Ancora una recensione, più che meritata, del libro “Dove sono i nostri?”, redatto dal collettivo di ClashCityWorkers. Il merito, lo ripetiamo per i sordi, sta nel guardare i processi reali per arrivare a definire anche quelli della “soggettività trasformatrice”. Il contrario di quanto proposto rumorosamente – in mancanza di numeri adeguati – da chi ascolta se stesso (e poco altro) sperando che il mondo risponda positivamente.
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Non pensiamo sia eccessivo, riferendosi al testo Dove sono i nostri dei Clash City Workers, parlare del primo, organico, e soprattutto riuscito tentativo di allontanamento dall’auto-inflittosi “Medioevo” politico di quella che un tempo era giornalisticamente considerata la sinistra extra-istituzionale. Per la prima volta infatti, la forza dei numeri si sostituisce al balbettio del senso comune, la consapevolezza di dover giungere ad un’attenta ponderazione su cosa concentrarsi alla tendenza ad aumentare “smaniosamente le iniziative, gettandosi su ogni cosa che si muove” (pag. 10). Per comprendere però con maggiore chiarezza lo straordinario valore teorico del lavoro dei Clash, permetteteci un lungo salto indietro al 1936, anno di elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
Il democratico uscente Franklin Delano Roosevelt venne sfidato dal repubblicano Alfred Landon. Un giovane ricercatore, George Gallup, nei mesi che precedettero le elezioni lanciò un’ambiziosa sfida alla famosa rivista Literary Digest, che da anni conduceva dei sondaggi pre-elettorali tra i suoi lettori. Gallup predisse con largo anticipò che la Literary Digest avrebbe previsto la vittoria del repubblicano Landon, quando in realtà Roosevelt, secondo le sue ricerche, sarebbe stato confermato con circa il 55% delle preferenze. I fatti diedero ragione a Gallup. La domanda che sorge spontanea è quindi la seguente: Gallup era un giovane ricercatore dotato di qualità soprannaturali, oppure aveva compreso qualcosa che la nota rivista ancora non coglieva? Ovviamente la risposta corretta è la seconda. L’errore della rivista era infatti di stampo metodologico. I suoi lettori, per quanto numerosi, non costituivano in alcun modo un campione rappresentativo degli elettori americani, essendo mediamente più istruiti, maggiormente benestanti e generalmente ostili alle riforme introdotte da Roosevelt. Per queste ragioni erano sproporzionalmente inclini a votare per i Repubblicani. Da questa breve nota di colore storico-politico seguono, ed è qui il punto rilevante per i nostri fini, una conclusione ed una considerazione. La conclusione è che dal 1936 la randomizzazione del campione che viene scelto per condurre una survey è divenuta una pietra miliare degli studi demoscopici. La considerazione riguarda invece il perdurare di un atteggiamento che potremmo definire Literary Digest oriented tra le fila di coloro che immaginano la propria azione politica volta ad un radicale mutamento dell’esistente. Non sarà infatti sfuggito ad orecchie ed occhi attenti il costante piacere che si respira in certi ambienti ad auto-confermarsi le proprie granitiche certezze. Come scrivono i nostri amici dei Clash “spesso siamo troppo incastrati nella nostra particolarità, decentrati rispetto al Paese reale. Cerchiamo di erigere a principio generale solo la nostra esperienza diretta, e ci precludiamo così tante altre esperienze e la possibilità di fare un salto teorico e pratico complessivo” (pag. 16). Su tale punto noi vogliamo essere, se possibile, ancora più chiari: da questo testo non si torna indietro. Ovvero, smaltita la sbornia per il grande successo che la presentazione del libro sta riscuotendo in tutta Italia non è concesso il rientro al comodo ovile del passato, nel quale le certezze si costruivano muovendo dallo stantio confronto con chi la pensa come te, oppure a partire da sporadici incontri con amici, conoscenti o passanti. La scientificità dell’approccio marxiano si esplica nella decriptazione del quotidiano, altrimenti rimane, come vorrebbe far credere la critica liberale e liberista, presunta.
