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Pensieri da ventenne: la lotta ed il 19 Ottobre

19 Ottobre: sono a Roma, contenta di partecipare ad una grande mobilitazione con così tanti contenuti e persone: amici, conoscenti, compagni. “E tu di dove sei?”  “Ah, e lì come va?” – questi gli interrogativi tra chi fa lo spezzone ed il cordone assieme.

Mi sono portata addosso insieme allo zaino della seven, la felicità di essere in piazza assieme ad un po’ di preoccupazione.

Non ho fatto la ricarica al cellulare e ho preparato un panino da casa in modo da poter pagare il viaggio per Roma.

Ho scroccato un po’ di drum al compagno Gengè, e il mio segretario di circolo ha comprato le mascherine per tutti in caso di lacrimogeni.

Avevamo tantissima voglia di urlare tutta la disapprovazione e il disprezzo verso le politiche dell’austerity, per lavorare tutti lavorare meno, per un’istruzione aperta e gratuita, per il diritto alla casa, per meno tasse e più diritti, per reddito di cittadinanza, per politiche di genere. E così abbiamo fatto. Slogan e canti storici, motti e critiche, sotto il sole cocente di Roma.

Ognuno in piazza portava le sue parole d’ordine che s’intersecavano e combaciavano perfettamente con quelle di lotta del compagno affianco.

Sono scesa in piazza con la mia bandiera rossa, pensando a tantissime cose; Quel giorno non avrei studiato per l’esame, i miei genitori sapevano di una sorta di convegno-studi e  speravo che grazie ai loro impegni non avrebbero mai e poi mai acceso la tv. Pensavo al fatto che per andare a Roma avevo speso soldi chiesti ai miei, per manifestare. Aveva così tanto senso?

Mi sentivo come una parassita in gita.

Solo dopo ho caratterizzato contenutisticamente quel percorso romano.

Stavo compiendo insieme alle decina di migliaia di manifestanti qualcosa di bello e di unico. Una mobilitazione grande e con tantissime rivendicazioni, storica.

Sono partita depressa e sfiduciata, come se dopo le tante manifestazioni, questa sarebbe stata solo una chiamata dell’ottobre, per poi dissolversi lentamente nel nulla mediatico.

 Mi sentivo come se quel Sabato fosse buttato al vento, d’altronde nessuno avrebbe comunque risolto i problemi che io, e come me tanti altri giovani, portavo dietro: sempre con spicciolate nelle tasche. Coi libroni superusati o fotocopiati, il jeans bucato e le scarpe che se piove è un guaio. Correndo giù per le scale ogni volta per prendere l’autobus e andare a seguire. E macinare km di pagine per dare gli esami, laurearsi, ottenere un pezzo di carta che seppure considerato inutile, “sempre meglio averlo”.

E dopo aver studiato, magari andare al lavoro part-time, per essere pagati dopo il progetto, con le detrazioni fiscali e solo su un conto corrente bancario.

Sfiniti ci si ritrova alla riunione politica, all’iniziativa col volantinaggio, all’attacchinaggio con la colla a granuli, al collettivo universitario,alla discussione accesa congressuale.

Dopo tutte le cose che giorno per giorno si affacciano nella vita da ventenne di provincia, la notte mi ritrovo a fissare il soffitto e a pensare da insonne.

Chissà se tutti i sacrifici e le lotte giornaliere servono ancora a qualcosa. O se il fare politica abbia ancora un significato.

L’interrogativo è il filo rosso che interviene da collante. La risposta che ne consegue è sempre positiva.

Servono ancora qualcosa? Sì! Perché ho bisogno di lottare e di sentirmi viva e non indifferente come se un branco di tori calpestassero me e la mia bandiera rossa.

Non potrei fare altrimenti. L’alternativa è l’abnegazione, è sentirsi in apnea: con l’udito ovattato e le parole che fuoriescono in bolle.

 

La lotta, la reazione, più che mai è necessaria. Come il 19 Ottobre, come oggi, come sempre.

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