimento” vada ulteriormente spiegato. Poiché non si tratta di un movimento di lotta su una questione specifica, sia pur importante e capace di alludere a tematiche di carattere più generale, ma di un movimento, per l’appunto, “anticapitalista e libertario”, che si presenta, cioè, col proposito di una trasformazione complessiva della società, è evidente che il riferimento è a una soggettività politica vera e propria.
Può anche andar bene, ma a condizione che si aggiunga subito, senza possibilità di equivoci, che tale soggettività politica non è immediatamente all’ordine del giorno. Appartiene senz’altro al novero delle possibilità, e anzi è auspicabile che i percorsi che metteremo in campo sfocino, ad un certo momento, in una identità unitaria, in una soggettività esplicitamente rivendicata e in una formazione politica complessiva; ma non è una questione dell’oggi. Se questo aspetto non viene chiarito con la necessaria nettezza, si rischia di ingenerare, da un lato, confusione, e, dall’altro, soprattutto, di saltare a piè pari l’effettivo stato delle cose che ci sta di fronte.
Si farebbe confusione perché diversi firmatari, anzi la maggioranza di essi, sono già inseriti, più o meno convintamente, in organizzazione propriamente politiche. Avrebbe poco senso, per un compagno o una compagna della Rete dei comunisti, di Rifondazione comunista o di Sinistra critica duplicare la propria identità politica esattamente nei suoi termini generali. Meno che mai avrebbe senso chiedere una rinuncia ex-abrupto alla collocazione di provenienza, a pro di una nuova, indistinta, e tutta da sperimentare, soggettività politica organizzata.
Ma la precipitazione immediata in movimento politico sarebbe negativa soprattutto perché sfuggirebbe alla principale difficoltà che noi tutti, testardi sognatori dell’alternativa e persone non riconciliate col capitalismo, abbiamo effettivamente di fronte. Senza tirarla troppo per le lunghe, la questione, per me, si pone nel seguente modo: mentre è possibile, e ragionevole, rivendicare la maturità storica del comunismo, non ci è consentito scambiare i desideri per realtà. Il fatto è che non esistono per nulla le dinamiche sociali, di lotta e di movimento, che possano rendere realistica, oggi, la prospettiva del comunismo. Di più: i comunisti, e gli anticapitalisti in genere, non possiedono più, almeno in Italia, un insediamento sociale degno di questo nome (e per il resto del mondo, eviterei comunque le apologie a-critiche). Oggi come oggi, i comunisti non attivano riconoscimento e connessione sentimentale neppure nei settori più drammaticamente colpiti dalla crisi, più precari e più poveri. Siamo tutti ridotti, come militanti, ad iniziative poco più che autoreferenziali.
In altre parole, porsi oggi il tema della “rappresentanza”, mi pare assolutamente velleitario. Non c’è un retroterra che si muove nella nostra stessa direzione di marcia, per cui noi, come parte più consapevole, saremmo urgentemente chiamati a “fare sintesi”, a dare voce compiuta alla dinamica spontanea della lotta di classe. Non c’è questo scenario. La lotta di classe prima ancora che “rappresentata”, va propriamente costruita e ri-costruita. Ma se io dico “movimento politico”, tenderò ad assumere, ne sia o no consapevole, proprio il problema della rappresentanza come immediatamente attuale. Se invece dico semplicemente, come mi permetterei di suggerire, “collettivi di lavoro politico e culturale”, o ancor più direttamente “aggregazione di compagni e compagne”, eviterò, forse, una tale torsione, e potrò più limpidamente definirmi come una “struttura di servizio”, aperta e agile, finalizzata alla costruzione e ri-costruzione della lotta di classe. Diverremmo così un ambito che, non per finta ma lealmente, eviterebbe di chiedere strappi rispetto alle organizzazioni di provenienza; e nel quale chi non sia già associato a qualcos’altro potrebbe svolgere, davvero e non per finta, un ruolo attivo, muovendosi senza problemi assieme ad altri che magari, diversamente da lui, continueranno a partecipare anche ad altri luoghi di discussione e di impegno.