I meriti di questo testo non si fermano però qui. Al contrario, gli spunti di riflessione offerti sono moltissimi. Noi però, per brevità e dovere di sintesi ne scegliamo quattro. Il primo è quello che potremmo definire, capovolgendo una tendenza spesso molto evocata, l’industrializzazione del terziario. Infatti, nonostante qualsiasi ricerca sia in grado di testimoniare come il terziario rappresenti il settore determinante in Italia sia per ricchezza prodotta sia per numero di persone impiegate, la retorica dominante ha spesso celato la vera natura di questa impetuosa crescita. Le tendenze riscontrate qui sono principalmente due. Da un lato, “molte fasi legate al processo di produzione sono state esternalizzate e ora appaiono sotto la voce ‘servizi’” (pag. 27); sull’altro fronte invece, si riscontra la tendenza ad una crescita di settori non strettamente e direttamente produttivi, ma comunque determinanti per la valorizzazione del capitale. La logistica è forse in tale ambito il più conosciuto e meno compreso esempio. Il secondo elemento di assoluto interesse presente nel testo è la reindustrializzazione dei capitalismi maturi. Come sappiamo, il capitale si muove da una località all’altra come in un immenso gioco dell’oca alla ricerca delle migliori condizioni di profittabilità. Questo lo ha spinto nei decenni passati ad abbandonare, peraltro solamente in parte e con riferimento ad alcune ben precise fasi della produzione, i Paesi di prima industrializzazione alla ricerca di terre vergini. La storia ci ha mostrato che questo eterno movimento reca con sé una buona e una cattiva notizia. Partiamo ovviamente dalle noti dolenti. Quando una combattiva classe lavoratrice riconosce i propri interessi come opposti a quelli del capitale non solamente strappa miglioramenti nelle condizioni salariali e di vita in generale, ma spinge anche il capitale ad emigrare nuovamente. In poche parole, la finestra di opportunità per il rovesciamento dei rapporti sociali di produzione rimane aperta per un lasso temporale breve e soprattutto geograficamente limitato. Tuttavia, quanto recentemente successo in Turchia, Cina, India, Bangladesh e Tunisia, solo per citare alcuni dei casi più noti, ci ricorda che dove va il capitale va la lotta di classe. Mostrando, ancora una volta, come vi sia fra le due entità un costante e non pacificabile conflitto. Cosa poi possa accadere quando molte caselle del tabellone del gioco dell’oca siano state infettate dal virus capitalista è mostrato dai recenti sviluppi: il capitale ricrea nei Paesi di prima industrializzazione le condizioni per la propria profittabilità. Riteniamo quindi che tutta la parte conclusiva del primo capitolo richieda una lettura attenta ed appassionata: a questa vi rimandiamo per un diluvio di interessantissimi dati. Il terzo e quarto elemento che desideriamo sottolineare possono essere trattati congiuntamente, rientrando nel tentativo di inquadrare noti ed annosi problemi dell’Italia in una prospettiva diversa. L’evasione fiscale e la criminalità organizzata non sono infatti intesi come criticità che penalizzano equamente tutta la popolazione residente, ma al contrario mostrano un chiaro connotato di classe. Lasciamo su questi due aspetti la parola ai Clash: “gli evasori si annoverano principalmente fra le file della piccola e media borghesia, mentre (sul) proletariato (…) grava la maggior parte della tassazione” (pag. 43-44). Ed ancora: “il mondo del lavoro dipendente è per lo più estraneo all’azione della criminalità organizzata, e ne subisce piuttosto l’azione: non ne è affatto “complice”, ma ne è la prima vittima” (pag. 188).
La conclusione scontata a quanto detto fino ad ora sarebbe, anche per non sfidare troppo la passione dei pochi coraggiosi che hanno letto interamente la nostra recensione, consigliare vivamente l’acquisto del testo. Cosa che, ovviamente, facciamo con calore. Prima però vogliamo anche proporre una lettura maggiormente critica dello scritto dei Clash. Questo sia per non far venir mai meno la nostra innata vis polemica sia per aiutare un confronto costruttivo e che abbiamo la presunzione di immaginare interessante.
Muovendo dal titolo della collana all’interno della quale la Casa Usher ha pubblicato il testo dei Clash potremmo dire che il “tentativo di scardinare la ripetizione della storia e tracciare una linea di fuga” sia riuscito solamente in maniera parziale. La collana infatti, diretta da uno strano animale un po’ marxiano un po’ schmittiano, riprende l’immagine fornita dall’intellettuale tedesco Walter Benjamin del balzo di tigre, proponendola come la potenza di un pensiero capace di trasformare il presente. In questo i Clash ci sembra abbiano svolto solo in minima parte l’ambizioso compito, non riuscendo a proporre una comprensione nuova della realtà, preferendo rifugiarsi piuttosto in un glorioso passato. Questa però, a ben pensarci, non è neanche una colpa interamente ascrivibile ai Nostri. L’arretratezza di analisi ci sembra infatti che renda necessaria una prima accumulazione originaria di conoscenza che possa successivamente portare al famoso balzo di tigre. Rimanendo nel campo metaforico, nessuna tigre può saltare con forza su un terreno instabile. La nostra critica non è quindi volta a mettere i soliti puntini sulle “i”, ma al contrario a fornire una possibile linea di fuga per i futuri coraggiosi che vorranno continuare il percorso brillantemente intrapreso dai Clash.
