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Egitto: il cammino disordinato ma continuo della rivoluzione anticapitalista mondiale

 

La stampa occidentale di fronte a quanto sta accadendo in Egitto è più confusa e sbandata dei fatti che inesorabilmente sorprendono e travolgono le idee delle intellighenzie delle camere caritatis. Cerchiamo di tracciare un filo di ragionamento oltre la coltre delle apparenze interessate dei circoli diplomatici all’ordine capitalistico che ha il suo centro motore in Occidente. Procediamo con ordine seppure a vol d’uccello.

Sergio Romano, noto giornalista, saggista, scrittore, ambasciatore ecc., ecc. , insomma uno che …‘sa’, in un articolo sul Corriere della sera del 15 agosto dal titolo ‘Il golpe del generale devoto Al Sisi, una sfinge macchiata di sangue’ , tra l’altro scrive: <<Abdel Fattah Al Sisi ….è responsabile di un bagno di sangue che potrebbe competere, per le sue dimensioni, con quello provocato da Mubarak (800 morti, secondo gli accusatori) prima del crollo del suo regime. >> e prosegue << …quindi, il maggiore regista della crisi egiziana; …>>. Francamente suona un po’ sospetta questa condanna senza appello nei confronti di Morsy e dei Fratelli Musulmani verso i quali non nutriamo particolari simpatie. Ora l’obiezione  dell’uomo della strada – che Sergio Romano non è – potrebbe facilmente obiettare: ma se il  responsabile di tutto questo è un uomo, basta metterlo in carcere o ucciderlo e tutti i problemi sarebbero risolti. Evidentemente non può essere un  uomo solo il responsabile del disastro mondiale che in Egitto viene a essere riflesso come onda d’urto di una crisi più generale che – lo ripetiamo – ha il suo fulcro in occidente.  

Si cita in tutti gli articoli  la cifra di un miliardo e mezzo di dollari all’anno che gli Usa danno all’Egitto, una cifra che rapportata ad un paese di oltre 82 milioni di abitanti rappresenta neppure una sorta di carità pelosa, ma  giusto una spesa messa in conto delle uscite, per comprare un manipolo di ufficiali dell’esercito, un pugno di personaggi politici nel tentativo di tenere sotto controllo una vera e propria polveriera per l’intera area e garantire in qualche modo una certa sicurezza per la testa di ponte dell’occidente costituita dallo stato di Israele, che come i sapientoni sanno, nasce sì alla fine della Seconda guerra mondiale ma  che le aspirazioni risalgono a molto prima, agli appetiti angloamericani tra la fine dell’800 e gli inizi del 900 quale necessità di testa di ponte per lo sfruttamento nell’area mediorientale degli immensi giacimenti petroliferi. Tra l’altro, detta  elargizione a “fondo perduto”  <<è il prezzo che gli stati Uniti pagano  da molti anni per avere il diritto di parlare al Cairo con l’autorità del protettore e anche, incidentalmente, per indurre i governi egiziani a collaborare con Israele soprattutto lungo la turbolenta frontiera del Sinai>> scrive ancora Sergio Romano. E questo vuol dire ovviamente esercitazioni militari sul territorio egiziano ritenuto cortile di casa propria da parte della Casa Bianca e dei suoi alleati europei.

Le primavere arabe e la democrazia.

Sia detto in maniera chiara: per democrazia si deve intendere la partecipazione seppure a cascata di più classi sociali allo sviluppo dell’accumulazione capitalistica, che viene a essere riflessa in istituzioni politiche rappresentative in organi costituzionali parlamentari. Il vero punto in questione delle primavere arabe è che l’accumulazione capitalistica, come Sistema Sociale Mondiale si è estesa qualitativamente anche in queste aree un tempo colonizzate dall’occidente, producendo aspettative nelle popolazioni locali  e principi di classi sociali  che  reclamano gli stessi livelli di vita prodotti in Occidente.  La cosiddetta borghesia occidentale non può accampare nessun merito a riguardo, se non quello di essersi fatta cullare da uno sviluppo industriale impersonale, irrazionale, istintivo, anarchico, brutale e crudele e che l’ha resa responsabile di orrendi crimini unitamente a uno straordinario sviluppo di forze produttive. E’ bene essere sfrontati: il capitalismo ha prodotto le classi e si è ad esse imposto. Oggi, sia alla Casa Bianca  che nelle capitali europee non sanno che pesci pigliare, perché si trovano ad affrontare impotenti un mostro acefalo prodotto dallo stesso Sistema che li ha tenuti al potere per anni. Si tratta di una forza rivoluzionaria senza precedenti nella storia.

