Finalmente è il 1° maggio, probabilmente il più atteso degli ultimi anni.
Atteso ovviamente da tutti quei lavoratori che ancora, seppur sempre più confusamente e certamente non aiutati dal senso comune diffuso dai media di regime, vi riconoscono un certo qual senso di appartenenza storica e culturale da non buttare totalmente alle ortiche passando la giornata al centro commerciale.
Un 1° maggio però molto particolare quello di quest’anno, una data che passerà nei manuali di semiotica come quel giorno in cui, nella festa del lavoro, si riuscì a inaugurare l’esposizione del non-lavoro e del lavoro non pagato. Per tale ragione questo 1° maggio è molto atteso. Atteso dal governo e da Matteo Renzi, dal Pd e da Ezio Mauro, da Giuseppe Sala e da Raffaele Cantone, da McDonald’s e da Monsanto, dai sindacati complici e da ManPower, da Sergio Mattarella e da Jorge Mario Bergoglio (ebbene sì, anche il Papa ha pienamente aderito alla mistificazione falsa, ipocrita e caricaturale di un Expo votato a risolvere il problema della fame nel mondo, offrendo al Grande Evento Truffa l’ultima copertura ideologica di cui aveva bisogno). Un 1° maggio atteso quindi, per motivazioni opposte e contrarie, anche dai movimenti territoriali nazionali e internazionali, dal precariato più combattivo, dagli studenti non lobotomizzati, dai sindacati conflittuali, da chi anima le lotte per l’abitare e nella logistica, da chi non ha ceduto il proprio senso critico di fronte alla martellante propaganda targata Expo 2015.
Possiamo ormai dire che sono state centinaia e centinaia le righe sottoscritte da tantissime realtà antagoniste per documentare ciò che è stato veramente il percorso di Expo, tra concessioni edilizie alquanto dubbie, scandali e lievitazione dei costi, pagine stese per dire che il lavoro gratuito che sarà offerto da circa 20 mila giovani e meno giovani è un’infame vergogna, per ribadire tutti i no a un evento che contiene sensibilmente tutti i sintomi di un modello di riproduzione sociale sempre più malsano. Tutto è già stato detto. Ora tocca a tutti il compito di valorizzarne le intuizioni migliori per disegnare una cornice comprensibile, entro la quale connettere i diversi punti fino a riconoscere le forme e le qualità del nemico che si nasconde dietro una cortina di fumo, e a partire dalla quale desumere un piano d’azione minimo che vada oltre ai pur giusti momenti di contestazione contro l’evento in sé. Quello che abbiamo a cuore di ricordare in queste poche righe sono quindi i nodi delle contraddizioni più alte desumibili intorno al fenomeno Expo, coerenti con un approccio al quale cerchiamo di essere sempre fedeli, senza il quale pensiamo non sia possibile tracciare un’agenda politica che esuli dalla ripetizione di ritualità asfittiche. Dallo scenario generale emerge infatti come dato politico, da qualunque angolazione si cerchi di guardare la faccenda, che l’unico soggetto in grado di dettare la temporalità resta comunque il nostro avversario, l’unico effettivamente dotato di una visione omogenea e della capacità quindi di muoversi coordinatamente e in maniera coesa.
