Le cose non sono andate troppo diversamente anche nei restanti collegi elettorali, ma è a Roma che l’astensionismo di massa ha raggiunto i picchi di maggiore consistenza. Ci soffermiamo su Roma poiché, in quanto realtà metropolitana, è in grado di anticipare e prefigurare gli scenari complessivi di un futuro che, a ragion veduta, sembra essere dietro l’angolo. L’analisi del voto romano, pertanto, assume un significato di particolare interesse in virtù della tendenza che oggettivamente incarna ed è esattamente il saper leggere e interpretare con anticipo la tendenza che fa delle avanguardie comuniste una realtà degna di questo nome. Proprio su tale capacità si gioca, per intero, quell’essere sul filo del tempo che il metodo leniniano ci ha consegnato sulla scia della scienza marxista. Vediamo, pertanto, che cosa è successo a Roma, considerando la prima tornata elettorale. La somma dei due poli governativi ottiene circa un terzo dei consensi. Il Movimento 5 Stelle, in neppure due mesi, brucia gran parte dell’appeal protestatario raccolto alle politiche; irrisorio il risultato del cartello della sinistra parlamentarista; praticamente nullo il risultato della cosiddetta destra radicale.
Iniziamo a prendere in rassegna, sulla base dell’analisi di classe, il risultato ottenuto dall’area governativa e dalle sue ruote di scorta. Chiediamoci, pertanto, quali interessi materiali richiamano. Queste coalizioni rappresentano gli obiettivi interessi di quella parte di popolazione socialmente ed economicamente inclusa, la quale, dentro quei contenitori politici, trova una soddisfacente rappresentanza politica. Queste aree, a loro volta, possono essere suddivise in due grandi blocchi. Da un lato quelle categorie professionali e lavorative interne e compatibili con l’attuale ciclo produttivo e quindi non devastate dalla crisi; dall’altro le nutrite clientele parassitarie che vivono e prosperano grazie alle prebende elargite dal sistema politico. Si tratta di blocchi sociali differenziati tra loro ma, almeno per adesso, accomunati nel mantenimento e nella difesa degli attuali assetti politici. Per molti versi, però, questo fronte poggia su un equilibrio quanto mai precario e in via di dissoluzione. Da un lato, infatti, i segmenti di lavoro subordinato che, per ora, il PD è in grado di garantire non sono per nulla immuni dal rischio che una crisi sempre più senza vie di uscita può velocemente far precipitare nella condizione di proletari marginali ed esclusi. Allo stesso tempo, quei settori di piccola borghesia ancora protetta dalle filiere partitiche sono quanto mai in una situazione non distante dal baratro e non vi è, di fronte ai meccanismi oggettivi della crisi, rappresentanza politica di sorta in grado di evitarne la polverizzazione economica e sociale. Per altro verso, sul fronte della destra, non è escluso che quella serie di corporazioni che possono vantare ancora una qualche protezione, palesemente “pre-moderna”, non finiscano, in tempi più o meno rapidi, con l’essere archiviati, e il divenire del modo di produzione capitalistico abbonda di esempi, tra il “mondo di ieri” e gettati nella pattumiera della storia. In poche parole, la base di massa economica e sociale degli attuali assetti governativi sembra essere maggiormente prona a un corposo ridimensionamento, piuttosto che il contrario. Discorso analogo, pur se dovuto a motivi diversi, per la possibile entrata in crisi di quel non secondario sottobosco politico che vive di prebende più o meno corpose. Con ogni probabilità, l’obbligata ristrutturazione politica alla quale il “sistema Italia” è chiamato non potrà far altro che optare per un corposo dimagrimento di tutto quell’apparato parassitario, finalizzato attraverso il foraggiamento delle clientele, a garantire una certa dose di consenso. Come vedremo meglio in seguito, quando proveremo a leggere e interpretare il doppio volto degli esiti elettorali, le trasformazioni del sistema politico vanno esattamente in una direzione opposta a quella legata all’estensione delle logiche clientelari e, con ciò, alla necessità di foraggiare tutta quella serie di “portaborse” che, delle clientele, sono l’esatto trade – union.
