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Il moscone e la sinistra. Un’analisi sulla crisi della politica

Il presente scritto è un tentativo di fornire un contributo per approfondire l’analisi di una condizione politica che sembra sfuggire alla comprensione della sinistra e dei comunisti; questi, senza molte distinzioni tra di loro, tendono a ripetere in modo meccanico concezioni e scelte politiche che, invece, hanno portato esattamente al punto in cui siamo. L’abitudine a volare basso, il tatticismo estremo e l’incapacità di alzare lo sguardo ha impedito di fare astrazione sul mondo e su se stessi e ci ha portato ad essere come quei mosconi che continuano a sbattere pervicacemente su una lastra di vetro che essi non possono vedere a causa dei loro limiti fisiologici.

Questo contributo ovviamente non ha la presunzione di dare risposte certe o lezioni a qualcuno, ognuno deve essere cosciente dei propri limiti, ma si prende la responsabilità di entrare nel merito con più chiarezza possibile, anche rischiando di sbagliare, per tentare di riconnettere la teoria con la pratica ed uscire da quel vicolo cieco in cui si è incappati. La riflessione proposta intende essere una sollecitazione generale ma vuole anche aprire una discussione dentro la nuova realtà di Ross@ che, per quanto appena nata, si colloca dentro la giusta traiettoria nella ricomposizione politica e sociale necessaria in questo paese.

 

Dentro una ormai lunga fase di crisi, quel che si impone alla percezione e reazione di massa è la “crisi della politica”, sia “la politica in generale” (che riguarda i partiti), sia la rappresentanza, che riguarda l’assetto dello Stato. È stato insomma rimesso in discussione un ceto dirigente che non appartiene soltanto alla “seconda repubblica”, ma all’intera storia repubblicana. Non è certo un caso che negli attuali partiti, incluso quello “anomalo” di Berlusconi, proliferano gli stessi individui che hanno caratterizzato la prima repubblica, dai democristiani del PD (oltre agli eredi del PCI) ai socialisti, quasi tutti berlusconiani, fino alla new entry Renzi, anche lui di solide radici scudocrociate. La crisi è una crisi profonda che non si fonda tanto su quella dei partiti, ma principalmente su motivazioni strutturali che vanno indagate anche nella loro dimensione storica. Siamo dentro un passaggio di queste dimensioni, e la sua rimozione non aiuta a capire come affrontare un simile frangente.

Va però evidenziata una questione; parlare della crisi della politica significa parlare del nostro paese e di quelli europei, che sono in particolare difficoltà nella crisi generale; ma si parla anche della ancora indefinita “prospettiva politica unitaria” rispetto al progetto di costruzione dell’Unione Europea per le classi dominanti, che puntano ad una nuova entità statuale. Lo spessore della questione, dunque, va oltre la nostra dimensione “provinciale” di nazione subalterna e va inquadrata dentro un processo che, di nuovo, ha un carattere storico oltre che dimensioni continentali.

Non è un caso che a questa crisi corrisponda quella ancora più profonda della “sinistra” in tutte le sue varianti. Non siamo più di fronte soltanto alla fine dei nostrani partiti comunisti, ormai ampiamente verificata, ma anche di quanti volevano fuggire da tali esperienze pensando che “innovazione” e moderazione fossero la soluzione. In realtà la macina della competizione globale capitalistica rende possibili solo le espressioni politiche strettamente compatibili; dunque la subordinazione al PD, che assume forme diversificate e talvolta anche in apparente antagonismo, è per certa “sinistra” l’unico spazio che può essere coperto allo scopo di continuare ad avere un qualche ruolo. Di fronte questa deriva verso l’evaporazione, purtroppo, diventa molto difficile, in alternativa, costruire le esperienze di una sinistra di classe che apra una prospettiva politicamente indipendente. 

Bisogna dire che, per arrivare a questo punto, c’è stata una responsabilità soggettiva delle diverse forze politiche che si sono succedute nei venti anni trascorsi fino alla nascita di SEL. Al di là dell’immagine “radicale” che si è voluto dare, in realtà è stata introiettata la sconfitta, l’accettazione della subordinazione culturale come condizione data e invalicabile, ma soprattutto c’è stata una mancata storicizzazione dei processi che hanno portato alla crisi del movimento comunista e di classe, e quindi alla successiva fase di ripresa di egemonia del capitale.

