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Per riappropriarci del nostro presente e del nostro futuro. Rompere le compatibilità, bloccare tutto

“Da questa difficile situazione economica si riemerge soltanto se si prosegue sulla retta via dei sacrifici, dei tagli alla spesa pubblica, delle privatizzazioni e della vendita del patrimonio pubblico, della valorizzazione dei territori e dei beni comuni, della cancellazione di quelli che un tempo, dentro e fuori dal lavoro, venivano  ideologicamente definiti diritti, ma in realtà rappresentano soltanto putride sacche di privilegio, inutili ingessature che frenano, insieme alla burocrazia e alle tasse, il dispiegarsi dell’iniziativa privata, l’unica in grado di generare ricchezza e soprattutto impediscono alle nuove generazioni, di realizzarsi nel lavoro e quindi nella vita. Dalla crisi si esce, in ultima istanza, solo lavorando congiuntamente per accrescere la produttività delle imprese, rafforzandone la capacità di competere nel grande mercato globale”. Questo è ciò che affermano le azioni del governo Letta, fedelmente obbedienti ai diktat della Troika.

E’ pazzesco vedere come la crisi venga utilizzata come micidiale arma per l’affermazione totale e totalitaria del modello capitalistico, dell’ideologia assoluta del libero mercato e della competizione, di un dominio sempre più verticale ed arrogante, di vecchi e nuovi potenti sulle nostre esistenze.  Ma la cosa più allucinante e tragicomica, è vedere pezzo dopo pezzo gli eredi della cosiddetta “sinistra partitica e sindacale”, continuare ad essere un soprammobile di casa PD e soprattutto sottomettersi alle leggi della crisi e quindi del dominio capitalistico, del mercato e della precarietà. Persino personaggi come Landini, che fino a qualche tempo fa pontificavano di unità, alternativa, buona e sana occupazione, sono pronti ora a saltare sul carro del vincitore, a scendere a patti con Matteo Renzi, il nuovo messia della politica dei partiti, sceso in terra per ricostruire consenso attorno al saccheggio ed alla devastazione delle nostre risorse e della nostra umanità.

In particolare, oggi, sedersi al tavolo di coloro i quali dicono di cercare una via italiana e/o europea per l’uscita dalla crisi, vuol dire assumere le sembianze (e la sostanza) del nemico. La crisi è strumento di affermazione prepotente del modello capitalistico nella sua veste neoliberista e quindi più aggressiva. Il problema non è l’uscita del paese dalla crisi, ma scorgere i tratti della loro crisi, insinuarsi nelle sue crepe, spingere, se ne avremo la forza,  fino a far cadere il castello. Non è semplice, per chi è abituato a relazionarsi con chi soffre e fatica dalla privilegiata angolatura del ceto politico, comprendere la distanza che esiste fra il paese reale ed il palazzo, anche perché il palazzo esiste anche fuori da quelle mura; esiste per esempio nelle logore ricette di chi ripropone la solita cantilena della difesa di diritti (meglio se santificati nella costituzione), che nella realtà non esistono più da tempo e nei piccoli privilegi di bottega e di apparato.

 La questione, oggi, non è certamente riconducibile ad una presa del potere, ne di converso nel trovare dentro i suoi meccanismi uno scranno anche per noi. Il problema che abbiamo di fronte, non è quello di uscire dalla crisi, ma di mettere in crisi. Di indebolire e sabotare la macchina del dominio e dell’accumulazione per riconquistare nel conflitto lo spazio e la possibilità dell’alternativa. In questo due aspetti sono centrali: quello della ricomposizione sociale e quello della riappropriazione.

 Ciò che abbiamo toccato con mano nel percorso del 19O è stata la potenzialità connessa al legame fra le lotte, all’incontro fra diverse figure sociali colpite dall’austerità e dal capitale. Le piazze di San Giovanni e Porta Pia, la Roma meticcia del 18 Dicembre che ha ridicolizzato il tentativo di spostare la protesta sul terreno del nazionalismo, del razzismo e delle divisioni che ne conseguono.