Sempre Sergio Romano, in un successivo articolo sul Corriere della sera, dal titolo ‘I due volti della Fratellanza Carità sociale e Islam radicale’, descrive – a modo suo -l’ambivalenza di un movimento che ha le sue origini nell’atto di nascita in Hassan Al Banna e sei operai della Compagnia del Canale di Suez nel 1928. Come mai – verrebbe da chiedersi – un movimento che nasce con sei operai arriva al punto – una volta giunto al potere, dopo oltre ottanta anni – di imporre  insieme alla islamizzazione dello stato la legge antisciopero e la cancellazione dei sindacati? La risposta la troviamo nelle stesse motivazioni che ne fecero di Solidarnosc, un sindacato sorto dalle lotte  operaie negli anni ottanta in Polonia, un partito governativo antioperaio; oppure dell’Anc in SudAfrica; o il FNL d’Algeria; o lo stesso PCC cinese; o – perché no? – la stessa sorte toccata ai bolscevichi, ovvero la morsa delle leggi dell’accumulazione del capitale che si sono rivelate essere inesorabili ed hanno travolto anche le migliori intenzioni e le più solide organizzazioni delle classi proletarie.

Marco Hamam, un italo-egiziano, arabista, assegnista di ricerca all’Università di Sassari,  autore di diverse pubblicazioni sulle questioni del mondo arabo contemporaneo; che collabora con la rivista italiana di geopolitica Limes e altre testate nonché  analista di temi riguardanti il Medio Oriente per stazioni radiofoniche nazionali e internazionali; che ha scritto – tra l’altro –  il libro ‘Egitto, la svolta. Mubarak alla prova del voto’ (Memori 2005), insomma un altro di quelli che ‘sa’, fornisce  alcune interessanti risposte  a specifiche domande sui Fratelli Musulmani in una intervista del 13 febbraio 2013, scorriamole: << D. Quale può essere il ruolo dell’Egitto negli sviluppi della primavera araba? R. O caos o ordine all’interno di queste rivoluzioni arabe. Un modello per tutto il mondo arabo, in negativo e in positivo. D. Il noto pragmatismo dei Fratelli Musulmani può conciliare pensiero islamico e diritti umani? R. Penso di si, l’ideologia dietro la quale si nascondono è uno scatolone vuoto. Se è nel loro interesse e nell’interesse del potere fare qualche concessione sul piano dei diritti umani, loro non ci pensano su due volte. Lo hanno provato in questi mesi – di governo o di regime – che si dice islamico che corre dal Fondo Monetario Internazionale per chiedere un prestito a interesse. Questo vuol dire che sono pronti a tutto, basta che non cedono le poltrone. Loro sono arrivati lì e non le vogliono più cedere e se li obbligheranno ad andar via succederà veramente un bagno di sangue>>. A leggere i fatti, Marco Hamam ha saputo prevedere gli sviluppi di quanto sta accadendo in questi giorni, ovvero un bagno di sangue.

Il punto veramente inquietante da aggredire e che viene totalmente rimosso dalle varie redazioni della stampa occidentale oppure frullato all’interno di copiosi e tortuosi ragionamenti sui personaggi della ribalta è: “un  governo o regime che si dice islamico, corre dal Fondo Monetario Internazionale per chiedere un prestito a interesse”. Ora, quando si va da un usuraio e si chiede un prestito, le condizioni capestro non le pone il richiedente, ma chi detiene i cordoni della borsa, ed è noto che in una fase di crisi acuta come quella attuale, bel peggiore di quella del 1929, le condizioni degli usurai del Fondo Monetario Internazionale sono ben più gravose  e maggiormente vincolanti che per il passato. Diciamola allora tutta e fino in fondo: alcuni paesi occidentali ad un certo punto  dello sviluppo dell’accumulazione capitalistica, una fase cosiddetta liberista – in primis Usa e Inghilterra ma anche Francia e la stessa Italietta -si sono illusi di poter vivere di rendita sull’usura, ovvero su quello che viene definito capitale finanziario, e scaricare tutti i costi dei processi produttivi nei paesi di giovane capitalismo, anche attraverso le delocalizzazioni per gli aumentati costi della mano d’opera all’interno dei propri paesi; pretendendo dai governi locali il pugno di ferro per la stabilità sociale innanzitutto contro il proletariato. Mubarak prima e Morsy con  i Fratelli Musulmani poi, in Egitto,  hanno rappresentato questa ricaduta. Dunque la questione che abbiamo di fronte in un paese come l’Egitto – ma che si estenderà per cerchi concentrici all’intera area mediorientale con sviluppi imprevedibili – non è rappresentata dallo scontro tra laici e religiosi , oppure tra esercito, laici e religiosi, così come si tende a far credere, ma tra chi si candida a divenire nel volgere di un mattino da rappresentante di interessi popolari nazionali, cioè di più classi sociali, a carnefice di quelle stesse classi che si era proposto di difendere e per le quali si è battuto, magari puntando necessariamente su di una percentuale di ceto medio e sottoproletariato a fare da sostegno sociale. Si spiega solo in questo modo la caduta in pochi mesi di gradimento dal 78% al 19% di Morsy.