Forse è utile fare un esempio concreto di come questa assenza di storicizzazione impedisca di cogliere persino le indicazioni politiche da praticare concretamente. Mi riferisco al dibattito sull’euro e sulle prospettive della moneta unica. Nella sinistra più radicale si è usi scommettere sulla fine e sulla rottura dell’euro ed anche dell’Unione Europea; a queste conclusioni si arriva, generalmente, sulla base di una serie di analisi economiche, spesso anche corrette, che dimostrano come le contraddizioni di questo progetto sono tali da portare inevitabilmente a un esito fallimentare. Tutto ciò nonostante che nel mondo reale la moneta unica esista ormai da circa quindici anni, che allarghi la sua influenza e che l’Unione Europea raccolga nuove adesioni nei paesi dell’ex campo socialista; e a conferma di tutto ciò arrivano oggi i risultati elettorali della Germania dove le forze “europeiste” sono la maggioranza assoluta.

Qual è il difetto di questi ragionamenti? È che il tutto viene affidato alle contraddizioni economiche senza accorgersi che così si accettano di fatto i parametri di ragionamento dell’avversario; ovvero, mantenendo i riferimenti dell’analisi tutti dentro l’economia capitalistica, si incappa in quel “meccanicismo economicista” che presuppone le contraddizioni materiali come motore principale dei cambiamenti, rimuovendo la loro reale funzione che è invece quella di essere solo “condizione” per le trasformazioni.

Questo modo di ragionare dimentica i soggetti concreti di questi processi, che sono storicamente l’umanità stessa, l’evoluzione dei suoi modelli sociali e forze produttive, le classi nei loro interessi reali; in sintesi, affidandosi alla contraddittorietà delle dinamiche del capitale, si rimuove la centralità della soggettività delle classi e delle condizioni storiche in cui queste agiscono. Certamente questo rinnovato vigore del meccanicismo ha le sue radici nella sconfitta subita, nell’assenza di fiducia per le soggettività politiche fino a sperare, in fondo, che siano gli “intoppi” interni a superare i limiti del movimento di classe. Nello specifico dell’Unione Europea, se si dà peso strategico alla sola dimensione economica, si rimuove o si sottovaluta il ruolo politico della borghesia continentale in via di formazione, quello delle alleanze sociali che questa va costruendo dentro la crisi, e non si capisce che la rottura dell’euro e della Unione Europea è possibile solo se scendono in campo forze sociali e politiche antagoniste che si scontrano con questa prospettiva.

E’ sull’insieme dei processi che bisogna concentrarsi per capire come la “crisi della politica” possa essere affrontata anche dal nostro punto di vista; utilizzando naturalmente tutte quelle chiavi di lettura marxiste che ci parlano di “sovrapproduzione generale”, “imperialismo”, di “uso capitalistico della scienza”, “modifica della composizione di classe”, ecc, ma che sappia inquadrare anche le dinamiche storiche e politiche più strutturali che ci hanno portato a questo punto. Messi in evidenza questi elementi e quest’obiettivo bisogna cominciare a dipanare una matassa complicata, senza la garanzia di poter arrivare a soluzioni certe, ma con la quale dobbiamo comunque fare i conti. Inquadrare le tendenze della situazione politica in Italia e a livello europeo ci obbliga ad alzare il livello qualitativo di analisi e ragionamenti rispetto ai quali dobbiamo, in via preliminare, individuare il bandolo della matassa. Può tornarci allora utile, in questo senso, riprendere alcuni concetti elaborati da Gramsci che possono avere attinenza con la nostra attuale situazione.

Perché riprendere Gramsci? Per quanto mi riguarda, devo dire che non mi sento particolarmente gramsciano, anche per miei limiti, né mi sembra che tutto il suo pensiero possa essere oggi considerato un riferimento generale; anche perché l’uso strumentale, e deformante che ne fece il PCI mi ha in qualche modo “vaccinato”, spingendo comunque ad una lettura critica. Va detto però che alcune questioni poste all’epoca sembrano ritrovare una validità nella lettura delle dinamiche attuali. La questione del Blocco Storico e dell’Egemonia sono indubbiamente alcune chiavi che ci permettono di aprire le porte alla comprensione per un’analisi dei processi nazionali ed internazionali con i quali noi siamo chiamati a fare i conti.

