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Caro Erri, la resistenza e la lotta per i propri diritti valgono ovunque. In Val Susa come in Palestina

Quelle che Erri De Luca ha pronunciato lunedì, durante l’incontro dibattito su “Il Diritto al dissenso”, organizzato, a Napoli, dai movimenti sociali, nella sede di Mezzocannone Occupato, sono state parole dure. 

Parole contrarie ad un sistema che tende, sempre più, a criminalizzare e a reprimere il dissenso, in maniera anche violenta. Parole dure contro la TAV, come sempre d’altronde –ricordiamo che lo scrittore napoletano è stato rinviato a giudizio per istigazione a delinquere, sulla base di una fattispecie giuridica, risalente al Codice Rocco, di origine fascista, per aver espresso, in un’intervista, semplicemente la sua libera opinione contro l’Alta Velocità- e parole a sostegno  del popolo della Val di Susa che, quell’opera, inutile e dannosa, voluta per soddisfare gli interessi e le speculazioni del capitale finanziario, contesta e sabota.  Parole, ancor più dure, De Luca le ha pronunciate, poi, contro chi sta uccidendo la Terra dei Fuochi, contro le discariche e gli inceneritori, che trovano la saldatura del business camorristico-imprenditoriale; ma si è espresso, ovviamente, a favore dei comitati di lotta, che quella battaglia per la “Libera Repubblica di Chiaiano”, come egli stesso la definì,  stanno affrontando quotidianamente e con enormi sacrifici, anche in termini di vite umane, uccise dall’aumento vertiginoso delle patologie oncologiche.  

Erri De Luca, come è noto, è un intellettuale scomodo e, da sempre, fuori dal belante coro che costituisce, in questi anni complessi, la cultura di regime, nel nostro paese e non solo. Un regime, quello neoliberista, incentrato sul dominio della finanza e del mercato, capace, da una parte, sempre più di omologare e, dall’altra, di emarginare, con sempre meno senso della democrazia, il pensiero critico. Un intellettuale che ha sempre rivendicato, con orgoglio, la sua matrice comunista e la sua militanza “rivoluzionaria”, in un movimento come Lotta Continua e che, pertanto, ritiene giusto sostenere le battaglie di chi oppone la propria resistenza, fatta di intelligenze e di corpi, contro un potere economico, politico, statale che, nel nome del profitto, commette soprusi, umilia diritti e schiaccia vite. Lo stesso Potere che, poi, fa della legalità –parola ambigua e dalle chiare implicazioni fascistoidi- l’arma in più per reprimere, attraverso la magistratura, chi contro di esso e, in molti casi, per la propria sopravvivenza, agisce e si ribella. Un passaggio dell’intervento di De Luca, chiarisce e sintetizza quanto stiamo dicendo: «Lo Stato non è un entità che eroga servizi in base al maggiore o minore potere d’acquisto delle persone, ma è il luogo dei diritti; noi non siamo sudditi di un sovrano statuale, ma cittadini. E quando questi diritti, come in Val di Susa o nella Terra dei Fuochi, vengono violati o compressi, nel nome del profitto, allora la Resistenza diventa un dovere».

Proprio per questo, dunque -per la sua storia e per la nettezza delle sue posizioni intellettuali e politiche- facciamo fatica a comprendere perché, una volta lasciata la parola al pubblico, che poteva porgli domande, De Luca, ad un giovane che gli chiedeva di chiarire la sua posizione, circa il conflitto Israelo-Palestinese, abbia deciso di glissare, rivolgendo, a chi quella delicata domanda aveva formulato, una lapidaria e stizzita risposta: “Non posso occuparmi di tutte le cose brutte del mondo”. Benché, poi, ad una successiva domanda, sempre sulla medesima questione ma inerente il muro fatto costruire da Israele, che circonda la Striscia di Gaza, lo scrittore abbia dichiarato: “I muri vanno abbattuti”. Ma perché queste domande a De Luca, intellettuale comunista, difensore delle libertà e sempre in prima linea contro qualunque forma di oppressione, in ogni sua declinazione? 

