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Le ambizioni del “polo” islamico. Un fattore della guerra nel XXI Secolo

Pubblichiamo una parte del contributo ospitato sull’ultimo numero della rivista Contropiano dedicato alla guerra, dal titolo “Destabilizzazione e guerra in Medio Oriente. Tra declino Usa e ambizioni del polo arabo-islamico”. In questa parte di un saggio più ampio, viene avanzata l’ipotesi di una “grande potenza islamica” come possibile tentativo di polo emergente e in competizione con gli altri poli imperialisti. Alla luce dei fatti di Parigi una chiave di lettura fuori dalla cronaca contingente.

(…) Come dice Kissinger in un suo recente libro: “Il concetto di ordine mondiale che ha governato sinora i rapporti internazionali, è entrato in una crisi irreversibile”.Il declino di una potenza egemone come sono stati gli Usa in Medio Oriente non può che generare una fase di devastante instabilità, di cambiamenti di alleanze, di scontri e repentine tregue. Un nuovo equilibrio nascerà, se nascerà, da un periodo di grande caos. Ma dalla instabilità generale  e dentro l’instabilità del Medio Oriente possono crescere anche nuove forze e nuove ambizioni con cui in molti, comprese le vecchie e nuove potenze imperialiste, dovranno fare i conti.

E’ interessante l’analisi avanzata da Aldo Giannuli in un suo recente saggio relativo al contesto in cui si è presentato alla ribalta lo Stato Islamico (Isis). “Il mondo islamico conta più di un quinto della popolazione mondiale, ha un potenziale militare fra i maggiori del mondo, pesa per circa il 9% della finanza mondiale ed ha in pugno la maggior parte delle risorse petrolifere. Ma, essendo frammentato in una trentina di stati, pesa pochissimo nella scena internazionale: non ha un solo membro permanente del Consiglio di Sicurezza o nel G8, conta pochissimo nelle istituzioni finanziarie come nelle alleanze militari ed anche nel G20, ha una presenza del tutto marginale”.

E’ una diagnosi che può aiutare a comprendere molti fattori e ambizioni emergenti nell’area mediorientale. Ma c’è dell’altro in questa analisi che merita di essere segnalato: “Il mondo islamico è coinvolto nell’80% dei conflitti armati attualmente in corso ed ha sviluppato un forte antagonismo nei confronti degli altri paesi espressione di diversi modelli di civiltà. Infine, soprattutto nel mondo arabo, c’è una diffusa consapevolezza di stare attraversando una stagione straordinaria grazie alle risorse petrolifere, ma che questo momento magico non durerà ancora a lungo e quando il petrolio sarà esaurito, il mondo islamico avrà perso la sua grande occasione, se non si sarà costituito prima in grande potenza mondiale. Tutto questo è fonte di esasperate frustrazioni e di uno stato ansioso che investe in particolare buona parte del mondo arabo. Questo senso di frustrazione, sta producendo la nascita di un’area transnazionale (di cui l’elemento più vistoso, ma non unico, sono i Fratelli Musulmani). Tutto questo trova il suo elemento di precipitazione nella ricerca della costituzione della “grande potenza islamica”, un polo in grado di assumere la leadership dell’intera area, di riscattare le troppe sconfitte subite e che si inserisca nel novero delle maggiori potenze mondiali”. Secondo Giannuli, però se una grande potenza islamica dovesse sorgere “molto difficilmente potrebbe venire da paesi islamici non arabi come Iran, Pakistan, Bangladesh, Turchia, Indonesia, Nigeria. Il “Califfato” può essere costruito solo intorno alla “centralità araba”.

La “grande potenza islamica”. Un nuovo polo emergente?

Si sta dunque delineando lo spazio per l’affermazione di una potenza arabo-islamica capace di pesare sia in tutto il Medio Oriente che nelle relazioni internazionali? Se è vero che siamo passati nella fase storica della competizione globale, del relativo declino dell’egemonia Usa e della ridefinizione dei rapporti internazionali, diventa difficile escludere che queste ambizioni ci siano e che in parte fossero quelle rese già visibili al mondo dal commando che realizzò gli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti.

Su questo, negli anni, siamo andati spesso in controtendenza rispetto alle tesi che sostengono che l’11 settembre sia stato “organizzato dalla Cia”. Se non si può escludere quanti buchi la rivalità tra le varie agenzie di intelligence statunitensi abbia lasciato aperti nella sicurezza nazionale, abbiamo anche ritenuto questa tesi consolatoria e fuorviante. Consolatoria perché pensare che sia opera della Cia ci risparmia da ogni sforzo di analisi, fuorviante proprio perché ha negato sin dall’inizio che dentro le borghesie arabo-islamiche stesse maturando l’ambizione a contare di più in Medio Oriente e nel mondo e – di fronte allo stop imposto dagli Usa a tali ambizioni – hanno cercato di portarle alla luce con degli attentati clamorosi e per certi versi epocali nel cuore dell’imperialismo egemone.