L’altro motivo è che abbiamo una cosa in comune con Gramsci: siamo – il movimento di classe all’epoca e anche noi – il prodotto di una sconfitta di portata storica. Questo oggi forse è ancora poco chiaro, visto che nella nostra testa abbiamo ancora la vittoria nella seconda guerra mondiale e i successivi momenti rivoluzionari. Ma se facciamo mente locale agli anni ’30, la percezione era netta, legata com’era alla sconfitta e alle divisioni delle classi lavoratrici dell’Europa occidentale, che si erano fatte trascinare in una guerra fratricida immensa come la prima guerra mondiale. Non solo. Alla guerra erano succedute non le attese rivoluzioni, ma i fascismi. La stessa URSS era vista come più un elemento “resistenziale” che non di “offensiva”. Quella lettura del mondo dalla scomoda condizione di sconfitti è però una possibilità per i nostri tempi di confrontare processi e tendenze immanenti nel Modo di Produzione Capitalistico e individuare indicazioni ancora utili; Gramsci, dunque, può essere ancora un riferimento importante per la condizione che stiamo vivendo.

Cercare di connettere il piano teorico con quello politico ha come primo ostacolo il pluridecennale digiuno dei militanti della sinistra sul piano della formazione. Chi è più esperto potrà certamente capire il significato effettivo di alcuni termini, ma prima di sviluppare il ragionamento mi sembra opportuno inquadrare alcuni concetti.

Il primo di questi è quello di “Blocco Storico”. Negli anni passati è sempre stato usato quello di “Blocco Sociale” in riferimento al conflitto di classe ed alle ipotesi di rappresentanza politica. Era un uso corretto, ma il termine “Storico” sposta in avanti tutto il ragionamento verso la questione degli assetti sociali complessivi e verso le ipotesi di un loro cambiamento rivoluzionario. Il Blocco Storico presuppone, in ogni tipo di assetto sociale, una propria unità, ma anche una dialettica interna tra le sue diverse componenti; e riguarda sostanzialmente la costruzione dell’organicità, o della non contraddittorietà, tra la Struttura (ovvero la parte economico-produttiva) e le Superstrutture (o “sovrastrutture”, come l’ideologia, l’etica, la religione, la cultura, ecc) all’interno di una Nazione o di uno Stato.

L’altra “chiave” importante è quella dell’Egemonia. Con questo termine c’è più “confidenza”, ma va compreso in tutte le sue sfaccettature e dinamiche. Intanto, l’egemonia è prodotta dalle classi storicamente “progressive”, ovvero da quelle che aprono una prospettiva generale, altrimenti siamo di fronte al prevalere del semplice carattere di dominio. L’egemonia è un sistema di alleanze tra classi. Le borghesie hanno prodotto e mantengono ancora le proprie alleanze, così come nelle rivoluzioni del ‘900 il proletariato ha avuto come alleati i contadini. Oggi questa questione si ripropone per il movimento di classe, ma in forme tutte da comprendere; in particolare nei paesi a capitalismo avanzato e in Europa.

E’ utile per noi nella comprensione più profonda della nostra situazione fare riferimento alla funzione che ha la Politica. Nella concezione del Blocco Storico la “politica” riveste un ruolo particolare, quello di snodo tra struttura e sovrastruttura; è quindi quella pratica che sa cogliere e gestire l’equilibrio tra questi elementi. Naturalmente – in una fase di organicità e di non contraddittorietà – la politica è in sintonia con l’insieme della società e svolge una funzione dentro l’egemonia della classe dominante. Quando la fase è di crisi, e dunque c’è squilibrio tra struttura e sovrastruttura, e quindi si manifesta anche crisi di egemonia, la politica diviene campo di lotta in cui “l’ossessione politico-economica” entra in conflitto con la sovrastruttura.