Lo stato di dissesto economico ereditato dal precedente governo a guida Scaf (Supremo comando delle forze armate), non poteva migliorare sotto la presidenza Morsy. Il debito estero è salito a 35 mld di $, le riserve valutarie sono crollate, il paese è insolvibile verso le banche straniere, l’inflazione è in crescita, gli organismi internazionali del capitale finanziario premono per la svalutazione della sterlina egiziana nei confronti del dollaro. I titoli di stato egiziani sono stati ulteriormente declassati giungendo al livello B-. Il tempo concesso al paese per mettere i conti in ordine è di 6 mesi.

Secondo l’ex ministro delle finanze Samir Radwan, nell’ultimo anno 4.500 aziende hanno chiuso; gli investimenti esteri sono precipitati da 6 (prima del 2011) a 2,7 mld di dollari; il turismo ha avuto un crollo del 17 % rispetto al 2012 a causa dell’instabilità del paese e della politica di islamizzazione dei FM (con restrizioni alla vendita di alcoolici nei siti turistici e controllo sull’abbigliamento femminile sulle spiagge). Sono tutt’ora in alto mare le trattative con il Fondo Monetario Internazionale per ottenere il prestito di cui si parla da più di un anno, il cui importo raggiunge ora i 4.8 mld di dollari.

Le garanzie pretese per concederlo comportano tutta una serie di misure necessarie a diminuire la spesa pubblica e mettere in condizione l’Egitto di pagare i suoi debiti. Oltre al piano di ulteriori privatizzazioni e svendita delle aziende di stato, si tratta di tagliare la spesa pubblica nella sanità (già ora limitata al 4% del bilancio statale), cosa che del resto Morsy ha fatto favorendo la privatizzazione del servizio sanitario a vantaggio delle strutture gestite dai FM, nella scuola, in tutti i settori in cui interviene lo stato, ma soprattutto (e questo è stato un elemento scatenante delle proteste) si tratta di diminuire drasticamente i sussidi in due settori strettamente legati tra loro: quello alimentare e quello dei carburanti. Insomma per le leggi del capitale in crisi che l’imperialismo si ostina pro domo sua a difendere,  le condizioni materiali dei ceti medi, oltre che ovviamente quelle delle masse sfruttate, dell’Egitto sono ancora troppo “tutelate”!

L’aspirazione democratica di un popolo

In un documento alla nazione del Kefaya – una sorta di coodinamento di vari gruppi  che inglobava  dentro di sé molte ideologie e orientamenti politico-sociali spesso in netto contrasto tra loro ma tutte accomunate dall’opposizione al regime di Mubarak, islamisti e socialisti, religiosi e laici –  reso pubblico il 21 dicembre 2004, possiamo leggere:

«I personaggi della politica, del pensiero, della cultura, del sindacalismo e della società civile, firmatari di questo documento, si sono accordati nel riunirsi, malgrado le divergenze politiche e ideologiche, per affrontare due questioni legate tra loro ognuna delle quali è causa e risultato dell’altra. Sul suo modello nacquero, infatti, numerosi sottomovimenti: “Giornalisti per il cambiamento”, “Non leggere [i giornali governativi] per il cambiamento”, “Letterati per il cambiamento”, “Operai per il cambiamento”, “Medici per il cambiamento”, “Contadini per il cambiamento”, “Giovani per il cambiamento”, “Bambini per il cambiamento” (organizzazione nata per la scarcerazione di genitori arrestati per motivi politici) ecc., ecc. >>

Un movimento acefalo: molti capi, molti portavoce, molti rappresentanti con un manifesto programmatico che così suonava:

      Prima questione: i pericoli e le enormi sfide che circondano la nostra Nazione rappresentate dall’invasione e dall’occupazione statunitense dell’Iraq, dalla continua violenza e aggressione sionista ai danni del popolo palestinese e dai progetti che mirano a ridisegnare la cartina della Nazione araba di cui ultimo il progetto del “Grande Medio Oriente”.Tutto ciò minaccia la nostra identità nazionale. Per questo motivo si richiedono grandi sforzi per intavolare un confronto diretto a tutti i livelli – politico, culturale e civile – per salvaguardare gli arabi dal progetto sionamericano.