Ciò che propongo sul piano generale, lo propongo a maggior ragione sul piano della realtà territoriale nella quale agisco, che è Napoli, la Campania, il Sud. Ritengo, infatti, che solo assumendo con molta decisione la logica della costruzione e non della rappresentanza, un collettivo di compagne e compagni della Campania potrebbe significativamente contribuire al conflitto possibile dell’attuale passaggio di fase, nel quale continua la crisi economica, e contemporaneamente sembrano affacciarsi anche talune dinamiche capitalisticamente indirizzate al suo superamento. Il punto è che proprio su Napoli, sulla Campania e sul Sud si scarica con violenza l’esito finale dei processi economici e politici di crisi e governo della crisi. Più in generale, il groviglio di contraddizioni che percorrere il Mezzogiorno d’Italia pone con maggiore urgenza, e forse con maggiore intelligibilità, il tema decisivo del superamento del capitalismo.
Occorre comprendere, in sostanza, come il Sud sia un effettivo crocevia della modernità capitalistica, la quale prevede interi territori specificamente vocati a “lavorare il degrado” e a portare a compimento la pratica della marcescenza sociale connaturata al capitalismo contemporaneo. Degrado e marcescenza sono aspetti normali dello sviluppo capitalistico nell’età della totalizzazione del rapporto di capitale; e però nel corso di questa crisi economica sono divenuti ancora più giganteschi. La gran parte del Sud, per la sua storia e per le relazioni sociali che lo hanno caratterizzato, si è presentato quasi naturalmente come il luogo privilegiato per assolvere al compito di polo del degrado e della marcescenza. Il senso comune che vuole la crisi mordere maggiormente le città e le campagne meridionali, è senz’altro vero. Ma essa morde esattamente perché attiva, in questi nostri territori, lo spreco assoluto degli esseri umani, consegnando alla “lavorazione finale” i detriti di uno sviluppo che è alle prese, appunto, con la crisi.
Il fatto è che morderà nel Sud anche la possibile uscita capitalistica dalla crisi, oggi largamente incerta ed embrionale, ma pure capace di muovere qualche primo passo. Del resto una crisi, che è sempre la chiusura di un percorso, comporta anche, contemporaneamente, l’apertura di un altro. La stessa parola “crisi” etimologicamente vuol dire “nuovo inizio”; ed è così anche per la crisi economica. Solo che il chiudersi di un ciclo di sviluppo, e analogamente il chiudersi di un ciclo di crisi, producono sempre un accumulo eccezionale di scorie e di rifiuti. Il destino del Sud in ambito capitalistico appare, perciò, segnato da tutte e due i lati: è penalizzato dalla crisi; sarà penalizzato ugualmente da una eventuale ripresa capitalistica. In entrambi i casi esso svolgerà, dal punto di vista capitalistico, esattamente la funzione di luogo delle scorie e dell’accumulo di rifiuti. E mi riferisco ai rifiuti in tutti i sensi: non solo alla spazzatura, ma anche alle produzioni in via di dismissione e alle strutture di circolazione dei valori in via di abbandono.
Nel Mezzogiorno d’Italia è così visivamente all’opera il risvolto di guasto sociale della crisi economica. Ma sarà all’opera anche, e non è un paradosso, il risvolto drammatico di superamento capitalistico della crisi economica, la quale già delinea, se non un vero e proprio avvio di cammino, certamente i suoi tratti caratterizzanti sul piano della composizione tecnica del lavoro e della struttura sociale che la regge. Si va nella direzione, soprattutto, di una organizzazione più precaria dell’attività di lavoro, intermittente e meno onerosa per gli anticipi di capitale; e si struttura attorno all’insieme del lavoro immediato un welfare ridotto all’essenziale, considerato esso stesso, al di là dei titoli giuridici di proprietà, null’altro che un sistema di aziende, con i cittadini ridotti ad utenti e finanche a autentici clienti.
Da questo punto di vista, hanno perfettamente ragione coloro che, crisi o non crisi, paventano un’Italia sempre più simile a Napoli, con i servizi a scartamento ridotto, il lavoro con minori garanzie e una massa considerevole di persone in eccedenza. A tale prospettiva, Napoli e il Sud aggiungeranno il particolare abnorme delle lavorazioni costitutivamente “povere” di contenuti tecnologici e un più gigantesco decadimento delle infrastrutture e della coesione sociale. Insomma, la crisi ha prodotto e produce sofferenze; ma l’uscita dalla crisi, beninteso l’uscita capitalistica dalla crisi, non produrrà affatto il paese di bengodi.