Semplificando e banalizzando molto, tutto il testo ci sembra attraversato da una mai dichiarata, ma pur sempre presente, certezza. Questa si basa sulla presunzione che alcune condizioni strutturali facilitino enormemente, nel confronto con il capitale, i subordinati. Molte di queste condizioni erano inoltre presenti nella lunga fase di centralità operaia che ha attraversato il secondo dopoguerra italiano, databile dalle giornate dei “ragazzi con le magliette a strisce” di Genova nell’estate del 1960, quando l’Msi provò a tenere il proprio congresso nel capoluogo ligure, fino alla cosiddetta marcia dei quarantamila nell’ottobre del 1980 a Torino, che pose fine ad una storica e lacerante vertenza alla Fiat ed aprì le porte ad una profonda ristrutturazione industriale in Italia. Questa fase storica è stata caratterizzata dalla centralità della fabbrica fordista, da una bassa specializzazione professionale di chi vi era impiegato, da un alto grado di sindacalizzazione e politicizzazione, e da un elevato livello di omogeneità del lavoro salariato. Condizioni che i Clash sembrano trascendere dalla contingenza storica per assumerle come inerentemente favorevoli. Ragionamento che può apparire logico ad un primo sguardo, ma che sconta un deficit quando il nostro campo di analisi si allarga a considerare quanto successo durante il primo biennio rosso in Italia (1919-20). Qui, il protagonismo operaio risiedeva in gran parte sulla forza contrattuale che operai altamente specializzati, quasi artigiani per certi versi, giocavano all’interno dell’organizzazione capitalista, incapace di procedere senza il loro “contributo”. L’impossibilità di sostituirli all’interno del processo produttivo li rendeva quindi depositari di una straordinaria forza contrattuale. Tale situazione sembrò però mutare radicalmente con l’avvento delle catene di montaggio moderne, che si caratterizzarono per la presenza dell’operaio-massa. Non sorprendentemente, l’affermazione di questa nuova figura proletaria fu accompagnata per tutti gli anni cinquanta dalla presunzione che, dato il suo alto grado di ricattabilità per lo svolgere una funzione semplice e fosse quindi facilmente sostituibile, disponesse di una bassissima capacità di conflitto. Poi, un’immagine balenante riuscì a scardinare la ripetizione della storia. L’organizzazione del proletariato mosse da una strutturazione territoriale, funzionale alla forte dispersione geografica della manodopera che aveva caratterizzato il capitalismo in Italia nella prima parte del Novecento, ad una di fabbrica, congeniale invece quando grandi masse operaie si concentrano in poderosi agglomerati industriali. L’operaio-massa riuscì quindi, grazie ovviamente anche ad altri innumerevoli fattori che non possiamo adesso richiamare in dettaglio, a divenire l’elemento centrale dell’endemica conflittualità che segnò i due gloriosi decenni di centralità operaia in Italia. Questo però ci deve insegnare che a differenti modelli di produzione si risponde con diverse e funzionali organizzazioni del proletariato.
Tornando al testo dei Clash, il loro tentativo di evitare che lo spettro di cui parlavano Karl Marx e Friedrich Engels ne Il Manifesto del Partito Comunista diventi una forza spettrale, ovvero evanescente ed invisibile, si trasforma eccessivamente in un tentativo di mostrare come le condizioni oggi presenti non siano nei fatti così diverse da quelle presenti una quarantina di anni fa. Tale scopo viene perseguito in due tappe.