Innanzitutto crediamo che non si insisterà mai abbastanza a richiamare, come pure alcuni compagni hanno già fatto, la natura di classe di questo evento e delle contraddizioni che apre, anche in seno a quel soggetto sociale con cui più ci interessa interloquire, ovvero il mondo giovanile. Non ci muove in tal senso l’amore per i formalismi lessicali, mentre crediamo al contrario che non sia solo la “spirale del silenzio”, come intesa da Noelle-Neumann, ad allontanare tanta parte del “movimento” da questa specificazione. Vi è in esso piuttosto una cosciente adesione a quel modo di leggere l’attuale scontro di interessi nelle società occidentali come lotta del 99 contro l’1%: pensiamo invece che il fenomeno Expo, e l’enorme consenso creato intorno a sé in tutti i territori, non potrebbe mostrare meglio la trama di interessi materiali e ideologici intrecciabili nella “sezione alta” della fù classe media. Quegli stessi interessi che mostrano una spaccattura intra-generazionale quando analizziamo il fenomeno della fuga dei cervelli (tra chi coglie la mobilità internazionale come un’opportunità e chi come l’ultima flebile speranza) o della creazione di un doppio binario di poli universitari (divisi tra poche eccellenze e tanti parcheggi). Allo stesso modo, guardando da vicino le poche settimane di contratto a titolo gratuito firmate da una forza lavoro iper-flessibilizzata per i sei mesi di Milano, non dobbiamo farci portavoce del generico (e materialmente inesistente) mondo giovanile, ma dobbiamo saper distinguere le differenze al suo interno. Vi sono i pochi fortunati figli di papà per cui l’Expo può risultare la simpatica (per noi grottesca) occasione per partecipare a un’attività da aggiungere al curriculum, in un’economia basata sempre più sull’eccellenza e la competitività dei proprio portfolo esperienzalo (e quale occasione migliore di una tanto conclamata esposizione universale?). Mentre a noi tocca parlare ai tanti e tante per cui l’Expo è un inferno che diventa realtà, è la sottomissione a un sistema di sfruttamento che con il ricatto di chiedere sempre una goccia di sangue in più ottiene il risultato di non dover dare mai indietro nulla. Distinguere il dissimile per unire il simile: se non sarà chi anima le lotte a tentare questo passaggio, continuiamo a perdere l’occasione per assolvere a un compito basilare.
Se l’evento ha una natura di classe, sotto anche altri punti di vista oltre a quelli appena evidenziati, non si può evitare di far riferimento al modello di produzione capitalistico che genera e perpetra questa divisione tra classi. E non si possono perciò non riconoscere le caratteristiche del capitalismo con cui ci troviamo di fronte, ben sintetizzate dentro Expo: mentre l’Italia è passata da un’Esposizione Universale tenutasi nel 1906 e incentrata sull’esaltazione della grande industria, l’Expo 2015 ci ricorda che la divisione internazionale del lavoro assegna oggi al Sud del Mediterraneo la possibilità di accaparrarsi uno spazio nella competizione globale giocata nella cornice imposta dalle istituzioni comunitarie solo se saprà specializzarsi nella produzione di merci a basso valore aggiunto, da esportare, e per i quali è strutturalmente necessario un contorno di vasta manodopera dei servizi sempre più precaria e non particolarmente istruita, aldilà dei pochi destinati a rafforzare le fila dei “possessori di know-how avanzato”. E Un capitalismo che quindi, lo abbiamo detto più volte, sta sistematizzando la sua crisi in via tendenziale, e adegua anche sulla vita urbana le politiche neoliberiste, le modalità con cui la schiavitù del debito immobiliare ha paralizzato il ceto medio, le classi povere e le minoranze, il progressivo restringimento dello spazio pubblico per la cittadinanza a vantaggio delle cattedrali del business. Lavoratori, pendolari, abitanti delle periferie e dei quartieri dormitorio milanesi ne sanno qualcosa.
Proprio guardando alle politiche urbanistiche piombate su Milano parallelamente alla promozione e preparazione di Expo, l’occhio cade implacabile su un sindaco che ha offerto il fianco ed entrambe le mani per la messa a valore della metropoli da lui amministrata, rendendosi complice della regressività della nuova distribuzione degli spazi cittadino. Mani che si sono chiuse come pugni quando si è trattato di dover adeguare l’incisività e la rapidità di scelte non mediabili, affinché il progetto marciasse spedito, al punto da giustificare e rivendicare momenti come la chiusura dell’Università Statale a gennaio, impedendo il legittimo confronto tra gli attivisti No Expo presentatisi in città per la prima assemblea nazionale dell’anno. Una normalizzazione, quella voluta e cercata per una Milano che da oggi deve essere vetrina internazionale, materializzatasi anche nei tanti e violenti sgomberi portati avanti dall’estate a oggi, si trattasse di centri aggregativi o spazi sottratti alla polvere da chi non ha un tetto. La rendita immobiliare ha ringraziato.