L’implosione del Movimento 5 Stelle non deve stupire. Appena due mesi addietro sembrava un fiume in piena e nessun argine appariva in grado di contenerlo. Alla prova dei fatti, il Movimento 5 Stelle si è dimostrato politicamente vuoto, senza programma e privo di progetto. Tipico movimento piccolo borghese dai tratti proto fascisti, nel momento in cui avrebbe avuto la possibilità di porre sotto assedio, attraverso la mobilitazione delle masse, il Palazzo e tutte le sue appendici si è dimostrato più nudo del re. Tutto ciò non deve stupire. Come tutti i movimenti piccolo borghesi può raccogliere in maniera vaga e indistinta la “protesta”, ma non può organizzare una lotta seria e sistematica contro gli assetti imperialisti. Per sua natura il Movimento 5 Stelle può gridare, urlare, forse imprecare, sicuramente non può avere un programma governativo di rottura.
La piccola borghesia, indipendentemente dal suo peso quantitativo, non può elaborare una sua autonoma strategia politica, ma porsi semplicemente come appendice, per quanto riottosa, delle classi storiche. In altre parole, la piccola borghesia, non può che oscillare tra la borghesia e il proletariato. Del resto, le reiterate ambivalenze presenti dentro i proclami del Movimento 5 Stelle lo dimostrano abbondantemente. Basti pensare alla vena antimperialista che lo porta a chiedere il ritiro delle truppe italiane dagli scenari di guerra e occupazione alla quale, un attimo dopo, fa riscontro il non celato razzismo e la manifesta xenofobia nei confronti degli immigrati (tanto da non differenziarsi dalle retoriche proprie della Lega Nord o di Forza Nuova) o, ancora, la richiesta di diritti sociali tipici della massima espansione del Welfare State, auspicando, al contempo, un sistema economico e sociale che porta sino alle estreme conseguenze le retoriche proprie dell’anarco-capitalismo. Di più: un radicalismo, almeno verbale, contro i monopoli e il parassitismo finanziario, accompagnato però da un collaborazionismo di classe del tutto simile al corporativismo fascista. Ridotto all’osso, il “sogno grillino” è qualcosa che mette insieme Proudhon e Olivetti, Mussolini e Nenni. Come tutti i movimenti di tale natura il Movimento 5 Stelle si caratterizza per il suo eclettismo e il suo occasionalismo, dove vi è posto per tutto e il contrario di tutto.
La repentina disillusione che le masse hanno manifestato verso il Movimento 5 Stelle non sono altro che l’obiettivo riflesso delle contraddizioni che questo movimento si porta appresso. Nel momento in cui, sulla scia del successo elettorale maturato alle politiche, il Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto portare alle logiche conseguenze quanto da anni sbandierato a destra e a manca nessuna sua iniziativa è andata in quel senso. Buona parte degli elettori del 5 Stelle non erano “elettori” ma masse di popolo in movimento che chiedevano, se non tutto, qualcosa. Di questo qualcosa, in due mesi, non si è intravisto neppure un piccolo inizio. Ciò non significa che il Movimento 5 Stelle sia definitivamente morto e sepolto: più prosaicamente significa che, nel suo percorso, è terminata la fase della “innocenza”. Non è escluso infatti che, in un futuro non distante, la borghesia imperialista punti proprio su questo movimento per portare a termine la “rivoluzione” di cui ha urgente bisogno.
Detto ciò, passiamo ai magri risultati maturati dalla cosiddetta sinistra radicale. L’ennesimo cartello elettorale della defunta FdS ha mostrato, se ancora ve ne fosse bisogno, quanto fallimentare e suicida si mostri l’attaccamento al parlamentarismo e al perseguimento di una politica il cui orizzonte rimane prigioniero delle logiche istituzionali le quali, palesemente, sono rigettate con disprezzo dalle masse. Ciò che questi compagni non colgono è la fine di un’epoca. Il non comprenderlo non è solo politicamente fallimentare ma, fatto ben più grave, è storicamente inattuale. Il loro fallimento non va ricercato, come sovente accade, negli errori commessi nella campagna elettorale, ma nell’averla considerata come strategia politica percorribile. Paradossalmente, questi compagni cercano di nobilitare le istituzioni e un sistema politico in piena putrefazione, storicamente già archiviato.