Per prima cosa i Nostri propongono una comparazione tra la struttura produttiva in Italia nel 1971 e nel 2011. In questi quarant’anni gli occupati nell’industria in senso stretto sono scesi “solamente” di circa un quarto (dal 28,7 al 20,4 percento). Sommando a questi dati quanto è riportato nelle pagine 27-29 e che precedentemente abbiamo descritto come quel processo di industrializzazione del terziario la sensazione che si ricava è che la situazione sia mutata sostanzialmente poco dal 1971. Cosa vera per quanto riguarda il processo produttivo, ma incorretta, a nostro parere, per quello che concerne la sfera politica, dove gli operai in senso stretto pesano poco, per non dire niente rispetto al 1971, non solamente perché incapaci di auto-rappresentare attraverso strutture organizzate i propri interessi, ma anche perché numericamente calati. La nostra riflessione al riguardo parte dalla nota 6 a pagina 23, primo capitolo. Inizialmente, comparando i dati riportati in questa nota e quelli presenti nella pagina precedente eravamo confusi. Ci chiedevamo infatti come fosse possibile avere una riduzione nell’ordine di circa un quarto degli occupati nell’industria in senso stretto dal 1971 al 2011 quando i dati assoluti sembravano invece far presagire un allargamento maggiore di questa forbice (gli operai in senso stretto erano circa 7 milioni e mezzo su una popolazione di 54 milioni di persone nel 1971, mentre “oggi” si stimano in oltre tre milioni e mezzo su una popolazione di 60 milioni di persone). La nostra prima evidente conclusione era che il numero di coloro che sono impiegati nell’industria in senso stretto sul totale della popolazione era passato dal 13,9% del 1971 al 6,85% del 2011 (ovvero esattamente la metà). In realtà, in un secondo momento ci è sembrato poco corretto considerare l’intera popolazione italiana, dato che la finalità ultima del lavoro dei Clash e della politica in senso lato intesa, riguarda l’importanza numerica e soprattutto la centralità politica delle categorie sociali, o delle classi se preferiamo, all’interno dell’agone pubblico. Questo significa che anche la struttura demografica di un Paese conta. Come possiamo facilmente immaginare, demograficamente parlando, l’Italia era una piramide nel 1971, mentre oggi le coorti intermedie di età sono quelle maggiormente diffuse. Il nostro problema teorico è stato quindi chi considerare come soggetto politicamente attivo, o almeno potenzialmente tale. La soluzione adottata è stata considerare come politicamente attive tutte quelle persone con età superiore a 14 anni. Questo perché: a) i pensionati, come il testo dei Clash spiega bene, contano, e certamente non poco, in Italia (principale categoria nel maggior sindacato italiano, Cgil; alta partecipazione elettorale; atteggiamenti, opinioni e comportamenti conservativi/conservatori); b) si può essere politicamente influenti anche prima dell’ingresso nel circuito rappresentativo-elettorale e questa è la ragione che ci ha portato ad includere anche la piccola coorte 15-18 (d’altro canto questa considerazione ci sembra si applichi meglio al 1971 rispetto al 2011, per ragioni ampiamente note). In conclusione, nel 1971 tra gli 0 ed i 14 anni rientrava il 24,4% dell’intera popolazione, ovvero circa 13 milioni e 200 mila persone. Gli operai in senso stretto erano quindi 7 milioni e mezzo su una popolazione politicamente attiva di quasi 41 milioni. Percentualmente parlando fa il 18,3%. Nel 2011 invece, i giovani tra gli 0 ed i 14 anni erano diminuiti di quasi 5 milioni (nonostante la popolazione totale fosse aumentata di sei milioni). Per questo gli oltre 3 milioni e mezzo di operai in senso stretto (da noi considerati probabilmente con manica larga 3 milioni e 700 mila) su una popolazione politicamente attiva di 51 milioni e 770 mila pesavano appena il 7,15% nel 2011. Per tali ragioni, la diminuzione numerica deve essere considerata attorno al 60%. Non poco, diremmo.
Il secondo elemento sul quale ci vogliamo soffermare riguarda la suddivisione per numero di dipendenti delle imprese. Rendiamo prima con un esempio quello che ci apprestiamo ad esprime a parole. Se in una classe di 15 studenti 5 hanno gli occhi neri, 4 marroni, 3 azzurri, 2 verdi ed 1 grigi, appare evidente come la maggioranza relativa degli studenti abbia occhi neri. Tuttavia se noi suddividiamo chi ha occhi neri in tre diverse tonalità di nero (ed otteniamo, per esempio, 3 occhi nero-scuro; 1 nero-medio; 1 nero-chiaro) concludiamo che i ragazzi con gli occhi marroni sono la maggioranza relativa. Generalmente, la suddivisione classica delle imprese, viene fatta nel seguente modo: micro fino a 10 dipendenti; piccola fino a 50; media fino a 250. Nel libro dei Clash invece, entrambe le categorie micro e piccola vengono ulteriormente suddivise in altre due sub-categorie (rispettivamente, 1 e 2-9 dipendenti; 10-19 e 20-49 dipendenti), concludendo che la maggioranza relativa dei lavoratori nella manifattura lavora in imprese di grandi dimensioni (pag. 74). Utilizzando invece la ripartizione classica delle imprese per numero di addetti, che ci permette di comprendere la particolarità italiana quando questa viene comparata con altri Paesi europei, la conclusione che se ne ricava è che la maggioranza relativa di operai in senso stretto lavora in piccole aziende, mentre la maggioranza assoluta lo fa in aziende piccole o micro. Questo è proprio l’elemento che contraddistingue l’anomalia italiana, ovvero il suo nanismo industriale.
Che dire in conclusione? L’abbiamo fatta lunghissima e ci sembra di aver lasciato fuori molte cose che meritavano attenzione. Insomma, non potete far altro che leggervi questo bellissimo lavoro dei Clash City Workers.
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