Se il quadro qui delineato possiede una qualche veridicità, ne consegue che un collettivo di compagne e compagni impegnato a costruire e a ri-costruire qui nel Sud una pratica di lotta, sarà chiamato a svolgere il discorso sulla crisi in modo molto concreto, tesaurizzando dal punto di vista proletario le ferite che, nel corpo sociale, il capitalismo della crisi, e del superamento (capitalistico) della crisi, incessantemente producono.
Se l’andamento del capitale è nella direzione della precarietà, non solo del lavoro ma proprio dell’esistere degli esseri umani, il principale fronte di resistenza cui dovremmo contribuire concerne esattamente il “valore del vivere” delle persone. Non il valore metafisico e morale, ma propriamente il “valore” espresso in termini capitalistici. Penso, in una parola, che occorrerebbe concentrare la spinta al conflitto sociale esattamente sull’obiettivo del “salario reale”, e cioè sulla richiesta che vengano comunque garantiti, a tutte e a tutti, i principali diritti umani: al nutrimento, alla casa, alla mobilità, all’istruzione, alla salute. Si tratta di una richiesta di principio e rivendicativa ad un tempo, da tradurre in una pluralità di forme, indipendentemente dal fatto che ci sia o non ci sia la possibilità di farla valere nelle condizioni di un posto di lavoro effettivo. Io ritengo che proprio la “difesa delle persone”, entro la quale va ricompresa la stessa tutela del lavoro e dei lavoratori nelle singole situazioni di contrasto ai licenziamenti, rappresenti oggi una chiave di volta straordinariamente feconda, sia per collegare le molte soggettività sociali disperse e frantumate, e sia per unire le tante associazioni impegnate in forma plurime e parziali – politiche, sindacali e di volontariato – sul versante complessivo dei diritti.
In secondo luogo, se la prospettiva del capitalismo, crisi o non crisi, va verso il decadimento delle infrastrutture e dei servizi, un decisivo terreno di scontro è già obiettivamente alimentato dall’insieme delle pratiche ambientaliste, di salvaguardia del territorio e di recupero delle condizioni sociali di vivibilità umana. Si tratta di rivendicazioni che dovremmo sapere dislocare sull’obiettivo unitario dei “presidi di civiltà”: una scuola, una ferrovia locale, una pista ciclabile, nel parco naturale, una estetica dell’arredo urbano che rompa con la pratica della cartellonistica volgare e della cementificazione selvaggia, tutto ciò non solo si coniuga naturalmente con la finalità di promuovere una “nuova cittadinanza umana” delle persone, ma contende col capitalismo le modalità di ridefinizione degli assetti sociali, sia nella crisi che oltre la crisi. Sono, beninteso, obiettivi validi a tutte le latitudini. Nel Sud, però, essi si pongono con urgenze immediate, in quanto chiamano in causa direttamente il vivere quotidiano delle persone e le loro residue chance di futuro.
Un aspetto importante, per certi versi l’apetto politicamente più importante ai fini dell’alternativa, è che la pratica di lotta sulla “cittadinanza umana” e i “presidi di civiltà” chiamerà in causa certamente la trasformazione di ciò che sta intorno a noi, ma anche la nostra medesima trasformazione, sfidandoci ad essere soggetti sociali portatori di una visione non particolaristica, bensì generale, che riguarda l’intera società. Siamo distanti, perciò, le proverbiali mille miglia dalla logica della richiesta di più stanziamenti allo Stato centrale. Si tratta piuttosto di costruire dinamiche di partecipazione che rivendichino percorsi diversi proprio a partire dalle risorse umane e materiali che già esistono nel Sud. E che, per far questo, chiamano il proletariato, in tutta la varietà della sua composizione, a parlare in termini complessivi, facendo valere un orizzonte non di interessi settoriali, ma propriamente di liberazione di tutte e tutti.
