Prima Pecoraro, poi Alfano. Prima il prefetto di Roma (mancato capo della polizia e “rappresentante del governo” nella Capitale), poi il ministro dell’interno. Oggi, infine, il puntuale editoriale del Corriere della Sera.
“E’ inaccettabile che il centro storico di Roma sia sottoposto a rischio di saccheggio ogni due o tre mesi, non vorremmo che ci costringessero a vietare in queste manifestazioni l’accesso al centro storico della capitale“. Di conseguenza, sul numero identificativo sul casco degli agenti: “sono contrario. Se questi sono i manifestanti, io il numero identificativo lo metterei a loro… vengano loro alla manifestazione con il numero identificativo”.
Evitiamo le battute e teniamoci sull’aspetto politico. Le prime rallegrano lo spirito (tipo “e allora metteteci una stella gialla!”) e distraggono dal messaggio reale che il potere ci sta trasmettendo. Il secondo apre squarci illuminanti sul prossimo futuro. E francamente ci sembra più importante.
Il prefetto, che è persona più abile dell’Angelino, l’ha messa giù con una invidiabile chiarezza: “la sicurezza che va garantita per prima è quella dei poliziotti”. Non siamo ancora all’arbitrio individuale dello sbirro statunitense – quello raccontato dai video su Youtube, non da Hollywood – ma ci avviciniamo. Manca ancora un passo, quello per cui il poliziotto è la legge, non lo strumento che lo Stato usa per farla rispettare. Ci vuole tempo, si capisce, certe modificazioni passano attraverso una lunga gestione del “senso comune”.
Ma soprattutto è un uomo “pratico”, che prova a realizzare subito il risultato politico – la trasformazione di uno stato di cose sul campo in “istituzioni”, regole, leggi – della discussione pubblica aperta sugli scontri del 12 aprile. Riconosce (e giustifica) l’”eccesso” di violenza dei suoi uomini in alcuni casi specifici, ma rivendica una scelta di gestione della piazza che in generale ha tenuto insieme “il diritto di manifestare” con “la sicurezza dei palazzi istituzionali”. E persino una certa attenzione a “non esagerare” con le cariche a piazza Barberini, che sono arrivate a un passo dallo stringere la gente in uno spazio troppo piccolo, senza sfogo e dunque molto pericoloso. Da “manifestanti di lungo corso” bisognerà ammettere che non è del tutto falso. Poteva andare molto peggio.
Diciamola così: il prefetto rivendica la capacità di esercitare il controllo totale di una manifestazione con piccoli numeri, priva di un servizio d’ordine unitario, di fatto in ogni momento in balia delle scelte del potere.
Chi è stato come noi in piazza ha visto che il corteo era preceduto, affiancato in ogni strada e chiuso dietro da un consistente numero di agenti. Al seguito i militari venivano i mezzi dell’Ama (la raccolta rifiuti di Roma), che fagocitavano in un attimo sia i detriti (volantini, bottiglie, fumogeni esauriti, le dita del migrante cui è esploso un petardo in mano, ecc), sia le scritte sui muri. A cancellare le prove, come se non fosse mai passato nessuno di lì.
Questo controllo totale noi lo abbiamo condensato nell’immagine della “tonnara”, che è l’esatto opposto dell’”assedio” o della “violazione dei divieti della polizia”. Non ci sembra si possa essere contenti di stare nei panni dei tonni, specie sapendo che la successiva “fase di lavorazione” consiste nel passaggio nella scatoletta: polverizzati e ben poco vivi.
Una rivendicazione di “forza e abilità”, da parte della polizia, che il prefetto prova a monetizzare con uno scambio politico che sa tanto di “programma” del governo Renzi: “introduciamo pure il codice identificativo, ma, contestualmente, introduciamo norme che regolamentino il diritto costituzionale di manifestare”.
Voilà, il gioco è fatto! E addirittura tirando in ballo – ed è anche un collegamento “corretto” (ovviamente in negativo, come prassi anticostituzionale già in atto) – l’analogia col diritto di sciopero. I due diritti costituzionali fondamentali della Costituzione antifascista che consentono di trasformare la “libertà di pensiero” in azione sindacale e politica. E senza i quali resta solo un’opinione “interna”, che può diventare pericoloso esprimere e che non ha – grazie all’”Italicum” – nemmeno un marginale sfogo elettorale.
È l’”autoritarismo democratico” – nel senso del Pd, non della democrazia liberale – di cui il regime stile Unione Europea sta mettendo a punto le coordinate principali. E che riguarda nel suo complessso la libertà di opposizione.
Al confronto, Angelino appare come un residuo non brillante dell’era berlusconiana, con quel suo “non vorremmo” che va intepretato come un “vogliamo” (vietare il centro storico alle manifestazioni dell’opposizione).
In entrambi i casi è un meccanismo che va rotto e si può rompere.
Servono “solo” due cose: una dimensione di massa adeguata e il ragionare come soggetti capaci di calcolare le mosse proprie, quelle dell’avversario e le conseguenze di ogni scelta. Non dovrebbe essere impossibile. In fondo non siamo tonni.
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