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L’errore filosofico della decrescita

 

Sostenere la «qualità» contro la quantità significa proprio solo questo: mantenere intatte determinate condizioni di vita sociale in cui alcuni sono pura quantità, altri qualità.

(Antonio Gramsci, Quaderno 10)

Il libro di Giovanni Mazzetti, dal titolo Critica della decrescita, Edizioni Punto Rosso 2014, benché sia stato scritto da un economista, porta a segno una critica al progetto politico della decrescita che non ricorre ad argomentazioni economiche ma filosofiche. Per essere più precisi, quella di Mazzetti si presenta come una «critica alla prospettiva culturale» dei sostenitori della decrescita (Latouche, Pallante), mettendone in evidenza contraddizioni oggettive e soggettive (intendendo con le prime quelle che sorgono dal confronto con la realtà storica, con le seconde quelle che sorgono dall’interno delle tesi di tale prospettiva). A nostro avviso le prime sono più importanti delle seconde, anche perché sono quelle quantitativamente e qualitativamente più consistenti.

La prima osservazione è di natura metodologica. Poiché, secondo la definizione datane dai suoi sostenitori, la decrescita non è una teoria ma un progetto politico che intende modificare una realtà, Mazzetti sostiene che, per capire cosa sia necessario fare e come cambiare tale realtà, occorre «verificare se, grazie al proprio sistema di orientamento, si è realmente in grado di individuare correttamente dove ci si trova e come [vi] si è giunti». Insomma, siamo sicuri di capire con le nostre categorie interpretative la realtà su cui si vuole intervenire politicamente? La domanda non è di poca rilevanza, se è vero ciò che Marx sostiene, ossia che gli uomini fanno sì la storia ma agendo entro condizioni storiche ereditate. Se si dimenticano o si si leggono male queste condizioni, si rischia di anteporre una qualunque “visione” alla “cosa da osservare”, cadendo in quell’errore che storicamente è stato variamente definito: utopismo, idealismo, soggettivismo, moralismo, avanguardismo… Per quanto è umanamente e – il che è uguale – storicamente possibile, chi osserva dovrebbe cogliere la realtà come processo iuxta propria principia. E Mazzetti nutre seri dubbi sulla capacità orientativa delle tesi dei “decrescisti”.

Infatti, per l’autore, la “crescita”, bersaglio centrale dei decrescisti, intesa senza altre specificazioni, non aiuta a capire bene questa realtà. Essa andrebbe sostituita con il “concetto analitico” (cioè più specifico e meno generico) di accumulazione capitalistica. Vediamo perché. Poiché la crescita si è presentata storicamente come accumulazione di merci, le nostre relazioni nella modernità si sono configurate comme «rapporti di merce». Lo scambio di merci non si dà in natura, è invece un prodotto storico di quell’agire umano che, giungendo «alla sua piena maturità solo con la società borghese», consente quell’«incerto processo attraverso il quale quell’universalità di relazioni, propria di ciò che chiamiamo umanità, è stata infine acquisita». Gli uomini nella loro storia, usciti dal loro particolare ambiente sociale (famiglia, tribù, ecc.), sono entrati in contatto tra loro da ogni angolo del globo producendo e scambiando merci. Negare questo significa negare l’ambivalenza dei processi storico-economici che sottostanno alla storia dei rapporti di produzione capitalistici. Latouche invece insiste nel vedere nei rapporti di merce solo una configurazione ideologica della realtà, cioè qualcosa di arbitrario: se noi scambiamo merci e le nostre relazioni si limitano solo allo scambio, ciò è l’effetto di un’imposizione ideologica che ha colonizzato il nostro immaginario. Facciamo così solo perché ci è stato detto che così è meglio. Dunque Latouche, sostiene Mazzetti, giunge ad affermare «l’inessenzialità dei rapporti borghesi, nonostante questi rapporti abbiano rappresentata la struttura portante sulla quale è stata edificata l’odierna umanità». Come dire, non era necessario che andasse così, ma ci è stato imposto. Nessuna necessità conseguente è ravvisabile dunque dalla strutturazione dei rapporti di produzione capitalistici…

