Per capire il processo di produzione di una fiction e comprendere meglio il perché di certi disastrosi risultati estetici e narrativi, bisogna osservare i meccanismi editoriali che accompagnano la realizzazione di una fiction da tv generalista.
Un discorso tra l’altro nemmeno troppo complicato. La committenza, ovvero la rete che richiede un determinato prodotto di fiction (in questo caso Rai Uno) opera un costante lavoro di controllo sullo sviluppo dell’opera, dalla sua ideazione fino alla consegna della “copia lavoro”, ovvero l’ultimo passo prima della messa in onda vera e propria. Controllo significa censura, secondo la più che consolidata tradizione editoriale italiana. Una volta che l’equipe di sceneggiatori ha completato la stesura della sceneggiatura, la rete invia i suoi delegati a riunirsi con gli scrittori per esaminare lo script, scena dopo scena. Spesso questi delegati di rete non hanno alcuna competenza specifica in fatto di tecniche narrative, sono stati piazzati lì per raccomandazione e non hanno mai scritto mezza pagina in vita loro. Gli unici riferimenti creativi di cui sono muniti sono i diktat della rete, imposti dai dirigenti e dai capistruttura. In queste riunioni si arriva sovente a vanificare intere settimane di lavoro a suon di colpi di penna e sottolineature. Saltano intere scene, spariscono personaggi, si cancellano ‘parolacce’ o scene ‘troppo movimentate’. Si fa di tutto, insomma, per depotenziare lo script e renderlo inoffensivo, leggero. In una parola: insulso.
In tal senso la Rai degli ultimi anni pullula di professionisti della banalità, campioni della mediocrità. Ecco spiegati i motivi per cui in tv va in onda solo spazzatura indegna persino di giacere nelle discariche di Bombay. A ciò si aggiunga l’arrendevolezza completa degli sceneggiatori, che mai si sognerebbero di contrastare le linee guida e gli interessi di una rete, pena la perdita perenne di un lavoro già precario per definizione. Si aggiunga la creazione di cast dove la natura canina è particolarmente prediletta, a discapito di attori talentuosi, giovani e studiosi. Si aggiungano registi, montatori e direttori della fotografia che pur vantando competenze tecniche non da poco, si ritrovano a loro volta depotenziati da ritmi di lavoro massacranti e dalla necessità impellente di rispettare tabelle di marcia indescrivibili. La tv di stato italiana è questa, né più né meno. Serie come “Boris” o “Romanzo Criminale” escono ogni dieci anni, nate da un breve ma fortunato periodo in cui i canali satellitari investivano e producevano, credendo in prodotti azzardati, orientati verso un’assoluta libertà creativa. Non dobbiamo stupirci quando assistiamo a serie trash come la fiction “Gli anni spezzati”, fragile e velleitario tentativo di fare i conti con la nostra storia recente in maniera omissiva e manipolatoria.
Si è parlato di revisionismo, termine che può anche essere calzante. Forse dovremmo cominciare a parlare di censura di rete e anche di autocensura degli autori. Dovremmo capire che il rigore storico, pur dovuto per una serie che affronta gli anni più delicati della nostra storia recente, non può trovare spazio in una struttura televisiva così concepita. Bisogna cominciare a conoscere da vicino coloro che dettano le regole di questo lavoro. Quelle regole che poi consegnano al grande pubblico gravissime distorsioni revisioniste, errate e colpevoli rappresentazioni del nostro passato, ancora tutto da decifrare, da comprendere, da svelare. Non stupiamoci più. La Rai è ancora quella che in radio manda i jingle e segnali orario di cinquant’anni fa. Quella che ha gli speaker con le voci funebri. Quella che ha 5000 e più dipendenti, dei quali la metà non si sa bene cosa facciano. Bisogna castigare questa permanente produzione di spazzatura televisiva semplicemente cambiando canale, spegnendo la tv e smettendo di pagare il canone. Difficile chiedere un impegno del genere a quella fascia d’età cui si rivolge l’ammiraglia Rai, composta maggiormente da donne e uomini d’età comrpesa tra i 55 e gli 80 anni, cresciuta a varietà e disimpegno intellettuale. Le nuove generazioni, questo impegno lo hanno già preso. Altrettanto impegnative dovranno essere le scelte degli autori e sceneggiatori che dovranno cimentarsi con la costruzione di storie quantomeno credibili, compito improbo in un contesto televisivo che ancora risente di dinamiche censorie figlie dell’era democristiana, quella in cui le copie di Todo Modo di Elio Petri o di alcuni film di Marco Ferreri venivano certosinamente distrutte, come fecero i nazisti con i roghi di libri. Si pensa che la storia abbia fatto il suo corso, ignorando in realtà il fatto che le antiche dinamiche di censura, nate dalle continue e insuperabili contaminazioni politiche di controllo sui media non sono state assolutamente superate. Anzi vivono prosperano e determinano il mercato audiovisivo generalista, e risentono dell’ormai patologica lottizzazione partitica che investe la tv di stato.
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