PER UN’ ANALISI SULL’EVOLUZIONE DEL BLOCCO STORICO IN ITALIA

 

Il punto di partenza non può che essere l’analisi degli sviluppi e delle prospettive del “blocco storico” del nostro paese, anche se ovviamente non possiamo che procedere per descrizioni sintetiche. Ragionare sul Blocco Storico del nostro paese significa tracciare per sommi capi la storia dal secondo dopoguerra cercando di utilizzare le categorie che sono state indicate.

Entrando nel merito, non è difficile vedere una lunga fase di organicità tra struttura e sovrastruttura tra gli anni ’50 e ’60 . La “struttura” era data dalla grande industria, privata e pubblica (il sistema dell’ ”economia mista”, si diceva), che – adottando la produzione di serie fordista e utilizzando gli spazi di mercato post bellici nazionali e internazionali – aveva avviato una fase di crescita che ha portato settori sempre più ampi di popolazione verso una modifica della propria condizione economica, esemplificata dal “boom” degli anni ‘60. Questa è stata la base dell’egemonia che attraversava tutto l’assetto sociale e culturale del paese, in cui “la politica” di quegli anni ha appunto svolto un ruolo di “cerniera”. La DC è stata il centro politico di questa operazione. Da questa si irradiava un sistema di alleanze con i ceti di piccola borghesia rurale e cittadina, nonché un rapporto organico con la Chiesa Cattolica, la quale forniva anche supporto ideologico. Fu avviata inoltre una relazione clientelare sistematica verso i settori più popolari, in pratica una redistribuzione – in funzione del blocco di potere vigente – della ricchezza prodotta nella fase di crescita.

Questo assetto durato venti anni si scontra negli anni ’70 con la prima crisi di sovrapproduzione e con un conflitto di classe – internazionale e nazionale – che rimise tutto in discussione. La storia, da quegli anni in poi, ha visto il tentativo delle borghesie, a cominciare da quella statunitense, di contenere quella spinta rivoluzionaria e poi di concepire un contrattacco che ristabilisse gli equilibri.

Come sappiamo quel tentativo ha avuto successo e nel nostro paese ha riportato, negli anni ’80, ai vecchi equilibri ma in forme modificate. La struttura è cambiata passando, con grande gradualità, dalla produzione di serie a quella decentrata, con un maggiore spazio per l’economia dei “servizi”; e naturalmente accentuando il peso della dimensione finanziaria in sintonia con gli sviluppi internazionali. L’economia da “mista” è divenuta sempre più “privata”, e si sono messe le premesse obiettive per gli sviluppi economici successivi. Anche “la politica” ha ripreso quella funzione di snodo che si era “inceppata” negli anni ’70, stretta tra conflitto di classe e crisi di egemonia. Il “centro” politico non era più solo appannaggio della DC, ma gestito anche dal PSI. Il blocco sociale-elettorale veniva ricostruito anche grazie all’uso spregiudicato del debito pubblico, rimettendo al centro il collante del clientelismo. In realtà cambiò soprattutto la dimensione culturale del paese, che a quel punto si era “laicizzato”, rendendo impossibile il ritorno alla vecchia “parrocchia” democristiana. Si produssero in quegli anni una serie di effetti permanenti in molte sovrastrutture quali la scuola e l’università, perfino nella magistratura e in quella che viene definita “società civile”. Il conflitto degli anni ’70 ha perciò imposto un cambiamento reale al paese, rimasto però parziale a causa della stagnazione delle ipotesi rivoluzionarie (o di rottura radicale a livello mondiale), e dunque dell’assenza di una alternativa effettiva al capitalismo.

Il “pericolo del comunismo”, in tutte le sue varianti, viene superato negli anni ’90 per le note vicende intorno all’89; si riafferma e rafforza perciò l’egemonia della borghesia, che esce vincente da una lunga fase di “confronto strategico”. Ma il mondo globalizzato e la costruzione della UE, a cominciare dal trattato di Maastricht, impongono i duri parametri della “competizione globale” e questo rimette in discussione gli equilibri raggiunti in precedenza all’interno dl blocco di potere italiano. Questo viene attraversato adesso da altre contraddizioni, forse strategicamente meno “antagoniste” ma più forti e dirompenti nell’immediato, che nascono dalla riaffermata centralità dei caratteri del Modo di Produzione Capitalistico. E’ a questo punto di svolta internazionale che si rimanifesta la contraddizione tra “struttura” e “sovrastruttura”, e di conseguenza “la politica” comincia di nuovo a perdere quella funzione di snodo, come era già avvenuto – ma con un segno politico opposto – negli anni’70. Il sintomo della nuova situazione è stata la nascita del fenomeno Berlusconi; in altre parole i cambiamenti strutturali mettevano in crisi parte del vecchio blocco di potere e questa contraddizione si riversava sulla politica generando quel fenomeno “anomalo” che a venti anni di distanza sembra solo ora in declino.

