Significativo è stato che l’unica reazione nella serata del 3 luglio sia stata quella di Obama con il chiaro intento di condizionare l’orientamento dei militari dopo che gli USA hanno in qualche modo determinato la situazione attuale. Ovviamente non può essere escluso l’avvio di una drammatica guerra civile che in questo caso riguarderebbe decine di milioni di abitanti di quel paese.
Un errore che va evitato è quello di dare un giudizio sugli eventi che parta dalla sola dimensione nazionale, le cause sono profonde e sono il prodotto dell’imperialismo al livello attuale di sviluppo e delle sue conseguenti contraddizioni. Prima la Turchia, poi il Brasile, oggi l’Egitto, è solo un aggiornamento – l’ultimo epifenomeno, dopo il groviglio creato in Siria o con i Curdi o in Libano – rispetto ai processi in atto. Se aspettavamo un’ulteriore conferma che la storia non è per nulla finita, eccola servita. Come anche che la crisi del Modo di Produzione Capitalista è in una fase acutissima. Ciò che adesso serve, però, è una griglia che ci consenta d’interpretare i fatti. Una lettura, dunque, capace di orientare l’azione politica.
La crisi colpisce indubbiamente anche le periferie produttive. Particolarmente evidente per quanto è accaduto ad esempio in Brasile, dove la crescita economica di un importante paese dei BRICS (e dunque anche della sua accresciuta capacità di penetrazione economica internazionale) non ha determinato – in mancanza di una chiara opzione di classe nell’azione politica – una distribuzione della ricchezza. Quindi un deficit di socialismo che ha sicuramente determinato contraccolpi economico-sociali e politici.
La vicenda turca e quella egiziana hanno invece in comune un elemento ‘dominante’ sul piano politico. L’elemento critico sembra più legato alla storica sudditanza geostrategica che si manifesta – come spesso è già avvenuto in questi paesi – nella contraddizione tra modernizzazione capitalistica e una ‘resistenza’ che si connota oggi in modo più moderato e meno ‘arcaico’. Contraddizione che non è più riconducibile, infatti, all’impresa kemalista o alla rivoluzione contro lo Scià, perché sebbene nelle condizioni specifiche di ciascun paese, la modernizzazione capitalistica è ormai compiuta. Come anche l’internità alla competizione capitalista internazionale.
Dietro la vecchia forma si cela allora una nuova contraddizione figlia della contemporanea divisione internazionale del lavoro. In questo senso si può inoltre parlare di crisi nella periferia produttiva: come riflesso in periferia dello scontro centrale tra Usa ed Europa, cioè tra il tradizionale imperialismo nord americano e l’attuale costituzione imperialista del polo europeo; ma anche come la crisi economica generale stia tracimando dai centri imperialisti producendo conflitto generalizzato e fuori controllo. Ovviamente tutto questo si manifesta nelle condizioni effettive dei diversi paesi.
Sebbene nella vicenda turca, infatti, le spinte ‘progressiste’ – o di sinistra – sembrano più avanzate e capaci, forse, di giocarsi una battaglia per l’egemonia all’interno del fronte della protesta, la mancanza di un progetto politico, sociale, economico alternativo basato su un’organizzazione politica strutturata, ci ricorda che la crisi capitalistica non precipita autonomamente ma richiede l’intervento di soggettività adeguate. Il piano del capitale è inclinato e si è anche spinto in un vicolo cieco – come abbiamo più volte ripetuto – ma il rischio che ad approfittare della mobilitazione sociale (trasversale ma legata soprattutto ai nuovi ceti urbani passati dalla povertà assoluta a classe media spesso composta di lavoratori salariati e da figure del precariato sociale simile a quelle che la gerarchizzazione dell’UE sta moltiplicando nei PIIGS) – siano forze interne alla classe dirigente come i repubblicani in Turchia o le forze liberali in Egitto e Brasile, è molto alto. In Egitto, infatti, la vicenda dei militari fa da tappo ed ha portato agli attuali sviluppi.
Una nuova mappatura delle forze in campo nello scacchiere internazionale e un occhio di riguardo al contrasto politico ed economico tra i vecchi imperialismi e i nuovi protagonisti della scena s’impone. Per questo l’autodeterminazione dei popoli deve uscire dal giogo imperialista che ripresenta con forme aderenti al nuovo contesto la tradizionale politica dei Mandati; ma per riuscire in questo è necessario assumere un punto di vista alternativo, lavorare avendo come orizzonte la trasformazione e non una dialettica finta perché priva di superamento.
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