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Umberto Romagnoli: “D’ora in avanti la libertà sindacale è sequestrata”

Gli accordi 2011, 2013 e 2014 instaurano un dominio della maggioranza che si propone non solo di azzerare la conflittualità, ma anche di condizionare la dialettica interna con l’obiettivo di omologare l’intero mondo confederale. A questo è finalizzata l’imposizione alle Federazioni di categoria di sottoporsi al vaglio di un collegio arbitrale che punirà i comportamenti giudicati non conformi.

Nel 1987, invitato da un periodico a raccontarsi, Gino Giugni scrisse di sé: “non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”. In effetti, se in qualità di giurista prestato alla politica ha dato molto, in qualità di politico prestato al diritto certamente non ha dato di meno e, anzi, forse ha dato di più. Fin dal suo esordio negli studi giuridici, si assegnò il compito di fertilizzare il terreno culturalmente più favorevole ad orientamenti legislativi che facessero dell’impresa uno spazio di agibilità sindacale senza regolare né il sindacato né la contrattazione collettiva e nemmeno lo sciopero.

La sua opzione era fondata su di una certezza e animata da una fiducia. Giugni credeva che l’auto-organizzazione degli interessi che nell’impresa s’incontrano e si scontrano fosse espressione della libertà sindacale ed era persuaso che, messo nella condizione di far-da-sé, il sindacato avrebbe gestito l’auto-regolazione sociale secondo criteri ordinanti e all’interno di vincoli di sistema il cui insieme si sarebbe tradotto in un quadro di legalità spontanea.

Dunque, questo straordinario intellettuale ha fatto quel che poteva per dare al movimento sindacale la chance di svilupparsi in un clima impermeabile alle seduttive suggestioni che, malgrado tutto, l’esperienza corporativa seguitava a produrre. Poi, è accaduto quel che doveva. E quel che è accaduto costituisce, nella storia delle idee giuridiche, un mix di opposti. Verità e falsità. Finzione e realtà. Pragmatismo e infatuazione ideologica. Piccole astuzie ed euforia progettuale.

Per questo, al di là delle intenzioni si è consolidata una situazione di a-legalità sospesa tra quel che in una democrazia costituzionale non può più essere e quel che non potrebbe mai formarsi: un ordinamento auto-sufficiente, originario e sovrano, capace di produzione normativa, di amministrazione e anche di giurisdizione. Infatti, pur rivendicando il merito di avere insegnato a generazioni di giuristi del lavoro “che, anche in assenza di un intervento legislativo attuativo del particolare tipo di contratto previsto dalla Costituzione, il sistema contrattuale non era extra legem e tanto meno contra legem”, lo stesso Giugni non esiterà ad ammettere che “questo ordinamento di fatto oggi è un po’ sgangherato”. Un bel po’.

La performance compiuta dall’autonomia contrattuale collettiva tra il 2012 e il 2014 lo ha ridisegnato appunto per migliorarne l’aspetto e soprattutto il rendimento, a modo suo assumendo come paradigma proprio “il particolare tipo di contratto previsto dalla Costituzione”. Si tratta perciò di capire se le parti sociali siano finalmente riuscite a trovare fuori della Costituzione ciò che in essa è già scritto.

L’art. 39 della costituzione stabilisce che “i sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Come dire: ogni categoria ha la sua “legge” negoziata, la delegazione trattante è un organismo comune a tutti i sindacati aventi il diritto di accedervi ed è paragonabile ad un mini-parlamento il cui funzionamento è governato dal principio di proporzionalità. Insomma, la Costituzione è permissiva, se non proprio a-selettiva, quanto ai soggetti partecipanti al processo di formazione del contratto collettivo perché ciò che conta è assicurare la più ampia condivisione dei contenuti di un atto che, avendo un’efficacia para-legislativa, implica un sacrificio della libertà decisionale delle organizzazioni sindacali minoritarie e dissenzienti.

Il trittico normativo composto dagli accordi interconfederali del 2011, 2013 e 2014 rovescia la prospettiva descritta. Infatti, antepone all’esigenza inclusiva percepita come prioritaria dai padri costituenti l’esigenza di castigare il sindacato che non condivide la piattaforma rivendicativa presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 51%, sulla base della quale la controparte ha avviato il negoziato.

Ancorché legittimo, il dissenso è sanzionato due volte. Una prima volta perché il sindacato è ugualmente vincolato al rispetto del contratto nazionale concluso senza di lui e anzi è tenuto a garantirne con ogni mezzo l’esigibilità. Una seconda volta perché la mancata partecipazione alla trattativa ovvero l’esclusione dalla delegazione trattante gli preclude il godimento del diritto di cittadinanza nell’impresa previsto dal titolo III dello Statuto dei lavoratori.