In sintesi: se il blocco storico italiano e la sua egemonia, in diverse forme, avevano resistito per decenni al conflitto di classe, questa egemonia viene ora messa in crisi dai processi di riorganizzazione internazionale, che sposta il “campo di gioco” dalla dimensione nazionale a quella europea. La scommessa che i “poteri forti” stanno in questo momento facendo non è più quella del “mantenimento dei vecchi assetti”, ma la costruzione di una dimensione sovrannazionale che non può fondarsi solo sul piano economico, ma deve basarsi politicamente su un nuovo assetto di potere, sulla costruzione di un nuovo blocco storico nelle nuove dimensioni continentali. Questo processo rompe le vecchie alleanze politico-sociali in Italia, sussume una parte di settori sociali, non solo borghesi, verso la nuova alleanza e spinge gli altri verso l’arretramento sociale. E sappiamo che le proporzioni numeriche tra queste due parti, qui da noi, è indubbiamente a ”favore” di chi subirà l’arretramento.

Naturalmente questa è una partita ancora aperta, che dovrà tenere conto di tanti fattori, interni ed internazionali; non sarà di breve durata e un ridimensionamento del progetto europeo non può essere escluso a priori. E’ ovvio che una sua sconfitta incrementerà la crisi di egemonia, che comunque è rimessa in discussione dalla crisi generale e sistemica. Gli scenari sono diversi e per noi è importante saperli leggere, ma il dato politico che interessa direttamente le nostre prospettive è la crisi palese della politica (delle attuali classi dirigenti), che riflette quella sconnessione tra struttura e sovrastruttura operata dalle dinamiche stesse del capitale. Dunque la nostra lettura delle dinamiche politiche esteriori non può prescindere da questo dato di fondo, che probabilmente impedirà una ricomposizione piena dell’egemonia a noi avversa. 

LA CRISI DELLA POLITICA OGGI

Che ci sia una crisi dei partiti e dunque della politica è evidente agli occhi di tutti, ma capire se questa crisi ha origine da soggettività partitiche inadeguate o da motivazioni strutturali per noi è indispensabile. Seguendo il percorso logico fatto sull’evoluzione del nostro Blocco Storico, credo che si possa dire che i cambiamenti strutturali in atto hanno indubbiamente avuto un effetto oggettivo sui vecchi blocchi sociali-elettorali. Il primo segno è stata la nascita del fenomeno berlusconiano, di fatto imprevedibile per una classe dirigente europeista (parliamo di Amato nei primi anni ’90) che basava tutto sui parametri economici di Maastricht. Sembra questo un richiamo diretto di quella “ossessione politico-economica” citata da Gramsci.

L’applicazione dei parametri di Maastricht e la scomposizione dei poteri ha prodotto un fenomeno politico-sociale persistente nel tempo. Non “fascista”, come hanno spacciato gli apprendisti stregoni della sinistra, ma in distonia con il progetto Europeo. E qui è inutile fare esempi. Oggi la situazione è ancora più compromessa con l’emersione del fenomeno “Movimento 5 Stelle” e con una estraneità politica sempre più accentuata da parte della popolazione. Lo specchio di questa situazione sono stati i risultati delle ultime elezioni che hanno mostrato la disgregazione dell’elettorato in tre grandi blocchi e la perdita di egemonia della grande borghesia italiana che, sostenendo Monti, ha preso un miserabile 10%. Errore mai fatto in precedenza, quando l’ombrello politico era offerto dalle alleanze sociali promosse dalla DC.