Chi erano e cosa rappresentavano ad esempio gli attentatori dell’11 settembre? “Troppo spesso descritte esclusivamente come tradizionali e conservatrici, le società arabe e musulmane sono comunque cambiate in questo quarto di secolo” sostiene un autorevole osservatore come Alberto Negri “Non si spiega altrimenti il fatto che i jihadisti coinvolti nelle operazioni di Al Quaeda siano borghesi istruiti con basi tecniche e scientifiche secolari. Il terrorismo islamico, come molti suoi predecessori in Occidente, è un’attività borghese”

Ma come è nato questo “embrione di classe dirigente” nel mondo arabo-islamico? E di quali mezzi dispone? 

Per rispondere a tali domande, dobbiamo porci le stesse domande che si sono posti centinaia di “rampolli” delle èlite nei paesi arabi e islamici a metà degli anni Novanta, quando –  racconta un esperto conoscitore di quel mondo come Ahmed Rashid – Osama Bin Laden riunì intorno a se i veterani della guerra afgana, “disgustati dalla vittoria statunitense contro l’Iraq e dalle èlite al governo nei paesi arabi che avevano permesso la permanenza delle truppe statunitensi nel Golfo” .

Si tratta della crème delle nuove generazioni delle petromonarchie del Golfo, ma anche di ricchi rampolli egiziani, algerini, giordani, pakistani. Alcuni hanno combattuto in Afghanistan ma anche in Bosnia e nella prima guerra in Cecenia, spesso lo hanno fatto fianco a fianco con istruttori militari statunitensi o di paesi della Nato dai quali hanno imparato molti trucchi della “guerra sporca”. Esattamente come accaduto adesso in Siria con molti miliziani dell’Isis.

Sono istruiti perché in molti casi hanno studiato nelle università USA o nei college inglesi. Sono ricchi perché la Jihad Corporation può mettere le mani dentro i 230 miliardi di dollari delle istituzioni finanziarie islamiche. Secondo fonti dell’intelligence, la Rabitat al Alam al Islami (Lega mondiale musulmana) costituisce il principale finanziatore delle attività salafite in tutto il mondo. Essa finanzia, organizza e gestisce le università religiose in Arabia saudita e attraverso gli sceicchi locali, nel resto del globo, Finanza e gestisce le case editrici e gli istituti di comunicazione di massa sparsi nei vari continenti. Non solo, le petromonarchie arabo-islamiche, hanno circa 1.800 miliardi di dollari investiti negli Stati Uniti e in Europa dove si sono comprati prestigiosi club calcistici, quote di compagnie aeree, di banche o di case di moda e marchi di lusso. Un loro spostamento provocherebbe danni significativi (nel caso degli USA devastanti) sulle economie dei paesi occidentali.
Uno dei primissimi documenti di Osama Bin Laden (23 agosto 1996), ad esempio esplicitava l’appello a “riprendere tutto il petrolio nelle mani nell’Islam” ed a ritenere la presenza degli USA nel Golfo come “il più grande pericolo che minaccia le più grandi riserve di petrolio del mondo”. Per queste ragioni, i popoli sarebbero stati costretti alla Jihad armata contro gli occupanti.

Una parte di questa èlite ha anche realizzato una delle principali e più riuscite operazioni di omogeneizzazione culturale del mondo arabo-islamico dando vita al network televisivo Al Jazeera nell’emirato del Qatar. Al Jazeera (da alcuni anni sfidata dal network Al Arabja messo in piedi dall’Arabia Saudita) si è rivelato uno strumento di altissima qualità che per la prima volta ha mostrato alla popolazione arabo musulmana, e non solo, quanto avviene in tutto il Medio Oriente fino all’Asia Centrale, ridando – per la prima volta – identità e protagonismo ad un mondo vissuto dentro la totale subalternità coloniale e post coloniale. Il brusco passaggio di Al Jazeera nelle mani dei Fratelli Musulmani (sostenuti dal Qatar) e la concorrenza di Al Arabja hanno ridotto l’influenza di Al Jazeera ma non ne hanno certo eliminato l’esempio né la capacità.

Ma se una parte della nuova borghesia arabo-islamica ha scelto  la strada della modernizzazione per “vie pacifiche”, un’altra parte ha scelto di passare all’azione militare con un progetto politico ben preciso. Questa frazione si rifà in qualche modo alla rottura operata nell’islam politica dall’egiziano Sayyed Qutb (fatto fucilare da Nasser nel 1966) che possiamo definire come l’iniziatore dell’islam combattente e che teorizzò il ricorso alla lotta armata per prendere il potere spodestando i leader e i governi arabi “apostati”. La tesi di Qutb sulla necessità di un islam combattente fu in qualche modo confermata dal colpo di stato con cui in Algeria nel 1992 fu impedita la conquista del potere politico tramite le elezioni dell’islam politico, in qual caso espresso dal Fis (Fronte Islamico di Salvezza).

