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Quando il tempo è galantuomo

Da quando il mondo non è più “diviso in due” – di qua l’occidente capitalistico, di là il “socialismo reale” – è diventato parecchio più difficile prendere posizione su questioni lontane da noi, dalle nostre esperienze, insomma “internazionali”. Bisognerebbe ogni volta studiare bene il caso singolo, evitare la paccottiglia precotta che ci consegnano i media mainstream – mai innocente – richiamare categorie interpretative di qualche consistenza, ecc.

Un lavoro lungo, che per non diventare infinito richiede conoscenze pregresse su quel che è accaduto in certi paesi in un arco storico non breve. Insomma: esperienza politica, letture non episodiche, controllo del linguaggio e delle teorie politico-filosofico-etiche… e un briciolo di autonomia intellettuale.

Altrimenti ci si schiera alla Facebook maniera, cliccando “i like” a pen di segugio, professando atti di fede senza un attimo di riflessione (tanto mica ti lapidano fisicamente se dici una cazzata, al massimo ti prendi qualche post che ti sfancula, ma domani è un altro giorno e si può ricominciare da capo, come se avessi avuto sempre ragione…).

Il caso delle Pussy Riot ha appassionato molti, scandalizzato alcuni (quelli che amano la musica, in genere, più degli altri; sembra proprio che non avessero idea di come si mettono di seguito le note…), fatto “schierare” velocissimamente tutti. Del resto, incarcerare delle donne e condannarle a pene  detentive (in Siberia, in un caso!) per aver schiamazzato in chiesa non è davvero un gesto che possa far apprezzare un qualsiasi Stato. Insomma, di buone ragioni per mandare a quel paese Putin e soci ce n’erano parecchie. Un po’ meno per “benedire” le ragazze come autentiche rappresentanti di una qualsiasi “rivoluzione”. Ma si sa, se “ti schieri”, è inevitabile che positivo e negativo si “aggreghino” separatamente, mettendo in secondo piano le sfumature, le contraddizioni, le incoerenze.

I compagni del Collettivo Militant mettono i piedi nel piatto, ricordando a tutti che prima di parlare sarebbe meglio contare fino a dieci e magari pensare qualcosa.

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Siediti in riva al fiume e aspetta. Vedrai passare il cadavere del tuo nemico. Non facessimo politica, dovremmo cominciare a prendere sul serio la massima cinese. Solo un anno fa, l’arresto del gruppo punk “femminista” Pussy Riot mobilitò decine di altrettanti gruppi femministi, punk, radicali, estremisti, anarchici, ecc per tutta l’Europa, in solidarietà con le proprie sorelle russe. In quell’alternarsi di vicende, una parte dei movimenti italiani seguirono acriticamente quelle mobilitazioni dando il proprio contributo di ingenuità a tutta la questione. Proprio in quelle circostanze, ci esprimemmo abbastanza duramente su quegli eventi (qui e qua), identificandoli come l’ennesima trovata pubblicitaria filo-occidentale della variegata opposizione liberista al governo russo. E soprattutto, ci chiedevamo se davvero le aspirazioni di liberazione sociale, politica o anche solo sessuale dei movimenti antagonisti europei potesse farsi forza della carnevalata mediatica orchestrata sulla vicenda Pussy Riot. Il decennale scontro fra le oligarchie filo-occidentali con la speculare oligarchia putiniana in questi anni ha visto numerosi momenti di sfogo. Dagli indipendentismi jugoslavi legati a Soros alle rivolte arancioni a stelle e strisce, dal separatismo ceceno alle ultime mobilitazioni reazionarie ucraine. Come insegnano proprio gli ultimi eventi italiani a proposito della cosiddetta “rivolta dei forconi”, non basta una piazza e una manifestazione di dissenso per stare dalla parte giusta. Non basta una volontà oppositrice, una retorica contro il potere, per passare automaticamente dalla parte della giustizia sociale. Poco più di un anno, e anche le Pussy Riot ci danno la triste conferma di quanto dicevamo.