      Seconda questione: la dittatura che ha colpito la nostra società è la causa principale nell’incapacità dell’Egitto di affrontare questi pericoli. Per questo motivo si necessita una riforma globale, politica e costituzionale, portata avanti dai cittadini e non imposta sotto qualsiasi denominazione.

 Questa riforma deve toccare i seguenti punti:

1. la fine del monopolio del potere e apertura all’alternanza a partire dalla carica di presidente della repubblica;

2. la promozione della legge, l’indipendenza della magistratura, il rispetto per le sentenze, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge;

3. la fine del monopolio delle risorse che ha diffuso la corruzione e l’ingiustizia sociale aumentando la disoccupazione e i prezzi;

4. il ripristino del ruolo regionale dell’Egitto perso dopo gli accordi di Camp David con Israele.

Uscire da questa crisi richiede l’inizio rapido della fine del monopolio che il PND ha del potere; la cancellazione dello stato d’emergenza e di tutte le leggi eccezionali antilibertarie; una modifica costituzionale immediata che permetta l’elezione diretta del popolo del Presidente della Repubblica e del suo vice per non più di due mandati, che limiti i poteri assoluti del presidente, che realizzi la divisione e la limitazione dei poteri, che permetta la libera creazione di partiti, quotidiani ed associazioni, che liberi i sindacati della tutela governativa; lo svolgimento di elezioni parlamentari pulite e vere sotto il controllo del Consiglio superiore della Magistratura e il Consiglio di Stato dallo spoglio dei voti sino alla proclamazione dei risultati.

Questa è l’unica via per costruire un Paese libero che creda alla democrazia e al progresso e realizzi lo stato sociale sperato per il nostro popolo, nel nostro amato Egitto.»

Si tratta, a ben vedere, di aspirazioni democratico-borghesi, niente di eccezionale, verrebbe da dire. Tutte cose che per noi popoli civili d’occidente sono scontate. In realtà, si trattava di un fuoco sotto la cenere che covava e che cercava timidamente le vie di uscita.  Non neghiamo in alcun modo che i paesi di giovane capitalismo <<si ispirano per la modernizzazione, alle istituzioni occidentali>> cosi come sostiene Sergio Romano e lasciamo ai nostalgici dell’obscina il sogno di far girare all’indietro la ruota storia. Da materialisti prendiamo atto, perché stiamo ai fatti, per dirla con Carlo Pisacane, che il Sistema del Capitale si è imposto con le sue leggi su tutto il pianeta e che sta innescando una marcia accelerata alla rivoluzione perché quelle stesse leggi fondano il principio dell’accumulazione in maniera combinata e diseguale. Tutto il medioriente è una polveriera in virtù di quelle leggi che a questo stadio di sviluppo dell’accumulazione non possono permettere una crescita e perciò una  partecipazione a cascata di più classi sociali nell’accumulazione del capitale, così come si diceva sopra. Questa è la vera questione. La differenza che ci separa dai sapientoni alla  Sergio Romano o dai socialdemocratici da quattro soldi che si ostinano ancora a rincorrere una complementarietà del proletariato con la borghesia, sta nel fatto che non crediamo in alcun modo che il capitalismo sia contenibile e disciplinabile, ma che esso sia arrivato ad un punto in cui può solo imboccare la via del crollo, ecco il punto.

Le complicazioni.