Va infine registrato il palese flop delle varie organizzazioni fasciste. Nella fase politica attuale non sembra esservi posto, per costoro, in uno spazio politico autonomo ma solo il semplice, e in fondo tradizionale, ruolo di braccio armato semi legale delle forze imperialiste. I fascisti, infatti, non sembrano poter aspirare ad altro che a conservare il monopolio dei traffici illegali, della manovalanza per i “lavori sporchi” e del reiterato servizio di spie e informatori che, da sempre, svolgono dentro i territori proletari.
Molto sinteticamente, questo il quadro che fuoriesce dalla urne di Roma e, con effetto a cascata, dall’intero Paese. Da tutto ciò cosa dobbiamo ricavarne? Quali conseguenze pratiche e tattiche è necessario trarne? In che modo, di fronte a ciò, dobbiamo rispondere alla inevitabile domanda: Che fare? Siamo di fronte a un fenomeno per nulla irrilevante e, al contempo, complesso e contraddittorio. La sostanziale tranquillità con la quale il ceto politico governativo e imprenditoriale ha registrato il fenomeno astensione deve farci riflettere. Nessuna preoccupazione, nessuno scoramento da parte degli apparati della borghesia imperialista, come se tale risultato non fosse solo ampiamente previsto, ma abbondantemente auspicato. L’obiettivo distacco della maggioranza della popolazione da questa forma di rappresentanza sancisce, infatti, tre cose:
1) il carattere definitivamente obsoleto e storicamente inattuale di questo modello politico e della Costituzione che lo sostanzia. Con ciò si chiude, anche sotto il profilo giuridico – formale, ogni velleità costituente delle classi sociali subalterne. Il lavoro, quindi i lavoratori, è definitivamente escluso e posto ai margini della nuova fase costituente. Lo spettro, pur simbolico, della lotta armata operaia e partigiana, forzatamente catturata dentro le carte costituzionali, una volta per tutte può essere accantonato;
2) l’obiettiva marginalizzazione ed esclusione politica e sociale di quote consistenti di subordinati, la cui condizione si assolutizza nella dimensione di capitale variabile e, con ciò, la messa in mora della classe in quanto soggetto storico e politico. In tale passaggio, il tempo storico della classe, dovrebbe essere definitivamente sussunto dal tempo prosaico del capitale;
3) la ratifica di un modello economico e sociale, e le conseguenti rappresentanze politiche, che per funzionare non deve includere la maggior parte della popolazione, bensì il contrario. In prospettiva, dalla cosiddetta “società dei due terzi” a quella di un terzo o poco più.
Sotto tale profilo, le quote di popolazione ancora politicamente rappresentabili si mostrano persino eccessive. Le posizioni di “rendita” di una parte di queste non potranno che essere continuamente erose. Per molti versi, quindi, i risultati elettorali sono anche una vittoria delle classi dominanti. Empiricamente, queste, hanno potuto toccare con mano gli effetti complessivi della loro ristrutturazione strategica. Sotto tale aspetto l’aver reso impolitica una quota non secondaria di popolazione è ampiamente riuscito. Su ciò, con molto realismo e altrettanto cinismo, potranno essere giocate le svolte decisioniste che le classi dominanti hanno posto, in tempi brevi, all’orizzonte. Dopo la grande trasformazione sociale ed economica diventa concretamente possibile attuare anche la grande trasformazione politica. Ciò che si profila è un funerale di terza classe per tutte quelle retoriche e istituzioni che, in qualche modo, avevano contrassegnato un’intera arcata storica. Registriamo, così, la fine di un’epoca. Nonostante che, per almeno un decennio, i tempi di questa storia siano stati scanditi dai ritmi dell’assalto al cielo delle masse operaie e proletarie: nessun rimpianto. Il nostro tempo è ora.