Ma non sono le uniche divisioni che vanno rifiutate. Vanno rispedite al mittente anche tutte le divisioni generazionali, categoriali, la stessa separazione fra il piano dei bisogni da quello della politica. La strada non è certamente quella di guardare al lavoratore come una “entità astratta” che ci permetta di identificare, per semplificazione, più chiaramente l’attore protagonista in grado di incarnare il nostro desiderio e bisogno di lotta di classe e di cui diventare bravi tifosi. La strada non è neppure quella della sommatoria delle lotte, ma quella del riconoscimento dentro la dimensione di territori che divengono spazi di conflitto reale, di sviluppo di una autorganizzazione in grado di rappresentare non l’idea dell’isola felice – ma uno spazio dove la sperimentazione di nuove relazioni e legami sociali possa divenire, senza sosta, spina nel fianco in grado di ingaggiare la prova del contropotere. Ricomporre, quindi, dentro un riconoscimento che è sociale e politico al tempo stesso, una rinnovata capacità collettiva di misurarsi con la sfida della produzione di un immaginario politico comune attraverso il quale amplificare ed allargare lo scontro: coinvolgendo  l’eccedenza che abbiamo raccolto nelle mobilitazioni di Ottobre e giungendo oltre essa. Alimentare, quindi, un processo in divenire nel quale possa trovare respiro una capacità complessiva di mettere in discussione questo presente di sfruttamento e miseria.

 In questo senso è centrale, forse più di ogni altra cosa, fare i conti con il nodo delle pratiche. Quali sono, infatti le pratiche in grado di dare sostanza a questi ragionamenti?

 Una prima generica risposta è certamente questa: innanzitutto quelle pratiche in grado di liberare tempo e vita. Pratiche in grado di sottrarre pezzo dopo pezzo le nostre esistenze al ricatto del lavoro e quindi anche alla miseria della disoccupazione (lavoratori inutilizzati) ed alle catene della riproduzione. Pratiche in grado di sostanziare il diritto (che esiste come tutti i diritti solo se riconquistati), ad una vita piena e vera, non come lavoratori utilizzati o inutilizzati, ma come esseri umani subordinati e soggiogati da questo sistema che determinano il loro percorso collettivo di liberazione. Pratiche, quindi, in grado di indicare la rotta dell’autonomia collettiva delle nostre esistenze dalla produzione e dalle maglie del capitale. Occupare le case. Non pagare le bollette, le multe, le mense scolastiche ed universitarie, il trasporto pubblico, i ticket sanitari. Riprendersi le merci necessarie rispetto agli attuali bisogni. Queste (ed altre) sono le pratiche di cui oggi, dentro nuove avventure di sperimentazione sociale, dobbiamo riscoprire nella loro sostenibilità, in un processo crescente e cosciente di illegalità diffusa e di massa. Diventa centrale dunque, oggi più che mai, sviscerare, anche in contrapposizione al Job Act in gestazione, l’idea del “Reddito Garantito” non solo come richiesta vertenziale da sottoporre al governo, ma come parola d’ordine autonoma e ricompositiva da praticare concretamente e direttamente.

 Ci chiediamo, però , allo stesso tempo, se non sia utile e necessario anche tornare ad immaginare e a mettere in campo forme di blocco generalizzato della produzione. Molto si è dibattuto attorno al cosiddetto “movimento dei forconi”. Non ci cimentiamo in questa sede ad analizzare questo complesso spaccato. Ma la forma di lotta (da questi qualche volta praticata veramente, in molte altre in maniera solo “formale”), pensiamo che possa essere anch’essa ricompositiva ed efficace. Del resto molto spesso negli ambiti di movimento si sono evocati termini come “sciopero generalizzato” o “sciopero metropolitano”. Troppo spesso, tranne qualche parziale eccezione, si è usciti dalla semplice allusione. Ci chiediamo se, al di là delle diverse denominazioni ed accezioni, non sia arrivato il momento di provare a praticare sul serio un blocco generalizzato dei flussi produttivi, di tutto ciò che le diverse figure sociali possono riuscire a bloccare ed apertamente a sabotare.

 Fra il 15 ed il 22 Gennaio prossimi, come reti dell’abitare abbiamo indetto una nuova settimana di lotta. Il 20 Gennaio prossimo è anche convocata la manifestazione nazionale del trasporto pubblico locale, dentro questa pesante aria di  attacco ai beni comuni ed ulteriori privatizzazioni. Mentre ci prepariamo a tornare alla fine di Gennaio a pretendere la chiusura di Ponte Galeria, di tutti i CIE e CARA  insieme alla cancellazione della Bossi – Fini; mentre ci prepariamo per i primi di Febbraio ad una nuova assemblea nazionale verso la mobilitazione contro il vertice europeo sulla disoccupazione giovanile, perché non trasformare il 20 Gennaio in una giornata di blocco generalizzato delle strade e della produzione, di iniziativa diffusa e coordinata in ogni città ed in ogni territorio?

E’ importante certamente accrescere gli spazi di analisi e di confronto. Ma questi spazi possono essere produttivi, siamo convinti, solo se rimangono permanentemente agganciati al terreno della sperimentazione.

 La suggestione di un 20 Gennaio di blocchi generalizzati delle strade e dei flussi produttivi in tutto il paese, indubbiamente è forte. La proposta è sul tappeto.

* Abitare nella crisi

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