Parlare dei fatti di Tor Sapienza non è un fatto che riguarda un dibattito territoriale, circoscritto a quel quartiere, o alla città stessa. Riflettere su quanto accaduto in una delle periferie di Roma riguarda l’interrogarci complessivamente sulla situazione storica, sulle metropoli, sulla scomposizione di classe, sul blocco sociale di riferimento, sulle responsabilità della sinistra e sulla sua sconfitta, sul lavoro politico e sociale che dovremmo intraprendere.
Ambizioso? Troppa carne al fuoco? Pensiamo di no.
La situazione sociale di Tor Sapienza rispecchia quella delle mille periferie della Capitale, ma anche delle mille periferie di ogni grande città italiana e non solo, luoghinon luogo che soffrono gli stessi identici problemi. Quartieri abbandonati a loro stessi da decenni di politiche scellerate e antipopolari degli enti locali e nazionali, che hanno scaricato su questi privatizzazioni, tagli ai servizi, speculazioni immobiliari, devastazioni dei territori.
Tutto questo a Roma ha nomi e cognomi, a partire dalle giunte di sinistra degli anni ’70 e ’80 che nella frenesia di dimostrare di essere diversi dai democristiani che li avevano preceduti hanno costruito le “Periferie delle periferie”, quartieri dormitorio, ghetti dove, nel tentativo di risolvere alcuni problemi sociali, ne hanno prodotti altri. Seguite poi da quelle di centro-sinistra degli anni ’90 e Duemila dei Rutelli e Veltroni, per le quali la città si esauriva all’interno delle mura Aureliane. Per ultima, e non ultima, la giunta Alemanno, che non ha certo invertito questa tendenza, anzi, lasciando campo libero ai palazzinari e speculatori.
Con questo ha a che fare anche Tor Sapienza, e in particolare le case popolari di Via Giorgio Morandi, teatro dei fatti di questi giorni, un luogo isolato, distaccato e lontano dallo stesso quartiere.
A questa situazione di degrado, abbandono, devastazione si aggiunge quella della macelleria sociale imposta dalle necessità del Capitale con licenziamenti, disoccupazione strutturale, precarietà del lavoro e della vita, annullamento dei diritti, depauperamento culturale e dell’istruzione, contrazione della democrazia, con la gestione delle emergenze sociali che diventa una questione di ordine pubblico, fenomeni che proprio in questi luoghi si sentono con tutta la loro violenza.
Ma con questa struttura interagisce in forma dialettica una sovrastruttura, con il ruolo mistificante di una ideologia, creata ad hoc dalla classe dominante per soggiogare le classi subalterne.
Una sovrastruttura che ha come portavoce funzionale la demagogia razzista, xenofoba e, novità, nazionalista, della Lega Nord. Un partito che segna in questi ultimi mesi un nuovo paradigma per niente secondario, trasformandosi da partito locale, separatista e con accentuazioni xenofobe, in punto di riferimento nazionale apertamente razzista, populista e nazionalista, fornendo in questo modo una sponda e un partito di massa all’estrema destra che, proprio in queste occasioni dimostra di gradire molto questa alleanza per la propria attività servile e funzionale, eversiva e di controllo dei territori, come ben stanno facendo Fratelli d’Italia e Casapound. Figuri. noti e meno noti, che tenteranno di espandere l’“esperienza” di Tor Sapienza anche ad altre periferie romane, come di altre città d’Italia, ponendola anche sul piano politico, come hanno tentato di fare sabato scorso con il corteo di Roma, che per il momento, e forse solo per il momento, ha rappresentato un flop. Tor Sapienza potrebbe essere, quindi, solo un esperimento per una strategia reazionaria di più lungo respiro.
A questa sovrastruttura non è più in grado di contrapporsi la coscienza di classe. Una coscienza che può essere “spiegata soltanto partendo dalle contraddizione della vita materiale, dal conflitto esistente tra le forze sociali di produzione e le relazioni di produzione”.
Una coscienza di classe ormai perduta grazie all’attacco ideologico della borghesia e all’incapacità della sinistra, compresa quella rivoluzionaria, di contrapporvisi.
Le periferie delle grandi città italiane, come anche Tor Sapienza, erano fino a non moltissimi anni fa luoghi per la sinistra di socializzazione, dibattito, riflessione, lotte sociali, fermento culturale, di radicamento politico, di internità alla classe. Ora sembra tutto svanito nel nulla, con una gran parte della sinistra storica che ha abbandonato progressivamente, e ormai definitivamente, i riferimenti di classe; un’altra che ha interpretato il proprio agire come un fatto esclusivamente elettoralistico, rendendosi aliena al blocco sociale di riferimento, perdendo ogni relazione sociale, assumendo, in qualche misura, il punto di vista ideologico dell’avversario di classe; un’altra parte ancora che, nel migliore dei casi, si è ritirata nelle proprie “riserve indiane”.
Ma quando il wc si intasa, bisogna avere il coraggio di infilarci dentro le mani.
Sarebbe sbagliato contrapporsi frontalmente agli abitanti delle periferie che esprimono, seppur in maniera distorta, il loro disagio ma anche il loro “smarrimento”. Certo, è necessario dare una risposta immediata ai fascisti e leghisti che tentano di guadagnare terreno speculando sul disagio e la sofferenza dei ceti e dei quartieri popolari, con ogni forma e ogni mezzo a disposizione, ma bisogna soprattutto avere il coraggio di riprendere invece quel lavoro sulla ricomposizione di classe, sulla ricostruzione della rappresentanza politica, in un percorso di internità, di ricostruzione di quella che una volta chiamavamo “controcultura”, di costruzione del conflitto.
Un lavoro che è necessario articolare su tutti i fronti, quello politico, quello sociale, quello ideologico, rivolto al nostro blocco sociale di riferimento.
Essere in grado di ricostruire quella forma dove si riacquisisce coscienza collettiva di sé e per sé, una identità di classe, una prospettiva reale di cambiamento radicale; rimettere in campo azioni di tipo strategico sulla rappresentanza, sulla costruzione della soggettività organizzata, sul piano della identità politica su obiettivi reali espliciti e non mediati, come la rottura con l’Unione Europea e l’indipendenza di classe, che su quello dell’organizzazione effettiva del conflitto; allargare il fronte ai nuovi settori del lavoro, dei disoccupati, dei precari, dei migranti, dei senza casa, dei senza diritti, costruendo un’organizzazione sociale-sindacale che sviluppi una nuova confederalità, quella sociale, e metta in relazione le lotte cercando di ricomporre ciò che il capitale scompone e disgrega.
Un lavoro certosino, complesso, quotidiano, forse anche poco gratificante, ma unica strada che possa far ridiventare ben chiaro ai settori popolari e alla classe subalterna chi sia il nemico.
* Rete dei Comunisti
Fonte: http://www.retedeicomunisti.org
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