A questo punto, occorre fare un passo indietro. Nel 2006, Enzo Apicella, vignettista del defunto giornale “Liberazione”, organo del PRC, usciva con una vignetta sicuramente discutibile –ma qual è il limite della satira? Il brutale ed assurdo assassinio dei compagni di Charlie Ebdo ci interroga ancora, in tal senso. E noi siamo per la totale libertà di satira- in cui rappresentava il Muro, che divide Israele dalla Striscia, con su la scritta “La fame rende liberi”, praticamente riproducendo quella che si trovava all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz e che recitava “Arbeit macht frei”. Erri De Luca, allora, prese la penna e rispose, sdegnato, con un pezzo sul Manifesto, ad Apicella e a quanti, quella vignetta, evidentemente sostenevano. Scriveva De Luca: «Non cuocerai l’agnello nel latte di sua madre, è scritto nel libro sacro. Non trasformerai la madre della vittima in complice del macellaio di suo figlio. Accusare Israele di affamare la Palestina usando la scritta nazista del campo di sterminio di Auschwitz è cuocere l’agnello nel latte della madre. Non si può prendere la sigla del peggior crimine dell’umanità e rivoltarlo contro i discendenti delle vittime. Ma è stato fatto, per leggerezza o per insulto. Fame è una parola gigantesca, la riduzione al gradino più basso della dignità umana. La chiusura intermittente dei varchi di Eretz Israel non è fame. Dopo l’attentato di Tel Aviv sono rimasti serrati per ventiquattr’ore. Le migliaia di operai palestinesi che non lavorano più in Israele non è fame. Un muro che separa, fa male ma non è fame. Le serre degli insediamenti ebraici smantellati a Gaza sono state distrutte dalla proprietà palestinese reintegrata nei suoi territori. Non è mossa di fame. 

La legittima elezione di Hamas al governo della Palestina ha delle conseguenze internazionali come il taglio dei fondi di paesi esteri ma non è assedio, non è Sarajevo. La fame annunciata dalla vignetta su «Liberazione» di qualche giorno fa niente ha a che vedere con «Arbeit macht frei» all’ingresso di Auschwitz. Da lì passarono i condannati allo sterminio. Il copyright su quella scritta appartiene ai nazisti. Nessuno può staccarlo dal luogo capitale dell’infamia e appiccicarlo per polemica sull’uscio di qualcuno, tanto meno l’uscio di Israele. E’ triste quando l’intelligenza e la compassione di persone vicine si inceppano e procurano un torto anziché un sollievo. Quel luogo è un nervo scoperto della storia da migliaia di anni. Tre monoteismi, tre fedi esclusive hanno i loro santuari gomito a gomito. E’ un punto della geografia da trattare con la cautela dell’artificiere che manovra per disinnescare la carica, non per accenderla».

Ora, premesso che la libertà di satira è assoluta e che, altrettanto legittimo sia criticarla, la satira, con la sovrana espressione del proprio pensiero, senza proporne limitazioni o, peggio, censure, vanno fatte alcune considerazioni di merito. Se si può capire un sussulto di indignazione per un parallelismo, certo poco felice, tra il nazismo, che uccise sei milioni di ebrei e la politica imperialistica di invasione e oppressione –fatta, in nome del nazionalismo Sionista, in violazione del diritto internazionale e con bombardamenti, azioni di guerra criminali e repressione fascistoide- condotta dallo stato israeliano, che gli eredi di quegli ebrei accoglie, non si comprende, certo, come De Luca possa non cogliere il filo rosso che lega la battaglia per il diritto alla terra e alla sopravvivenza, in Val di Susa, e quella del martoriato popolo palestinese, che combatte per le stesse ragioni. 

Lo scrittore e poeta napoletano ha più volte dichiarato, infatti, parlando della lotta del movimento No Tav e rinnovando l’affermazione anche durante l’incontro a Mezzocannone Occupato, che: «Più di 20 anni di resistenza civile, di democrazia di massa dal basso contro un’opera inutile e dannosa imposta con la forza è un esempio di democrazia civile…quando si tratta della difesa della propria vita e dei propri figli qualunque forma di lotta è ammessa». Beh, se questo è vero per la Val di Susa, è ancor più vero per la popolazione della striscia di Gaza, dove l’esercito, i carri, le bombe e i droni israeliani radono al suolo case, affamano e uccidono civili.