A noi viene da pensare, seguendo il ragionamento di Mazzetti, che la negazione (solo a parole, s’intende) dell’universalità di questi rapporti è uno dei tipici errori dei negatori etici del capitalismo (di destra e di sinistra), ogni qualvolta si propongono soluzioni “particolari” (la felicità raggiungibile in un hortus conclusus, che sia la propria interiorità, il proprio consumo equo-solidale, il proprio quartiere o il proprio Paese). Questa universalità di relazioni si è sviluppata grazie a una merce terza assunta come mediatore, il denaro, che ha garantito una cooperazione tra gli essere umani da varie parti del globo per assicurarsi in maniera non militare beni che avrebbero garantito la riproduzione in maniera pacifica (cioè non per mezzo di assalti, devastazioni e saccheggi). Il che non vuol dire che non ci siano state guerre per l’appropriazione delle risorse, ma semplicemente che una volta stabilite determinate relazioni, esse vanno avanti quotidianamente senza armi. Scrive dunque Mazzetti: «se la forma di questa cooperazone – il denaro – ha assunto una dimensione feticistica ciò è accaduto appunto perché gli esseri umani, fino ad oggi, non hanno saputo porre la loro stessa cooperazione altrimenti che come un qualcosa di esteriore e di sovrastante». L’inversione che ne consegue, cioè la rappresentazione dei rapporti di produzione dietro i rapporti di merce e dunque monetari, tipica del mondo capitalistico, si ripercuote anche nelle visioni di alcuni critici, che leggono solo come ideologica la natura di quei rapporti.

Seguendo questa negazione (altrettanto) ideologica dei rapporti di merce, si giunge ad affermare che, tolta l’ideologia, rimarrebbe la natura umana non contaminata. Gli esseri umani che non si pongono come obiettivo la crescita recupererebbero dunque la loro vera natura umana. Tuttavia, continua Mazzetti, uno dei punti centrali del discorso di Marx è che non esiste una natura umana fissata una volta per tutte e che la “natura” degli esseri umani si struttura attraverso le relazioni, sempre cangianti, con gli altri esseri umani. Per dirla, ancora, con Marx: «la storia tutt’intera non è che una trasformazione continua della natura umana».

Anche quella libertà che Pallante va cercando nei rapporti concepiti nel progetto della decrescita, i quali dovrebbero fondarsi «su libere scelte e su affinità culturali», aumentando così «la libertà delle persone perché [si] liberano dalla dipendenza totale del mercato», altro non è che il risultato storico di un’evoluzione sociale dell’umanità. Si chiede a questo punto Mazzetti: «Già, ma dove avrebbero mai imparato quegli individui, ai quali antenati avevano trasmesso un cultura fondata su una simbiosi immediata con l’organismo di cui facevano parte [le comunità originarie], a procedere sulla base di quel potere che definiamo come “libertà individuale”?» Anche qui un’osservazione di Marx aiuta capire: «l’uomo si isola soltanto attraverso il processo storico. Originariamente egli si presenta come un essere che appartiene alla specie umana, alla tribù, come un animale gregario […] Lo scambio stesso è uno dei movimenti principali di questo isolamento. Esso rende superfluo il gregarismo e lo dissolve». Ne risulta che il vituperato mercato, visto solo in maniera unilaterale, è proprio la base di quel concetto di libertà individuale richiamato da Pallante (il che non significa che senza mercato non c’è libertà, ma solo che l’idea storicamente è potuta nascere grazie allo sviluppo di quelle relazioni sociali che sottostanno allo sviluppo del mercato).

L’errore del nostrano decrescista conduce a un altro errore, a quello che potremmo chiamare il peccato dell’immediatezza. Secondo il suo pensiero, infatti, basterebbe «uscire dalla ruota del criceto dove si corre in continuazione per rimanere allo stesso punto», intendendo con questa metafora che basta rinunciare alla crescita ed essere ipso facto fuori dal suo dominio ideologico. Purtroppo, ricorda invece Mazzetti, la ruota del criceto «non è altro che la struttura delle nostre relazioni sociali, dalle quali non è possibile uscire, né più né meno di come nessuno di noi può “uscire” dal nostro corpo». All’essere umano è, certo, data la possibilità di produrre altre relazioni sociali, ma, appunto, esse vanno prodotte e la possibilità (per chi mastica un po’ di filosofia) è una categoria modale dell’essere sociale che non corrisponde con la realtà: tra di esse passa la stessa differenza che intercorre tra un seme e la pianta. Una pianta deriva da un seme, ma non necessariamente da un seme deriva una pianta (se ad esempio non lo si coltiva, cioè se non interviene una soggettività esterna che lo modifica con il proprio lavoro).