Appena uscite dal carcere in seguito all’amnistia proclamata da Putin, nel corso della conferenza stampa immediatamente richiesta a gran voce da tutto il mainstream, le nostre indicavano in Mikhail Khodorkovsky il loro leader politico preferito che avrebbe dovuto prendere il posto dell’odiato Putin (Qui qualche fonte e alcuni commenti: Contropiano, LaStampa, l’Unità, TMNews). Inutile stare qui a spiegare chi è e che cosa ha rappresentato Khodorkovsky nel sistema economico russo. Dopo aver comprato a prezzi stracciati le imprese statali sovietiche del settore energetico, lui e la sua accolita di affaristi instaurarono in Russia una vera e propria oligarchia proprietaria mirante a smantellare ogni possibile traccia di economia statale nell’ex paese socialista. Arricchitosi grazie alla svendita del patrimonio pubblico e al massiccio utilizzo dell’evasione fiscale e divenuto, nel giro di cinque anni, l’uomo più ricco di Russia, ebbe il guaio di inimicarsi quella parte di oligarchia che nel frattempo era riuscita a prendere le redini dello Stato e a manovrare in proprio favore la politica nazionale. Il patto oligarchico che fino alla fine degli anni novanta garantì miliardi a palate e impunità legale venne dunque meno, determinando l’arresto del miliardario Khodorkovsky e l’esilio del resto dei magnati amici del personaggio. In seguito alle note vicende, appoggiato da tutti i media occidentali liberali, Khodorkovsky divenne il campione di libertà arrestato per la sua “opposizione al regime putiniano”. Oggi, tornato libero grazie alla suddetta amnistia, varata per rasserenare i rapporti internazionali in vista delle olimpiadi di Sochi, Khodorkovsky si presenta come il faro di tutta l’opposizione russa liberista, filo-atlantica, antistatalista e mercatista.

E’ all’interno di questo contesto, già ampiamente problematizzato in passato nel nostro tentativo di chiarire le posizioni in campo, che si situa la vicenda dell’endorsement del gruppo punk-femminista per l’ex oligarca russo. La nostra posizione in merito è in fondo sempre la stessa. All’interno di contesti imperialisti in lotta fra loro, la semplice espressione di dissenso non può bastare a rendere positiva questa o quella opposizione. Perché molte (troppe) volte, tali manifestazioni sono state in passato controllate, finanziate, appoggiate o facilitate proprio dall’imperialismo opposto, e per scopi solo apparentemente progressisti. L’opposizione a Putin è cioè sacrosanta all’interno di una dinamica di classe, in cui trovano doverosamente spazio anche le posizioni anti-sessiste, e in cui sono chiari gli obiettivi politici. Ma le troppe vicende già ricordate non possono non formare quell’esperienza necessaria tale da analizzare criticamente ogni cosa si muova in quei contesti, e valutarla in base alla prospettiva del concreto miglioramento sociale delle classi in lotta. Per dirla altrimenti, Putin rappresenta quell’oligarchia russa speculare ai Khodorkovsky o agli Abramovich di turno. Tale oligarchia non può essere combattuta in nome di altre oligarchie, che vengono raccontate come “progressiste” unicamente in base ai loro intendimenti filo-occidentali e ultraliberisti. La soluzione al “problema Putin” non può cioè essere un altro oligarca, più accomodante ai disegni statunitensi o europeisti e in questo senso meglio dipinto dal vasto mondo mediatico occidentale. L’opposizione necessaria alla cricca capitalista in Russia è l’opposizione di classe, antagonista, di sinistra; che non svenda il paese e il suo ruolo oggettivamente problematico nel progetto di pacificazione internazionale solo per fare un favore alle opinioni pubbliche internazionali condizionate da una coltre mediatica soffocante. In questo senso, le Pussy Riot si sono dimostrate per quello che già l’anno scorso dimostrarono di essere: marionette occidentali, utili a precise campagne mediatiche ma assolutamente inservibili per qualsiasi scopo di concreta lotta di classe. Il tempo anche stavolta è stato galantuomo.

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