L’efficacia dissuasiva della minaccia cui sono esposte le minoranze confederali è poco meno che intimidatoria. E ciò quantunque la controparte non abbia più la possibilità di allungare le mani sulla fonte della legittimazione a negoziare che rappresenta la riserva aurea custodita nel caveau dell’ordinamento sindacale, cioè il mutuo riconoscimento della partnership contrattuale. Infatti, dato che la Corte costituzionale glielo ha vietato ripetutamente – l’ultima volta è successo la scorsa estate con una sentenza che le Confederazioni devono aver giudicato urticante –  adesso la parola decisiva spetta ai sindacati. Come dire: il principio del mutuo riconoscimento non agisce più per iniziativa e volontà dell’impresa, bensì a discrezione dei sindacati. Ma la discriminazione non cessa di essere tale solamente perché è maturata in sede sindacale.

Pertanto, è di solare evidenza che il trittico confederale è figlio della stagione che ha visto la demolizione della quarta Confederazione senza nome e senza bandiera che con criptica ambiguità ha governato il sistema delle relazioni industriali nella seconda metà del ‘900. Non può affermarsi, però, che l’abbia chiusa. Si limita a prescrivere movenze e cadenze del rito iniziatico che precede e accompagna l’avvento della nuova stagione. Lo fa sponsorizzando la deriva autoritaria di una unità d’azione sindacale che si fonda sulla demonizzazione dell’indisciplina, dell’anticonformismo o più semplicemente dell’autonomia di giudizio di sindacati che si rifiutano di pensare che l’appartenenza alle Confederazioni firmatarie del trittico sia una buona ragione per adattarsi al pensiero unico, alla volontà dei mercati, all’idea che l’esistente non conosce alternative.

Infatti, la ri-regolazione della rappresentanza sindacale instaura un dominio della maggioranza che si propone non solo di azzerare la conflittualità, ma anche di condizionare la dialettica endo-sindacale con l’obiettivo dell’omologazione dell’intero mondo confederale. A questo è finalizzata l’imposizione a ciascuna delle Federazioni di categoria dell’obbligo di sottoporsi al vaglio di un collegio arbitrale interconfederale che, provvisto di poteri di controllo centralizzato,  ne punirà comportamenti, commissivi od omissivi, non conformi alle aspettative infliggendo le sanzioni che individuerà la contrattazione nazionale.

Come dire che d’ora in avanti la libertà sindacale è sequestrata e in definitiva tocca ai vertici confederali normalizzarne le forme d’uso. Poco importa se vivrà separata dall’istanza di democratizzazione della vita sindacale la cui realizzabilità – in pochi lo ricordano ancora – è la sola giustificazione di un intervento da parte di autorità sovra-ordinate: ai sindacati “non può essere imposto altro obbligo se non (l’adozione di) un ordinamento interno a base democratica” (art. 39, comma 3). L’essenziale è che il pluralismo sindacale venga inteso e, con le buone o le cattive, praticato in un’accezione più organizzativa che politico-culturale, convertendosi così in pluralismo di apparati distinti, ma convergenti tanto sul piano politico quanto sul piano culturale.

Vero è che quello sindacale è un cantiere aperto dove i lavori non finiscono mai. Tuttavia, non è banale dietrologia dirsi e dire che l’accelerazione degli ultimi tempi non ci sarebbe stata se, tre anni fa, la Fiom non fosse stata trasgressiva. Se non avesse respinto il cauto consiglio della sua Confederazione di apporre una “firma tecnica” in calce all’accordo con la Fiat marchionizzata di Pomigliano d’Arco; se non avesse sfidato i sindacati con essa consonanti promuovendo un lacerante contenzioso giudiziario; se, insomma, non avesse promosso l’operazione di rientro nella legalità costituzionale di un ambiente che presumeva di esserne immune. Può darsi che la metabolizzazione della ratio della conventio ad excludendum su cui si è retto il sistema partitico per decenni si sarebbe comunque estesa al versante delle relazioni industriali, perché non è affatto da scartare l’ipotesi che l’avversione verso il diverso agisse sotto traccia anche nell’epoca della defunta quarta Confederazione senza nome e senza bandiera. Adesso, però, l’arroganza è più forte del pudore.

 

 * Questo intervento è stato pubblicato  su Eguaglianza e Libertà on line del 9 febbraio 2014

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