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La cultura del femminicidio

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Pubblicato il · in Controinformazione ·

È successo nemmeno una settimana fa a Corigliano Calabro: lei quasi 16 anni, lui non ancora 18, stanno assieme. Litigano e si logorano tra gelosie reciproche, l’ultima discussione e lui la colpisce con oltre 20 coltellate. Poi va in macchina per recuperare una tanica di benzina, quando torna si accorge che è ancora viva, ciononostante le dà fuoco. Non ci sono intenti di pathos in quello che ho elencato: questa la successione dei fatti nuda e cruda. Monotona, anche. Drammaticamente monotona, perché lo scenario è simile ai precedenti, così come la scansione della tragedia:

– un uomo uccide con violenza la sua compagna

– l’uomo tenta poi di salvarsi di fronte alla legge con lo stesso metodo che vede attuare (spesso con successo) in televisione e in politica: il metodo del “furbetto del quartierino”, il metodo “nego allo stremo, salvo la faccia”. Disfarsi del corpo nascondendolo o cercando di eliminare eventuali prove nel fuoco fa parte di un copione già visto. Alcuni invece si uccidono, altri sperano nel sistema giudiziario italiano: se andrà loro bene, la scamperanno o saranno fuori dal carcere in pochi anni.

«Possiamo metterne in prigione quanti ne vogliamo, ma ne arriveranno altri e altri ancora, perché il problema è culturale», ha dichiarato Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa, durante la conferenza romana svoltasi in Stampa Estera il 22 marzo 2013.

Il problema è culturale, quindi, in primis, come già avevo sostenuto in questo precedente articolo: la parte inerente alla legislazione e ai provvedimenti concerne, semmai, il momento giudiziario e di rattoppo. È difficile affrontare la totalità degli aspetti culturali ed è proprio buttando fumo su questa complessità che i negazionisti del femminicidio basano le loro poco convincenti argomentazioni (qui un interessante articolo in merito, di Loredana Lipperini). A chi interessa veramente la questione? Intanto, come vedete nella foto sopra, il 27 maggio, mentre si discuteva a proposito della ratifica del trattato di Istanbul, molti deputati disertavano l’aula.

Donne e lavoro

(18 aprile 2013, Acilia – Roma: Michela Fioretti è stata uccisa da un uomo che la minacciava da tempo. Lui era una guardia giurata, non gli hanno ancora tolto il porto d’armi)

Si pone un’emergenza strettamente connessa con la società italiana, una società che risente di un retaggio machista, come avallano le statistiche. Su diversi fronti le donne sono sotto-qualcosa: sotto-valutate, sotto-pagate, sotto-collocate. In generale, valgono meno sul mercato – rispetto ai colleghi maschi –, faticano di più per conquistarsi un buon posto e tenerselo stretto: l’Istat registra un tasso di occupazione femminile appena del 47,2%. Le laureate ricoprono più spesso dei laureati maschi mansioni dove son richieste competenze inferiori rispetto alla loro preparazione. Ma questo già si sa. Così come si sa che in Italia le lavoratrici guadagnano meno (“gap retributivo di genere”) e sono più esposte alla “ragion di mercato”: nel 2010 sono state 800 mila le madri che hanno confermato di essere state licenziate o messe in condizione di dimettersi a causa di una gravidanza (le famigerate “dimissioni in bianco”).

In un paese a prevalenza rosa – al 9 ottobre 2011,  il censimento registrava 100 donne ogni  93,7 uomini: ovvero 30.688.237 donne e 28.745.507 uomini – le percentuale di donne in luoghi decisionali, nonostante il merito, è avvilente (Istat):

  • Imprenditrici (19%)
  • Dirigenti (27%)
  • Libere professioniste (29%)
  • Dirigenti medici di strutture complesse (13,2%)
  • Prefetti (20,7%)
  • Professori ordinari (18,4%)
  • Direttori enti di ricerca (12%)
  • Ambasciatrici (3,8%)
  • Nessuna donna a vertici della magistratura

Donne e rappresentazione

(2 maggio 2013, Castagneto Carducci – Livorno: Ilaria Leone, 19 anni, è stata strangolata e abbandonata in un bosco: l’hanno ritrovata svestita e con ecchimosi sul corpo)

La questione del lavoro è collegata a quella del valore della donna. E oggi la tendenza è quella di non scindere il valore di una donna dalla sua corporeità.