Sul piano dell’ideologia predominante, un effetto diretto è stato evidente: gli Italiani erano stati a lungo tra i popoli più “europeisti”, ma oggi la situazione si è ribaltata. Così come è evidente anche che le “autorappresentazioni” che i settori sociali producono sono del tutto sconnesse dalle dinamiche della realtà e in fondo denunciano un malessere motivato non razionalmente. Si tratta di una condizione del tutto diversa da quella esistente in precedenza, quando i “blocchi sociali” esprimevano idee, valori, politiche antagoniste, ma ben chiare nella testa sia dei dirigenti che dei “diretti”. Un degrado politico e culturale che porta alla cosiddetta ingovernabilità e a una condizione per il nostro paese sempre più subordinata ai centri di potere effettivo, a dimensione continentale.

Se volgiamo lo sguardo alle prospettive, le tendenze sopra descritte non subiscono un decremento. La costruzione della UE “deve” proseguire perché i suoi riferimenti sono legati alla competizione globale e hanno un carattere oggettivo. L’Italia, sebbene in condizione di debolezza, come dimostrano le vicende Telecom e Alitalia, non sta fuori dalla UE perché possiede settori industriali e finanziari competitivi e in rapporto organico con la dimensione continentale; a questi settori fanno riferimento anche le politiche filoeuropee e gli apparati dello Stato. Questi settori però sono però una percentuale ridotta, in termini di rappresentanza della popolazione, e questo significa che le prospettive di tenuta e ripresa riguarderanno solo una parte minoritaria del paese. Di converso la marginalità e l’arretramento sociale riguarderà indubbiamente la parte maggioritaria, che dovrà subire anche gli effetti di un eventuale aggravamento della crisi generale, che è sempre in agguato e niente affatto superata a livello mondiale. In altre parole, il movimento oggettivo delle dinamiche economiche va verso un incrudimento delle contraddizioni e verso una Europa a più velocità che, in tempi brevi, non fa per niente presupporre un superamento della crisi dei partiti e della politica.

ALCUNE CONCLUSIONI PARZIALI ….

I punti evidenziati certamente non possono essere visti come fini a se stessi, come elaborazione certamente “interessante” ma che poi non trova funzione sul piano dell’azione e dell’indicazione politica. L’azione politica non è solo una necessità, ma è anche l’unico terreno su cui fare l’effettiva verifica dei contenuti che si utilizzano nel fare le scelte. E’ esattamente in questa direzione che va la proposta della rottura della UE e dell’Euro ipotizzando una prospettiva non subordinata agli interessi delle borghesie dei paesi forti e al potenziale blocco storico continentale in formazione. Questa è una proposta che si basa su una analisi delle tendenze economiche, produttive e sociali che mostrano come il processo di “costruzione delle diseguaglianze” tra le diverse aree e paesi della UE proceda penalizzando anche gran parte del nostro paese e dei suoi settori sociali subalterni, con alcuni effetti da comprendere.

1 – La prima indicazione è che la “crisi della politica” ha un carattere strutturale, e non potrà essere risolta a prescindere dalla crisi più generale. Certamente ci sono le scadenze elettorali, i posizionamenti e la nascita di forze politiche nuove e inaspettate, ma nessuna di queste sarà in grado di superare lo stallo e il vuoto di rappresentanza strategica di importanti parti della nostra società. Siamo dunque obbligati a ragionare meglio sulle dinamiche politiche effettive, sui modi e sui tempi delle nostre scelte e interventi, sapendo che questa situazione dà spazio per mettere in campo ipotesi più solide e ragionate, senza inseguire inutilmente l’attualità. Ma la condizione ineludibile per poter riprogettare una prospettiva di classe seria e credibile è tener conto dello spessore storico dei problemi che abbiamo di fronte e rifuggire dalle illusioni che una sinistra subordinata e evanescente – nello sforzo di trovare motivazioni per la propria sopravvivenza – ripropone sistematicamente a beneficio del PD. Ricostruire una sinistra di classe, democratica e radicata nella società, non è possibile a partire dalla tattica, dalla contingenza politica, dai molteplici giochi che ormai hanno mostrato la propria inconsistenza.