Riconoscere Pisapia come soggetto politicamente attivo nella promozione e nello sviluppo della kermesse internazionale, ci aiuterà forse tutti a fare un ulteriore passo avanti e scovare i sindacati complici come altro corpo intermedio prestatosi appieno a rendere possibile lo scempio normativo da loro sottoscritto nel luglio 2013, l’architrave su cui si basa l’attuale istituzionalizzazione del lavoro a titolo gratuito, meschinamente equiparato al lavoro volontario. Solo riconoscendo la materialità dei ruoli giocati dai vari attori in campo sarà allora possibile svelare la reale funzione di costoro nello scenario politico. Ovvero: la cosiddetta “rivoluzione arancione” milanese non è stata altro che il paravento per l’occupazione di uno spazio politico coperto a livello nazionale da un Pd che su Milano non gode storicamente dell’agibilità soggettiva tale da potersi garantire la sedimentazione realizzata altrove; Cgil, Cisl e Uil dimostrano una volta in più, se ancora ce ne fosse bisogno, di essere cuscinetti chiamati a farci andare giù anche la più amara delle pillole, e ad ammortizzare e dirigere su un binario morto qualunque malumore o manifestazione di dissenso sociale. Do you remember il 12 dicembre? Forse anche tra i compagni bisognerebbe che ci si interrogasse sulla materialità del proprio ruolo nell’arena politica, invito che rivolgiamo particolarmente a quelle realtà promotrici di narrazioni afferenti ad esempio al mondo della green economy o a quel terzo settore che qualcuno chiama già “Comune”, ma che il Pd sta regolamentando a suo modo col Civil Act.
L’assenza di un’ipotesi di cambiamento profondo e immediato preclude un’attività puramente politica con una buona parte del segmento giovanile dal quale è necessario ripartire. Una volta di più allora risulta imperativo cogliere la possibilità di muoversi in sinergia con gli attori più incisivi oggi sul piano della resistenza e della conflittualità dal basso, anche approfondendo ulteriormente quei percorsi di confederalità sociale sperimentati finora. Percorsi che fanno perno sulla centralità del lavoro vivo, sebbene adeguati alla ristrutturazione ormai compiuta di un mondo del lavoro caratterizzato da una scomposizione soggettiva e spaziale così come l’abbiamo descritta più sopra. Un’idea che deve aver sfiorato Landini quando è maturata in lui la formulazione di una proposta di coalizione sociale, ma che deve essere ben presto sfuggita dalla sua mente mentre invece si realizzava il meccanismo già visto dell’assembramento di soggetti non credibili a causa dello scarso coraggio politico e della strutturale compromissione con tutti i protagonisti che ci hanno portato nell’attuale stato di crisi.
Inoltre, crediamo che negli spazi politici che si potrà e dovrà continuare ad aprire nel mondo giovanile, potrebbe subentrare in seconda battuta una figura di natura sindacale per portare avanti campagne più puramente rivendicative. Significa questo concentrare invece i nostri sforzi sulla costruzione di immaginario, sul senso di appartenenza a una comunità di destino, sulla delineazione di un futuro alternativo, sullo smarcamento da parole d’ordine che se non saranno prodotte nell’autonomia politica del conflitto sociale, continueranno funestamente a riprendere il sentimento anti-casta partorito da sensibilità politiche con cui pensiamo si possa ragionare su tattiche comuni, ma dalle quali non abbiamo certo da apprendere una visione del mondo.
Sebbene sentiamo la terribile assenza di una soggettività politica capace di rilanciare questi temi e saperli generalizzare e intrecciare con molto altro, è in base a tutti questi ragionamenti che intanto, partendo da Expo e da Milano come già fatto dal nostro nodo bolognese nel progetto comune “Io non lavoro gratis” e a Torino dentro la locale rete “Attitudine No Expo”, tentiamo di portare avanti la nostra battaglia politica. Lo facciamo al fianco delle realtà che come noi hanno individuato nel sindacalismo di base, conflittuale e di classe, in Usb, nel Forum Diritti-Lavoro e tanti altri, un punto di partenza irrinunciabile col quale tentare di costruire percorsi che, come abbiamo tentato di dimostrare, la contrapposizione a Expo rende necessari se vogliamo che siano realmente incisivi.
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