Un anno fa l’economista francese Thomas Piketty sviluppò, attraverso il suo ponderoso saggio “Il Capitale del XXI secolo”, una forte denuncia dell’impoverimento delle classi più deboli costrette ad arretrare sotto la pressione della deindustrializzazione, dei processi di automazione, della globalizzazione, individuando nell’allargamento delle diseguaglianze il nodo vero delle difficoltà che l’economia sta incontrando a livello mondiale.
Oggi tocca a Robert Putnam, celebre politologo di Harvard padre del concetto di “capitale sociale”, cimentarsi con il suo nuovo saggio “Our Kids” con l’impatto sociale di quest’allargamento a dismisura delle diseguaglianze economiche.
La formula di fondo che il testo contiene è assolutamente chiara: redditi troppo bassi non significano soltanto un tenore di vita più modesto, sopra o sotto la soglia di povertà.
Le forti diseguaglianze producono anche disgregazione sociale, istruzione inadeguata, solitudine dei giovani che non vengono seguiti adeguatamente né aiutati a fare le scelte giuste.
Secondo Putnam: una degenerazione del tessuto sociale che si è manifestata gradualmente fino ad assumere i caratteri di una vera e propria emergenza.
Un pericolo da affrontare subito, secondo l’autore, che vale quello del “climate change”, dei mutamenti climatici e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente.
Il limite vero dell’analisi di Putnam (come del resto di quella di Piketty) sta nelle conclusioni che si limitano a reclamare più investimenti sociali nella cura dell’infanzia, una riforma della giustizia criminale, scuole migliori, azioni necessarie per favorire un aumento dei redditi minimi.
Soprattutto, però, la parte propositiva del saggio di Putnam appare carente soprattutto nell’individuare quel “darwinismo sociale” che è stato alla base delle teorie socio-economiche del “reaganian-tachterismo” provocando l’eccessiva polarizzazione della distribuzione dei redditi e il conseguente impoverimento di gran parte della società.
Politologi ed economisti di grande fama individuano, quindi, il nocciolo del problema ma mancano di coraggio nell’indicare le soluzioni possibili.
Soluzioni possibili che possono avere un solo punto di partenza: quello della ricerca dell’eguaglianza, non tanto e non solo quello della riduzione della diseguaglianza.
Il punto non è certo quello assunto da “conservatori illuminati” come David Brooks che prende spunto dal testo di Putnam per spostare la discussione sulla “rinascita del ceto medio” attraverso una forte iniezione di nuovo liberismo, fondato sulla defiscalizzazione dei consumi per favorire il recupero di un’organizzazione sociale fondata sulla famiglia, capace di far progredire i figli.
Al contrario: il tema della ricerca dell’eguaglianza non può che essere quello del recupero del concetto di contraddizione di classe e di lotta senza quartiere alla gestione capitalista del ciclo.
Questo va affermato anche nei confronti di chi si ferma a un generico “antiliberismo”.
La questione è quella di un diverso assetto sociale complessivo, di un’alternativa nella gestione del potere, di una trasformazione radicale degli equilibri.
Soprattutto appare prioritario il recupero di un’idea della politica e della capacità di esprimere rappresentanza dei settori maggiormente colpiti dal combinato disposto tra crescita delle diseguaglianze e deprivazione del capitale sociale.
Non può che essere l’analisi politica e l’esercizio del suo agire portando l’intreccio delle elaborazioni di Piketty e Putnam alle sue conseguenze logiche: quelle di una proposta di rappresentanza e di organizzazione non limitata agli elementi marginali della crisi profonda di questa società, ma al suo cuore.
Un cuore di sopraffazione sociale e d’impoverimento generale verso cui deve ancora valere il vecchio motto “Ribellarsi è giusto”.
In tutto il mondo, a dimostrazione che l’antico concetto di internazionalismo è ancora ben vivo.
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