2 – L’altro dato che si impone con forza è la centralità della questione europea, il vero terreno del conflitto e della costruzione dell’identità di classe, sia sul piano strettamente economico-sociale che su quello storico-politico. Naturalmente è un punto di vista che va ancora indagato e compreso, ma è a tutti evidente che la sola dimensione nazionale, foss’anche solo per le necessità di analisi, non è in grado di misurarsi con una ipotesi di indipendenza politica dal quadro istituzionale dato. L’importanza di questo processo ci viene confermata dal ruolo e dalla determinazione di Napolitano il quale sa perfettamente, a differenza degli altri miseri protagonisti della politica, che il passaggio europeo è il vero dato strategico con cui è chiamata a fare i conti l’Italia. A questa sua profonda convinzione non è estranea la formazione politica del personaggio che, venendo dal PCI, ha ben presente la dimensione storica da affrontare e dunque la necessità, per l’attuale assetto sociale, di costruire il “blocco continentale”.

3 – Ma c’è anche un altro dato che sta nella realtà e che non si può rimuovere. Nel porci il problema della “rappresentanza politica” non possiamo non definire con precisione chi vogliamo rappresentare; e non solo in termini sociologici. Ma se andiamo a fare l’analisi dei “potenziali rappresentati” scopriamo che questi, come verifichiamo quotidianamente nel lavoro di massa, non si percepiscono come entità unita, come gruppo sociale omogeneo, cioè come classe. Qui la nostra difficoltà, prima ancora che contraddizione, appare evidente: vogliamo rappresentare settori sociali che non si percepiscono soggettivamente come tali. L’analisi va evidentemente portata più a fondo, e forse può ritornare qui utile il ragionamento sulle alleanze con settori sociali forse meno classicamente di classe, ma più dinamici. Vanno insomma individuati anche una tattica e i tempi da adattare a questa condizione. Il vero “intoppo” politico con cui dobbiamo fare i conti è infatti riuscire a capire come rapportarsi alla NON soggettività dei settori di classe. La divaricazione che esiste tra la condizione reale e autopercezione è evidente; è come se avessero nella testa una lente che distorce la realtà, che impedisce loro non di “reagire”, ma perfino di realizzare qual è la loro reale condizione. Ovviamente non c’è da meravigliarsi, perché questo è esattamente l’effetto che produce l’egemonia borghese, che non ha trovato né contrasti né alternative nell’arco dei due decenni passati.

Certamente conta il fatto che la soggettività, in genere, non evolve automaticamente di pari passo all’andamento dei processi oggettivi; è sempre “in ritardo” nella realizzazione delle condizioni che si vengono determinando. Ciò è valido per le soggettività politiche e lo è ancora di più per quelle sociali. Pesa cioè l’ideologia imperante, costruita in modo organico su tanti contenuti, il più condizionante dei quali è la prevalente concezione individuale nelle relazioni sociali.

Non ultimi vengono i mezzi di comunicazione, che con la loro manipolazione dell’informazione raccontano un mondo che spesso non esiste. In questo humus crescono anche i moderni mezzi di comunicazione che si presentano in una forma apparentemente orizzontale, democratica. Tali mezzi permettono certamente una sensazione di libertà (tanta quanta è concessa dai motori di ricerca e dai proprietari dei vari social network, che certo non possono ignorare l’invadenza degli apparati statuali), ma solo da una posizione individuale; tanti solitari “se stessi” di fronte al resto del mondo. Quello che conta nelle reti non è quello che si dice volta per volta, per quanto giusto, ma il permanente stato di relazione individuale che alla fine conforma la percezione di se stessi come monade. È l’ideologia effettiva, la visione del mondo.

 

.E IPOTESI DI LAVORO

 

La crisi di sistema che si è avviata dal 2007 ha portato a precipitazione i processi economici, sociali, politici, istituzionali, sia nazionali che internazionali. I cambiamenti complessivi in atto stanno mostrando uno spessore identico a quelli prodotti dal crollo del “socialismo reale”, anche se di segno politico opposto. Tutto ciò non permette più di andare avanti, di misurare i processi e di agire, mantenendo lo stesso modo di pensare. Anche perché il passaggio avvenuto 20 anni fa vedeva le forze della sinistra e comuniste ancora dotate di qualche consistenza, come da noi il PRC. Ora sono state consumate anche quelle “rendite di posizione” e dunque la rivisitazione da fare è complessiva; deve certo procedere per gradi, ma avendo ben chiara la qualità delle questioni che si pongono. Per cogliere con più chiarezza anche l’agire politico e concreto da mettere in campo in questa discontinuità, vanno individuate alcune indicazioni di lavoro che devono essere sottoposte al confronto e alla verifica, con l’obiettivo dichiarato di aprire un confronto da sviluppare nel merito.