Poiché la possibilità si può dare solo in seno alla generalità delle relazioni sociali (leggi rapporti di produzione), «l’elemento principale sul quale agire è quello dei rapporti con i propri simili, in particolare i rapporti di proprietà. Parlare di un’autoproduzione positiva della propria vita resa possibile da una scelta unilaterale [la decrescita], equivale a fantasticare di un produttore che potrebbe produrre senza doversi appropriare delle condizioni materiali di qualsiasi produzione, cioè come puro spirito». È per questa ragione che il concetto di crescita andrebbe sostituito con quello di accumulazione capitalistica, altrimenti s’incorre in quegli errori tipici dell’economia politica borghese, che Marx etichettava come “robinsonate” (da Robinson Crusoe, prototipo del self-made man, il quale su un’isola deserta ricrea “da solo” quello che in realtà gli uomini per secoli e secoli hanno prodotto anche per lui). Per Mazzetti, pertanto, «la libertà nuova di cui abbiamo bisogno è ancora da produrre».

Vista così, non ha senso parlare di decolonizzazione dell’immaginario dalla crescita, come se ciò bastasse a liberarsi delle catene che ci vengono imposte, perché tutto ciò in nome di cui lottiamo altro non è che il prodotto di uno sviluppo sociale. Tale decolonizzazione, scrive Mazzetti, porta alla rimozione di alcune conquiste storiche attraverso le quali siamo diventati umani» (corsivo nostro). Appunto, una robinsonata.

Ma qui occorre fare un’altra distinzione capitale, senza la quale si commettono errori grossolani. Occorre cioè distinguere tra crescita e sviluppo. Scrive Mazzetti: «la riproduzione di un organismo individuale o collettivo è un processo attraverso il quale l’organismo estrinseca ciò che concretamente è e dà corpo alle potenzialità che sono eventualmente latenti nella sua “natura”. La crisi si presenta così sia come impossibilità di estrinsecare le proprie capacità, col sopravvenire di un blocco riproduttivo, sia come incapacità di risolvere i problemi che hanno determinato quel blocco». Per l’autore, la mancata distinzione tra crescita e sviluppo, induce i decrescisti in errore circa la spiegazione della natura della crisi. La crescita ha rappresentato per un lungo periodo la «specifica forma dello sviluppo», cioè la fase fordista con il conseguente – vai a sputarci sopra – sviluppo dello stato sociale keynesiano (non automatico, ma reso possibile da quello sviluppo e dalle lotte operaie). Mentre l’economia capitalistica comincia ad entrare in crisi subito dopo la guerra, il capitalismo ha continuato svilupparsi e ad estendersi per tutto il mondo (complici i processi storici che abbiamo conosciuto). La crisi che oggi è sotto i nostri occhi è il frutto dello sviluppo del capitalismo, manifestatasi in una fase di crescita calante (o decrescita, se vi pare).

La critica allo “sviluppismo” porta infine alla critica del concetto di storia come progresso, nel quale, scrive Pallante, «la chiave di ogni miglioramento è il cambiamento». Il cambiamento viene dunque «rappresentato come un’imposizione arbitraria dell’esistenza», scrive Mazzetti. «Ma nella realtà la vita stessa è inevitabilmente un continuo cambiamento»: da quando nasciamo a quando moriamo, impariamo, e perciò cambiamo, a fare cose che non sapevamo fare. Poiché la stessa vita è «l’insieme delle attività che gli organismi estrinsecano per riprodursi come “viventi”, e le circostanze mutano continuamente per eventi ambientali e in conseguenza della loro stessa attività, non può esserci vita senza cambiamento». E così conclude l’autore di questo libretto: «Come scrive Marx, l’uomo moderno non può non essere ricorrentemente insoddisfatto, perché, a differenza dei suoi antenati che hanno sempre rappresentato sé stessi nei limiti di una forma data, ha scoperto il segreto della sua natura. Per questo non può pretendere di riprodursi in una situazione determinata, ma deve produrre la sua totalità, non deve cercare di rimanere qualcosa di divenuto, ma deve cercare se stesso nel movimento stesso del divenire».

A noi sembra che in poco più di cinquanta pagine Mazzetti abbia chiarito alcuni punti filosofici che servono a orientarci meglio e a districarci in mezzo a quelle “utopie letali” di cui Carlo Formenti ha recentemente parlato, fornendo o riaffermando strumenti storico-concettuali il cui valore va oltre la critica alla decrescita.

 

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