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Lasciamo perdere la pubblicità italiana, i cui modelli femminili si riducono a proiezioni esasperate: donna esibita, sensuale, in grado di far fruttare la sua avvenenza o comunque macchiata da connotazioni erotiche. Bad girl che compie monellerie, e, guarda caso, lo fa in minigonna e tacchi a spillo. O anche casalinga comunque dotata di una qualche attrattiva sessuale (Gloria Pericoli, La rappresentazione della donna nella pubblicità). Sorvoliamo la pubblicità, quindi, e concentriamoci sull’ospite più invadente che abbia monopolizzato le nostre case negli ultimi trent’anni: la televisione. Da un’indagine Censis del 2006 risulta che l’Italia, insieme alla Grecia, occupa le ultime posizioni per la presenza femminile nei programmi e che le signorine dello spettacolo compaiono prevalentemente come ornamento e oggetto di desiderio (nella foto Sara Varone durante un “rodeo” di Buona Domenica, Canale 5). Realtà, questa, di cui Il corpo delle donne di Lorella Zanardo si pone ancora come uno dei più attendibili documenti.

I ragazzi di oggi sono cresciuti – e i bambini di oggi stanno crescendo – impregnati di una televisione che propina un corpo esibito come decorazione, privo di identità, confuso con gli altri e quindi intercambiabile.

«Questo corpo disegna l’icona cristallizzata di una femminilità inoffensiva, intesa come docilità e passività. [… ] Le differenze più evidenti tra uomini e donne, per come sono rappresentati dalla fiction, sono riconducibili soprattutto agli ambiti relativi all’aspetto esteriore, ai valori, ai tratti di personalità, alla condizione lavorativa e al coinvolgimento in comportamenti pro-sociali e antisociali. L’aspetto esteriore risulta essere molto più rilevante per le donne, che in netta maggioranza sono belle e in buona forma fisica, piuttosto che per gli uomini, più spesso proposti con caratteristiche fisiche “medie”. Anche la modalità di rappresentazione del corpo è diversa nei due casi, essendo più spesso il corpo femminile oggetto di una esposizione con finalità seduttive e di ostentazione» (CNEL Donne, lavoro, tv. La rappresentazione femminile nei programmi televisivi, Roma, 2002)

Se la donna viene ridotta a fisico e perde essenza, allora diventa oggetto. E, se inquadrata come oggetto, se perfino lei stessa si sottopone spontaneamente a processi di auto-oggettivazione, risulta facile immaginare quali operazioni mentali compiano i carnefici: l’unica destinazione di un oggetto è quella che essi hanno stabilito. La donna-utensile si ribella? Merita una punizione. Persiste? Seguirà l’annientamento.

Ora torniamo alla notizia di cronaca che ha aperto l’articolo e soffermiamoci sulla parte conclusiva del femminicidio, quando il diciassettenne è tornato dalla fidanzata accoltellata: lei respirava ancora. Avrebbe potuto salvarsi. Cosa consente di travalicare le più primordiali leggi di empatia e di bruciare lucidamente un corpo che ancora respira? La deumanizzazione della persona che ci si prefigge di danneggiare. Eloquenti sono, al proposito, le sette dimensioni che decodificano, secondo Martha Nussbaum (1999), il concetto di oggettivazione:

1. Strumentalità: l’oggetto è uno strumento per gli scopi altrui;

2. Negazione dell’autonomia: l’oggetto è un’entità priva di autonomia e autodeterminazione;

3. Inerzia: l’oggetto è un’entità priva della capacità di agire e di essere attivo;

4. Fungibilità: l’oggetto è interscambiabile con altri oggetti della stessa categoria;

5. Violabilità: l’oggetto è un’entità priva di confini che ne tutelino l’integrità. È possibile farlo a pezzi.

6. Proprietà: l’oggetto appartiene a qualcuno.

7. Negazione della soggettività: l’oggetto è un’entità le cui esperienze e i cui sentimenti sono trascurabili.

Donne e violenza

(27 marzo 2013, Porto Recanati – Macerata: Anna Maria Gandolfi, 57 anni, è stata ritrovata con la testa maciullata: al culmine di una lite, il marito gliel’ha fracassata contro il tavolo).

La violenza è capillarmente diffusa attraverso le sue maglie pervasive e si manifesta a diversi livelli. Siamo il paese in cui le donne vengono molestate e non denunciano – se leggete la tabella sotto, scoprirete i motivi: tra questi risalta anche la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine e nelle loro possibilità (20,4 per cento) e la paura di essere giudicate e trattate male al momento della denuncia (15,1 per cento). (Istat)

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6 milioni e 743 mila donne hanno dichiarato di essere state vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. E manca il sommerso. Senza scomodare quei 6 milioni e passa, basti un banale esempio: quante di noi redattrici/blogger/giornaliste/scrittrici siamo state almeno una volta offese/linciate/diffamate/minacciate solo perché abbiamo espresso un dissenso o sollevato un dibattito civilmente?

L’aggressione verbale si alterna a quella fisica con uno scoraggiante anticipo: tra i due tipi di maltrattamento sussiste una sola differenza, che quello verbale si manifesta laddove non può esplicitarsi quello fisico. La violenza non è indirizzata esclusivamente alle donne: però è rivolta anche alle donne. Quello che ci insegnano la moda, la televisione, il gossip e, in alcuni casi, il web è l’attacco come strategia vincente. Se alzo la voce, allora ho ragione. Se cerchi di spiegarti, ti parlo sopra. Se ti insulto, la tua parola non vale più. E se la pensi diversamente da me, se non mi incensi o osi criticarmi, sei una merda. C’è chi ha fatto della rissa in Tv sua cifra stilistica privilegiata:

I ragazzi di oggi, gli uomini di oggi – e i bambini di oggi, futuri uomini – devono confrontarsi con questi modelli: quanto più gli esempi sono stati o saranno reiterati, tanto più crescerà la probabilità di un condizionamento.

Conclusioni

(7 febbraio 2013, Rieti. Per mano del compagno è morta una macedone di 38 anni, ferita a morte alla testa e all’addome a colpi di mattarello)

Ho intersecato tre problemi inerenti la complessa questione culturale, tre cause che concorrono alla svalutazione del valore della donna. Ma questo breve saggio non ha pretese esaustive: c’è ancora molto da analizzare. È indiscutibile l’emergenza prepotente dell’area semantica relativa al corpo femminile, così come è indiscutibile la necessità di una rieducazione all’altro – al di là dei generi – e l’urgenza di una ridefinizione dei valori di civiltà, libertà individuale, differenza, rispetto.

Vorrei concludere con le parole di Marina Piazza (Commissione Pari Opportunità), a chiosa della ricerca CNEL  sopra citata, perché il “sogno nostalgico” cui accenna è forse lo stesso sogno che ha portato all’incubo del femminicidio di Fabiana Luzzi,  a Corigliano Calabro, ovvero l’incapacità di riconvertire in paritari gli equilibri. Ma c’è ancora parecchia strada da fare:

«Questa libertà nuova delle donne e forse persino questa incertezza delle donne è difficilmente assumibile dal pensiero degli uomini, ancorati a un sogno nostalgico di rapporti di dominio, che si riversa allora nell’altra faccia dell’immagine femminile: l’immagine umiliata, degradata, sottomessa, nuda.[…] Forse noi stesse dobbiamo avere più coraggio, denunciare con più forza, non stancarci di monitorare ciò che avviene sul video».

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