Questi settori della nascente borghesia arabo-islamica, ritengono di poter essere classe dirigente, hanno ingenti mezzi finanziari, controllano gran parte delle riserve petrolifere del mondo ma non ha alcun peso politico internazionale né sul teatro regionale del Medio Oriente. Ad opporsi a questa ambizione sono soprattutto gli Stati Uniti e la subalternità delle monarchie o  dei clan familiari al governo nel mondo arabo-islamico. 

Questa frazione della borghesia arabo-islamica, ha una sua visione della modernità ma la declina con una visione fondamentalista che in verità ha mutuato, nel suo esatto contrario e sulla base di una inevitabile reciprocità, da Samuel Huntington e del suo saggio sulla Guerra di Civiltà del 1993/1996. Huntington infatti scriveva: “La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legata alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”.

I neoncons statunitensi hanno provato a costruire una guerra su questa tesi, la stessa cosa sta facendo oggi Obama e l’amministrazione statunitense con la guerra dei volenterosi “contro l’orrore dell’Isis”. Ma entrambi hanno sottovalutato un “dettaglio” e cioè che la guerra di civiltà poteva e può essere anche bilaterale e non solo unilaterale, nel senso che anche il nemico ti fa la guerra. L’11 settembre negli Usa o gli attentati di Madrid e Londra hanno dimostrato che te la possono fare anche dentro casa. Dunque la guerra di civiltà può avere un carattere costituente anche per le ambizioni di potenza nel mondo arabo.

Questo blocco di potere arabo-islamico inoltre conosce bene l’Occidente. Lo ha frequentato, ci ha studiato, ci ha vissuto e in molti casi ci vive. Spesso ne conosce le leadership (vedi i rapporti tra il clan Bush e il clan Bin Laden) e ne conosce i punti deboli. Maneggia adeguatamente le comunicazioni di massa, oggi terreno fondamentale di ogni guerra globale. I video dell’Isis, per quanto allucinanti, confermano una regia sapiente e capace dietro la comunicazione di massa che diffondono.

Ma la nascita di una grande potenza arabo-islamica deve fare i conti con parecchi intoppi sulle sue ambizioni. Ad esempio l’atomica islamica al momento la detiene un paese non arabo come il Pakistan (con una operazione finanziata soprattutto dall’Arabia Saudita), forse ci sta andando vicino l’Iran (altro paese non arabo e per di più non sunnita ma sciita) e nella regione agiscono le ambizioni di un’altra potenza islamica ma non araba come la Turchia, oggi alleata con il Qatar e in aperta competizione con l’Arabia Saudita. La stessa sunna (la maggioranza della umma musulmana) appare divisa tra il network dei Fratelli Musulmani e quello wahabita-salafita. Con il secondo che ha agevolato, ad esempio, il colpo di stato militare in Egitto, si oppone al governo islamico in Tunisia, ha sostenuto i bombardamenti israeliani su Gaza per indebolire Hamas, contrasta il network avversario in Libia e, attraverso la sua longa manu dello Stato Islamico (Isis), entra spesso in conflitto con le altre tribù sunnite sia in Iraq che in Siria.

Dunque all’instabilità e alle guerre incentivate o pianificate dall’imperialismo statunitense in Medio Oriente, alle periodiche punizioni che Israele infligge contro i popoli e i paesi arabi, si somma una competizione interna all’islam politico che disegna e ridisegna continuamente le alleanze e le inimicizie ostacolando una centralizzazione degli interessi e degli obiettivi regionali e internazionali. Ma anche nel mondo arabo-islamico, come nel resto del mondo, il ricambio generazionale, il logoramento delle caste dominanti corrotte, e le maggiori opportunità, stanno creando le basi per un possibile polo geopolitico autonomo. Non è un caso che l’Isis abbia scelto come definizione di se stesso quello di Stato Islamico, l’idea di uno Stato è sicuramente una evoluzione rispetto a quella della “base” dalla quale era ispirata ad esempio Al Qaida.

In Medio Oriente un nuovo equilibrio nascerà, ma nascerà da un periodo di grande caos e di guerra che, al momento e purtroppo, non vede come protagonisti movimenti progressisti o rivoluzionari nel senso migliore del termine. Al contrario i cambiamenti hanno un segno tuttora reazionario. Le aspirazioni panarabiste, laiche e progressiste sono state demolite dall’alleanza tra imperialismo e petromonarchie e coperte ideologicamente dall’islam politico più reazionario. Le uniche certezze è che in ogni modo e con ogni mezzo dobbiamo sottrarci alla tentazione di arruolarsi nella mistificazione tutta imperialista della “guerra di civiltà” o delle guerre umanitarie che ne coprono gli orrori.

 

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