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Tsipras e il paradosso di Lassalle

Quando ho visto che in Italia montava l’enfasi per l’affermazione elettorale di Syriza e di Tsipras, non mi sono lasciato coinvolgere più di tanto. Il monito di Brecht: “parlino gli altri delle proprie vergogne, io parlo della mia”; mi imponeva di concentrare lo sguardo sulle miserie italiche. L’idea poi di andare a festeggiare in piazza la vittoria di un partito, sia pure finalmente socialista, per giunta di un altro Paese, addirittura con viaggi organizzati (simili ai “viaggi della speranza”); non mi è balenata neppure nell’anticamera del cervello. Intendiamoci, ho comunque visto e seguito, questa promessa di liberazione europea con attenzione, con simpatia; e non so a quale a titolo, persino con un timido accenno di partecipazione emotiva.

Non l’euforia che vedevo straripare intorno a me, evidentemente figlia della più cieca disperazione politica, ma qualcosa che mi permetteva comunque di comprendere anche quest’ultima. Il fatto è che sono di bocca buona. Ho sempre preferito il poco al nulla.

Non sto certo lì a sottilizzare, a fare “il vetero”, “il comunista ortodosso”,  “il duro e puro”; come sono subito pronti a chiamare chi ha un pensiero forte, i sostenitori di questo nuovo bagliore peloponnesiaco, prendendo in prestito tutto l’armamentario terminologico con il quale le destre hanno messo fuori moda il pensiero socialista catapultandoci di nuovo in epoca medioevale. Il fatto è che mi venivano in mente le parole di Marx nella lettera a Lassalle, nota come “Critica al programma di Gotha”; all’interno della quale il filosofo tedesco, dichiarava in modo inequivocabile la sua contrarietà netta all’idea riformista lassalliana di patteggiare le rivendicazioni del movimento operaio con il potere.

Già, perchè ogni volta che si percorre la via del riformismo rispetto alla prospettiva di un cambiamento dell’esistente, si finisce per cadere in quello che potremmo chiamare “il paradosso di Lassalle”; paradosso che Marx aveva ben compreso, mentre Tsipras e il suo prode Ministro dell’Economia Varoufakis per niente, a quanto pare.

Qual è questo paradosso? Quello di basare il proprio progetto di libertà, su richieste di concessioni al potere. Intendendo per potere, le istituzioni che incarnano proprio lo stato di cose che ci si ripromette di cambiare. Nel momento in cui colui che si fa interprete della trasformazione, vede come interlocutore alle sue istanze emancipatorie lo stesso potere che le ha tolte in precedenza e con quest’ultimo contratta pezzetti del suo percorso, il paradosso è in atto. Se il potere è intelligente concederà molto. Al limite anche tutto ciò che gli viene chiesto, perchè così avrà salvo il suo ruolo e a tempo debito (mai parola fu più pertinente), tornerà ad imporre i medesimi paradigmi di sopraffazione a chi oggi gli ha permesso di rimanere in piedi (proprio quando l’euforia generale e la misura colma sembravano in grado di farlo vacillare).

Si dice che la politica sia l’arte della mediazione, ma è una falsa credenza. La mediazione la si può incontrare lungo la strada, ma non può mai diventare il fine della politica. Perchè se il compromesso lo si cerca fin dall’inizio, diventerà il vero obiettivo e nessuna idea avrà mai il tempo di diventare adulta. La prospettiva verrà sostituita con il traguardo e ogni differenza ideologica sarà annullata, verrà messa da parte e sarà risucchiata dalle categorie statiche dell’esistente.

Mi diceva un amico, che in carcere, per chiedere un qualsivoglia permesso al direttore, è necessario compilare una richiesta; ma prima di poterla compilare, è necessario compilarne preventivamente un’altra, nella quale si dovrà chiedere al medesimo direttore “il permesso di potergli chiedere il permesso”. E’ così che funziona il potere. Costruisce la sua forza nella distanza. Si innalza nella misura in cui chi gli è subalterno, è costretto a riconoscerlo come tale.