Un’asserzione dettata da un inguaribile ottimismo? No. Piuttosto il riconoscere la potenzialità rivoluzionaria che il passaggio in cui siamo offre. Abbiamo detto della sostanziale soddisfazione mostrata dalle classi dominanti di fronte al ritiro delle logiche della rappresentanza da parte dei subalterni ma, pare ovvio, questo è solo un lato della medaglia. Certo, ci interessa capire la borghesia, ma ancor di più comprendere quanto avviene tra le masse. Ciò che spontaneamente le masse hanno registrato è sintetizzabile in due punti:
1) la loro obiettiva estraneità a questo modello di rappresentanza politica;
2) il disgusto per un sistema ormai in piena putrefazione. Sotto questo aspetto il punto di vista delle masse proletarie e quello della borghesia imperialista, non per caso, coincidono. In quanto classi storiche, e Marx ed Engels lo avevano ben argomentato!, queste sono obbligate a fare ciò che una condizione storicamente determinata impone loro. Solo le classi intermedie e gli avanzi della storia si aggrappano, come naufraghi in un mare in tempesta, al “mondo di ieri”, le classi storiche non possono che essere attratte, pur solo istintivamente, dal divenire e lì, dentro quello scenario, giocarsi per intero la loro partita storica.
Ciò che sembra lecito sostenere è l’essere giunti dentro a una svolta dove nulla sarà più come prima. Abbiamo accennato, pur brevemente, all’ennesimo tracollo del cartello delle sinistre. Eppure, di fronte a uno scenario economico e sociale come l’odierno, una loro corposa affermazione avrebbe dovuto essere non solo possibile ma addirittura scontata. Così non è stato. Per capirne il perché non occorrono particolari alchimie e neppure intuizioni particolarmente geniali, bensì è sufficiente comprendere il passaggio di fase storica nel quale siamo immessi. Nel bene, e il più delle volte nel male, quel modello di rappresentanza politica e istituzionale sanciva, benché sovente in maniera contraddittoria e per nulla pacifica, una relazione tra gruppi, ceti e classi sociali interne a un determinato modello di relazioni industriali. Le istituzioni, come si è del resto ben visto sul finire degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, funzionavano anche come organismi della mediazione politica e sociale tra le classi. Lo Statuto dei lavoratori, su questo, dovrebbe ben raccontare qualcosa. Allo stesso tempo, ancora quella mediazione funzionava da leva della pacificazione sociale, attraverso la dilatazione di impieghi e mansioni parassitarie elargiti senza parsimonia a schiere sempre più vaste di clientele.
In tutto ciò, la rappresentanza politica fondava la sua ragione materiale di esistere e, per un certo numero di anni, di prosperare. Craxi, gli anni Ottanta e le sue successive appendici hanno raccontato esattamente questo. Ma, a partire dai processi di globalizzazione, per arrivare alla crisi odierna, ormai riconosciuta ben più grave e drammatica di quella del ’29 anche dal personale politico imperialista, che cosa resta di tutto ciò? Dentro la centralizzazione del comando politico, militare ed economico a livello transnazionale che cosa può rimanere in piedi di quel mondo? Quali ricadute materiali può avere, per le masse economicamente e socialmente escluse e marginalizzate, quella rappresentanza politica? Nulla. La risposta è tanto lapidaria quanto semplice. E allora? Dobbiamo, poiché quel modello è giunto al capolinea, considerare definitivamente chiusa la dimensione politica della classe? Certamente no, solo che, e in ciò si misura la capacità delle avanguardie comuniste di agire da partito, si tratta di organizzare la “rappresentanza politica” della classe e delle masse fuori e contro un modello che, nei fatti, le ha già escluse e non ha nulla da offrire loro. Esattamente qua è il nodo di Gordio che va sciolto e reciso.
Abbiamo oggi, di fronte a noi, delle praterie non solo sterminate ma, soprattutto, fuori controllo. La borghesia imperialista ha posto fuori gioco le masse rendendole niente di più e niente di meno che capitale variabile, da usare come e quando le aggrada. Il lato cattivo della storia, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Queste masse non hanno bisogno di schede elettorali, del resto le hanno abbondantemente snobbate, ma di organizzazione autonoma. Hanno bisogno di mettere a regime un’altra tipologia di “rappresentanza”. Questa rappresentanza può essere data solo da e dentro le lotte. Questa rappresentanza può essere data solo dall’esercizio di un altro potere. Su questo piano si misura la sensatezza della politica comunista.
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