Da più parti si definisce l’azione dell’esercito che ha deposto Morsy come un ‘colpo di stato’.  Per molti  storici tanto borghesi quanto marxisti,  sarebbe stato  ‘un colpo di stato’ anche quello di Lenin in Russia nel novembre 1917 e dunque allo stesso modo quello in Cile del 1972. Si tratta di una superficiale scorciatoia oltre che di un opportunismo storico quando  non  incapacità vera e propria di leggere le cause che generano i fatti. Con l’espressione ‘ colpo di stato’ si tende semplificare cose complicate. Stando al semplice significato del lessico,  dovrebbe significare: azione di forza degli apparati dello stato, poi vediamo contro chi e cosa. Lo stato, per dirla con Max Weber, è l’unica istituzione deputata all’uso della forza. Un borghese brillante che quando parlava sapeva quel che diceva, a differenza di molti cialtroni della nostra epoca che sono poco meno che servi sciocchi al servizio delle leggi del capitale. Per i materialisti al contrario, solo sciogliendo il groviglio del complicatissimo intreccio che intercorre – in questa fase, non sempre allo stesso modo – tra accumulazione, processo di riproduzione allargata,  spostamento di produzioni da paesi ricchi a quelli di giovane capitalismo, impulsioni di nuove classi sociali che si affacciano alla ribalta, coercizione imperialistica dei paesi occidentali nei confronti di queste aree sia per tenere sotto controllo il costo delle materie prime che delle aspirazioni del proletariato e di altre classi che tendono  ad emergere, si fa una estrema difficoltà a rintracciare ‘lo stato’ che a sua volta dispone della forza, l’esercito.  Ora, se ‘lo stato’ è quel comitato d’affari al servizio delle classi borghesi che detengono i mezzi di produzione, e pretendono di possedere il monopolio dell’uso della forza, ebbene il  suo quartier generale non è al Cairo, ma a Washington, a Londra, a Berlino, a Parigi, a Roma e cosi via. Ma sarebbe sbagliato applicare in maniera manichea l’uso  della forza uguale per tutte le situazioni, come a dire che in occidente si reggono i fili e tutto viene a essere mosso secondo la volontà dei funamboli.  Non è così, sarebbe come assegnare alla borghesia un ruolo soggettivo dei processi sociali che non ha. Essa – la borghesia – risponde a impulsi del mercato e li subisce piuttosto che dirigerli. Le azioni dell’esercito egiziano in questi due anni, le ha subite, non le ha dirette. Poi ovviamente cerca di rincorrere la nuova realtà determinata e volgerla a proprio vantaggio.   

Nel caso in specie, analizziamo l’azione dell’esercito contro un presidente democraticamente eletto, cioè Morsy. La forza dell’esercito si schierò anche per completare l’opera di cacciare Mubarak a seguito di straordinarie mobilitazioni popolari. Ma la forza – quale l’esercito è –  non risponde a sé stessa, ma è comandata, è diretta da una forza ad essa stessa superiore e che non sempre appare, come il caso del Cile del 1973 contro Allende.  L’azione della forza – dell’esercito – in Afghanistan è  un colpo di stato continuo contro le popolazioni di quel paese da parte degli stati imperialisti per depredarne delle materie prime. Non possiamo mettere sullo stesso piano l’uso della “forza” che in Cile uccise Allende e represse brutalmente migliaia di operai nel 1973 , l’uso della forza in Afghanistan dei giorni nostri, l’uso della forza imperialista per imporre regimi fantocci in tanti paesi del sude del mondo con l’azione collaterale dell’esercito sia nella cacciata di Mubarak che di Morsy. La forza che si esprime nell’esercito egiziano è un magma nazionalista di natura interclassista che sta subendo una metamorfosi e viene strattonato da una parte all’altra dalle stesse classi che l’accumulazione del capitale ha prodotto in Egitto. Tanto è vero che passa dal sostegno a Mubarak alla cacciata di Mubarak; poi appoggia l’elezione di Morsy e la sua cacciata. Poi magari tenderà a recuperare non tanto Mubarak ormai bruciato dalla storia, ma il mubarakismo, su di un terreno nazionalista e “antimperialista” e cosi via.   Il vero soggetto – che muove la forza dell’esercito – è una economia instabile e traballante che scatena le ire di più classi sociali che cercano una risposta alle loro soddisfazioni  o con lo sguardo rivolto all’indietro, cioè con i Fratelli Musulmani verso altri settori di musulmani dell’area, magari puntando ad una ipotetica alleanza d’are in funzione antimperialista o con una indefinita laicità che guarda ad occidente ma non trova ancora la forza di un ancoraggio sicuro perché – ecco un altro vero punto in questione –  non potrà in alcun modo darsi una borghesia che capace di dirigere i processi economi e dunque lo stato per un verso, e nel contempo neanche è pronto il proletariato che guardando all’occidente – perché guarda all’occidente – pensa alla propria complementarietà con la borghesia piuttosto che alla sua soggettualità di fase.   Ecco perché non vediamo sventolare bandiere con falce e martello nelle mobilitazioni degli ultimi due anni. Le nuove generazioni siano esse proletarie o meno a tutto pensano meno che ad uno stato islamico,  non può far meraviglia perciò veder applaudire i poliziotti che reprimono i religiosi dei Fratelli Musulmani.  Insomma, è magmatica l’economia, divengono magmatiche le classi, di riflesso diviene magmatica la forza racchiusa nell’esercito. La crisi capitalistica lavorerà a sciogliere – con il sangue –  il magma e a sezionarlo. Drammatico a dirsi, ma questo è, è la rivoluzione  che avanza inesorabile in maniera disordinata.

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