Le parole d’ordine di Tsipras, mi sono sembrate da subito minimali. In fin dei conti cosa chiedeva? La libertà per il popolo greco dal giogo economico della Troika. Un giogo che stringe al collo i greci e al tempo stesso tutti i popoli europei. Insomma gridava a gran voce, infiammando i provati cuori degli sfruttati di tutto il continente, che questo triumvirato fuori tempo massimo non può e non deve essere padrone delle vite di interi popoli!

Ma, voglio dire, mi pare il minimo! Non si va lontano, se questo che dovrebbe essere un presupposto diventa una rivendicazione! Davvero sono ridotti così male i popoli del vecchio continente e così ridotte al lumicino le loro prospettive emancipatorie? A tal punto che basta sentir gridare in un Paese vicino “non vogliamo essere schiavi” per far balzare tutti sulla sedia e andare di corsa a prendere il treno della speranza? Ma la schiavitù non era stata abolita nel 1865? Non dovrebbe piuttosto essere maturo il tempo di prospettare un nuovo modello di civiltà? E da dove la cominciamo questa nuova civiltà che tanta speme accende nei cuori degli oppressi? Dalla richiesta di un prestito? Dunque a questo si riduce il sol dell’avvenire? A una contrattazione bancaria e fermati lì?

Mi si dirà, un conto è argomentare, altra cosa è il pragmatismo politico. D’accordo, ma anche dal punto di vista della prassi, si era partiti con “noi je dimo, noi je famo, mio caro oste noi nun te pagamo”. Si era adombrata persino l’ipotesi di farsi pagare dalla Germania, che è il tenore di questa nenia stonata del triumvirato, i danni della seconda guerra mondiale e poi tutto si risolve con un nuovo prestito? Aveva colpito l’immaginario di molti e soprattutto di molte, il gagliardo Varoufakis, l’uomo deciso e diversamente economista che andava sparato, in moto e a muso duro, contro i banchieri d’Europa; ma, in definitiva, cosa andava a fare? A chiedere un mutuo? Dunque questo andava ad “imporre” ai banchieri? La richiesta di nuovi denari in prestito? Ancora? Da aggiungere alle cambiali inevase? Buffi da aggiungere a buffi per gentile concessione dello strozzino? Un po’ poco per far palpitare i cuori di chi vorrebbe voltare pagina.

D’accordo che la disperazione ci fa tutti schiavi dei miraggi, ma credo che l’idea di trasformare l’esistente debba passare per una progettualità molto più grande. Per idee forti e alternative sull’economia, per nuove politiche, una nuova idea di mondo basata finalmente sulla condivisione anziché sulla competizione. Chi si è innamorato di Tsipras e in particolare di Varoufakis, secondo me, si è innamorato dell’ultimo disperato tentativo di credere ancora nel potere e in questo modello economico. Un potere e un modello che finalmente si redimono e cambiano verso. Ma la storia d’amore dei popoli occidentali con il potere e il fascino della compra-vendita, è una storia finita. Una storia sbagliata, come direbbero De André e Bubola. Qualsiasi nuova prospettiva emancipatoria non può nascere nei cocci di questo consunto paradigma. La salvezza è altrove. Ovunque meno che nelle sedi di quelle banche e di quelle istituzioni, che troppo male hanno fatto a interi popoli e per troppo tempo.

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1 Commento


  • tiberio Bagnarol

    perchè non fa presente questo suo commento a Bellofiore o ad Halevi le cui interviste sono presenti nel vostro sito, i quali mi sembra che dicano che non biosgna uscire dall’euro ma trovare le condizioni per la socializzazione degli investimenti e dell’occupazione, fare un piano del lavoro come lo fece Di Vittorio; se poi, aspettando che queste cose soi concretizzino la gente muore di fame o perde ogni ragione di vita, allora quello è un dettaglio insignificante , il prezzo da pagare per uscire da questo sistema economico; ma poi, perchè le analisi sullo stato della politica economica vengono sempre eseguite da chi il 27 riscuote lo stipendio e non sa che cosa significa sbarcare il lunario? Insomma più realismo, più concretezza nelle analisi, abbiamo bisogno di soluzioni tecniche immediate che tamponino l’esistente, dopo penseremo al libro dei sogni

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