Peraltro, la partecipazione ampia ai processi complessivi di cambiamento, in direzione una vera e propria mobilitazione generale per una alternativa di società, potrebbe strappare non solo risultati parziali, ma anche incidere più in profondità sugli stessi assetti di potere. Le classi dominanti sono certamente forti; e però sono oggi anche particolarmente “esposte”, alle prese con decisioni molto delicate. Ne cito solo una tra le tante possibili (l’assetto costituzionale degli Stati, l’innovazione di prodotto in direzione della robotica applicata, la ridefinizione dei mercati internazionali, eccetera) perché mi pare foriera di molteplici confusioni anche sul nostro versante. Mi riferisco al discorso sulla tenuta della moneta unica europea.
L’idea che la borghesia della finanza e dell’industria sia omogeneamente interessata al mantenimento dell’euro, e che di converso le classi popolari dovrebbero guardare con una qualche simpatia alla rottura della moneta unica, mi sembra priva di effettiva sostanza. La questione decisiva è che esistono, all’interno delle classi dominanti europee, almeno due linee, e forse di più, a proposito dell’euro. E ciò per la buona ragione che l’euro è stato finora senz’altro “gli euri”, e cioè una moneta a valori diversi nei diversi sistemi-paesi che l’hanno adottata. L’euro, infatti, come tutte le monete nazionali, vive in molti luoghi. Vive certamente nel portafoglio di ciascuno di noi, nella forma di biglietti e spiccioli. Ma vive anche, e soprattutto, in altri particolari contesti: nei tassi di interesse sui depositi e sulle obbligazioni, nelle percentuali dei dividendi azionari, nei differenziali (lo spread) sui titoli di Stato dei diversi paesi dell’Unione europea. Con la costituzione della rappresentazione formale unica, cioè l’euro cartamoneta, i governi europei fecero nel 2001 una consapevole forzatura: davano agli “euri” l’unica veste formale di “euro”. L’obiettivo era, appunto, di “forzare”, in direzione della costituzione di un vero e proprio Stato europeo.
Oggi, per le dinamiche innescate dalla crisi, i governi, e le classi dominanti d’Europa sono chiamati bruscamente a una verifica di quella scelta. C’è chi suggerisce di insistere ancora nella forzatura, c’è chi propone una doppia velocità interna all’euro, c’è chi prospetta, anche esplicitamente, un ritorno alle monete nazionali o la costituzione di monete di area. Tra queste possibili soluzioni, c’è n’è forse una più favorevole al proletariato e all’alternativa di società? Io non credo. Sono tutte contemporaneamente favorevoli e sfavorevoli al proletariato. Per come la vedo io, dovremmo evitare di impegolarci in una questione di tal tipo, e far valere fino in fondo la nostra peculiare idea di moneta: non come una delle forme, il denaro, che, accanto alla merce, ai macchinari e al lavoro, esprime il capitale come “cosa”; ma esattamente in quanto puro intermediario per ciò che davvero ci sta a cuore, ovvero il valore (capitalistico) dell’esistenza di tutti e di ciascuno.
In altre parole, noi agiamo certamente nel tempo del capitalismo, ma dovremmo essere anche costantemente proiettati oltre il capitalismo e il suo modo di essere e di fare. L’azione politica non può significare, per noi, inseguire il dibattito delle classi dominanti sulle modalità di organizzazione del loro dominio, bensì rivendicare la visione “altra” e autonoma delle classi popolari, individuando il terreno di contesa anche come logiche alternative, lessici alternativi, impianti di ragionamento alternativi. La credibilità di una proposta politica non risiede nella capacità di dare una risposta “più intelligente” alle domande che si pone la cultura dominante; consiste invece esattamente nel rovesciare quelle domande, facendo valere l’urgenza dei corpi, degli effetti, della cultura, e della natura, come la nostra esclusiva realtà di riferimento, come l’universo negato che entro il rapporto di capitale non trova alcuna libera e vitale collocazione.
So bene che il discorso è molto più complesso di come ho potuto qui sintetizzarlo. Ma è appunto nell’attività che si sciolgono i nodi della complessità. E a tal fine ritengo che davvero possa essere d’aiuto un movimento dichiaratamente anti-capitalista e libertario; che però si caratterizzi ovunque per l’agire diretto, e per un porsi come struttura agile al servizio di una pratica sociale, tutta da ricostruire, di critica e di lotta.
Napoli, 6 maggio 2013
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