Mi si perdoni, a questo punto, una digressione personale. Io, comunista, mai ho affiancato e mai affiancherei la bandiera con la stella di David alla bandiera nazista con la svastica, per quanto sia antisionista e condanni l’occupazione criminale di Israele dei territori palestinesi, con le migliaia di morti che essa produce. E non lo farei, perché ritengo che il valore intrinseco dell’universo simbolico è di fondamentale importanza, se vogliamo continuare a comprendere la realtà, la storia, la politica, la civiltà e noi stessi, in ogni loro ed in ogni nostra sfaccettatura. Si ragiona, insomma, per differenze, mai per assimilazioni! Dunque, benché ritenga che Apicella, su Liberazione, intendesse ridestare la memoria e la coscienza di Israele, sull’Olocausto subito dai suoi figli, nella speranza,  ahimé vana, che Israele, in ragione di quel ricordo, possa, una buona volta, disoccupare la terra palestinese,  posso anche capire, come dicevo prima, l’irritazione di De Luca per quella vignetta. Quello che non comprendo, invece, è il resto dell’articolo. 

Come può dire, Erri De Luca, che quella che subiscono i palestinesi non è fame? E perché, a distanza di anni, non chiarisce il suo pensiero su quel conflitto, origine di tante guerre in Medio Oriente? I diritti, la resistenza all’oppressione e all’ingiustizia, la violenza di un sistema, variano, forse, a seconda delle latitudini e delle condizioni geopolitiche? La risposta di Itzhak Laor, scrittore israeliano, a quell’articolo vergato da Erri De Luca, fu, all’epoca, piuttosto esemplificativa: «Se si traducesse l’articolo uscito martedì scorso sul manifesto di Erri De Luca in ebraico e lo si facesse leggere a qualunque israeliano, questi lo identificherebbe senza dubbio come un testo tipico di un membro del Likud».

«Siate sempre capaci di sentire, nel più profondo, qualsiasi ingiustizia commessa, contro chiunque, in qualunque parte del mondo», diceva Che Guevara. Non a seconda dei casi. Inoltre, quello che proprio non si comprende, è come possa De Luca, recandosi in un centro sociale e proponendosi ad una platea di cui si conosce, inevitabilmente, il pensiero su quella questione, evadere, con un atteggiamento anche poco conciliante, una domanda che era giusto presupporre che gli sarebbe stata rivolta. Se si è comunisti, e a maggior ragione uno scrittore ed un poeta, ci si dichiara fuori dalle logiche del sistema e del potere, si appoggiano lotte che quello stesso sistema e quello stesso potere combattono e vorrebbero abbattere e ci si pone, bon gré mal gré, come un  faro intellettuale del movimento antagonista, allora poi non si possono eludere domande importanti su questioni delicatissime. Per di più, facendosi scudo proprio di quella notorietà raggiunta, anche grazie al sistema mediatico. Appare come un’evidente contraddizione.

Rispettiamo De Luca e siamo con lui quando lotta a fianco del movimento No Tav e dei comitati per la Terra dei Fuochi e lo sosteniamo quando subisce processi assurdi e dichiaratamente tesi a tacitarne la voce. Riteniamo, però, di poterlo e doverlo criticare quando, come in questo caso, dal nostro punto di vista s’intende, assume posizioni ambigue. D’altronde, anche Pasolini fu criticato per il suo famoso “Il PCI ai giovani”, in cui, all’indomani degli scontri di Valle Giulia, prese le parti della Polizia. Il diritto al dissenso, ce lo insegna proprio De Luca, è inalienabile. E allora, sentiamo, in fine, proprio chi, quel diritto a dissentire con lo scrittore napoletano, lo esprime con forza. Rosa Schiano, reporter e attivista per i diritti del popolo palestinese, dice: «L’assedio nella strisci di Gaza uccide. E questo è incontestabile e viene riportato anche dai rapporti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. E dato che esiste un’occupazione militare, riconosciuta dalla comunità internazionale, mi chiedo come possa non riconoscerla uno scrittore come Erri De Luca e non porsi a difesa del popolo palestinese. Un popolo oppresso come tanti altri». 

Vincenzo Morvillo – attivista napoletano

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