Il ribaltamento. C’è stato un ribaltamento delle condizioni in cui si svolge l’iniziativa politica. Nel ventennio trascorso, l’azione di ogni soggetto politico o sindacale avveniva all’interno di un ambito più ampio di mobilitazione organizzata; per esempio dal PRC alla CGIL, all’ARCI etc. Lì si giocavano le partite sulla direzione da imprimere in questo o quel momento; insomma si nuotava dentro un’acqua che era, però, ancora quella del vecchio movimento operaio e sociale. Oggi questa condizione non esiste più, non basta più la sola “direzione politica”, ma è necessaria la costruzione del movimento di classe nelle condizioni attuali. Questa situazione, va detto, non riguarda solo l’Italia, ma l’intera Europa, attraversata da un diffuso processo di disgregazione. Assumere il concetto di costruzione ha una serie di implicazioni concrete, dal come ci si deve riorganizzare a quale tipo di militanza praticare.

Il soggetto politico. Se vanno affrontati gli effetti del “ribaltamento”, si pone la questione di quale soggettività organizzata può capitalizzare un tale processo di costruzione. Non è un dibattito facile e su questo sono state prodotte più divisioni che processi unitari. D’altra parte i processi di disgregazione non sono solo il prodotto di incompatibilità politiche, ma dei modificati rapporti di forza strutturali tra le classi; dunque aspettarsi soluzioni spontanee che sorgono dalle contraddizioni rischia di essere una ingenuità. Misurarsi con questo livello penso significhi progettare e costruire un soggetto che faccia della rappresentanza politica delle classi subalterne il proprio obiettivo strategico, in quanto questo è lo spazio reale che offrono le contraddizioni del presente modello sociale.

L’identità. L’identità è una componente fondamentale nella battaglia politica generale. Su questo le analisi fatte sull’UE ed il Blocco Storico ci confermano la centralità della questione europea ed è su questo terreno, dove non ci sono competitori (in quanto viene generalmente accettata l’egemonia prevalente), che va sviluppata l’iniziativa generale, adottando un approccio strategico e non condizionato dalle sole contingenze politiche. A maggio del prossimo anno ci sono le elezioni europee; se a tutt’oggi non è data alcuna condizione per la partecipazione elettorale, non di meno quella scadenza può essere presa a riferimento di una campagna politica articolata per rafforzare un’identità indipendente. Una campagna con queste caratteristiche ha bisogno di una sua base di massa per realizzarsi. Certamente i settori sociali e di classe sono coloro con i quali bisogna rapportarsi, a cominciare dai settori sindacali più avanzati, ma sappiamo che questi non sono ancora in condizione, come abbiamo detto, di aderire ad una azione politica diretta. Una campagna così caratterizzata può comunque divenire un forte riferimento per quella parte della sinistra che non accetta di morire nell’orbita del PD e che intende ancora avere un protagonismo nel conflitto politico e sociale.

L’organizzazione del Blocco Sociale. Un altro punto strategico da sottoporre alla riflessione ed all’azione è il processo di organizzazione diretta del blocco sociale. Se c’è stato il “ribaltamento” questo è stato dovuto anche alla sistematica opera autolesionista della sinistra che ha smontato pezzo pezzo tutti gli strumenti del rapporto di massa con la classe. Dalla mutazione della CGIL alla trasformazione dell’esperienza delle cooperative, dall’associazionismo alle case del popolo, e via elencando. Questo impone perciò un processo di ricostruzione che ha un carattere strategico e tempi conseguenti, sapendo però che già esistono settori del mondo del lavoro e del conflitto sociale che possono essere un solido punto di ripartenza per questa prospettiva di organizzazione del blocco sociale.

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