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Il business elettorale e la democrazia oligarchica

I costi iperbolici delle campagne elettorali americane, da tempo oggetto di studio dei politologi, hanno contribuito, assieme alle analisi dei processi di mediatizzazione e personalizzazione della politica, al successo del concetto di postdemocrazia. Non a caso, gli attivisti di Occupy Wall Street hanno richiamato l’attenzione su un dato che dimostra come la democrazia Usa si sia di fatto trasformata in una oligarchia fondata sul censo: più della metà degli eletti al Senato e alla Camera dei Rappresentanti appartengono alla casta dei super ricchi. Fin qui nulla di nuovo. A colpire è invece il tono di assoluta normalità con cui i media americani parlano del fenomeno, dando per scontato che la campagna per ottenere la nomination come candidati alle elezioni presidenziali del 2016, tanto nel campo democratico quanto in quello repubblicano, si presenti in primo luogo come una competizione fra “modelli di business”, vale a dire una competizione che mette a confronto la “produttività” di macchine elettorali che adottano differenti strutture organizzative, sistemi di finanziamento e stili di marketing e comunicazione pubblicitaria, esattamente come se fossero imprese concorrenti.

Particolarmente significativo, in tal senso, un recente articolo del New York Times Hillary Clinton Bets on Future With Spending Spree to Build Campaign Infrastructure che prende avvio dalla strategia adottata da Hillary Clinton per ottenere un soverchiante vantaggio finanziario e organizzativo sia nei confronti dei competitor alla nomination democratica, sia, in caso di vittoria, nei confronti dei rivali repubblicani nella corsa alla Casa Bianca. Il giornale ne descrive (non senza compiacimento: non è un mistero che il NYT “tifi” per la Clinton) il poderoso “investimento” (il ricorso al linguaggio aziendalistico non è casuale) per costruire un apparato organizzativo (esperti in comunicazione, analisti di dati, un vero e proprio esercito di “galoppini” per battere il territorio, ecc.) in grado di sbaragliare la concorrenza del “socialista” Bernie Sanders (l’unico in grado di crearle qualche problema nella corsa alla nomination democratica).

Questo sforzo organizzativo è il frutto della lezione appresa dalla sconfitta subita da Obama nel 2008: i soldi raccolti dalle lobby (campo in cui la Clinton, grazie ai buoni rapporti con Wall Street, è imbattibile) potrebbero non bastare, perché Sanders (come era successo con Obama) sta raccogliendo notevoli risorse attraverso una miriade di piccole donazioni da parte dei cittadini meno ricchi che approvano il suo impegno nella lotta alle disuguaglianze. Ma questo non dovrebbe bastare – almeno sulla carta – a controbilanciare un apparato dieci volte più potente.

L’articolo sottolinea inoltre come anche il super conservatore Donald Trump, al pari di Sanders, stia sfidando gli altri candidati repubblicani con uno staff assai ridotto rispetto a quelli della concorrenza (il che non gli impedisce di sovrastarli nei sondaggi). La differenza è che Trump, al contrario di Sanders, fa parte dell’élite dei super ricchi, ma ciò che interessa (e inquieta) il NYT, è piuttosto quello che accomuna i due: Sanders da sinistra e Trump da destra rappresentano infatti due alternative “populiste” al modello oligarchico/aziendalista che ha preso il posto della democrazia rappresentativa; due alternative che – sia pure per ragioni opposte – potrebbero mettere in crisi gli equilibri del sistema, nel caso una delle due riuscisse a trionfare,

Vale la pena di chiedersi se da noi le cose siano così diverse. Certamente la cultura politica americana, contrariamente a quella europea, era da tempo predisposta a un’evoluzione del genere. Basti pensare a quanto scriveva Max Weber un secolo fa, dopo un viaggio in America: il grande sociologo tedesco dopo avere chiesto a un amico se non fosse turbato da un sistema politico che imponeva a chi voleva farsi eleggere di investire soldi di tasca propria, con il rischio che costui sfruttasse la carica ottenuta per “rientrare” delle spese, si era sentito rispondere: voi europei eleggete dei burocrati di mestiere che poi dovete mantenere a vita, noi rischiamo di eleggere dei ladri, ma poi li possiamo cacciare.

Nelle odierne nazioni europee esistono ancora vestigia di una democrazia rappresentativa che sembrerebbero scongiurare i rischi di avvento d’una oligarchia di censo, in compenso i burocrati/oligarchi di Bruxelles hanno svuotato quelle vestigia di ogni potere e ci governano con la stessa logica dell’oligarchia di censo americana. Ma soprattutto sia là che qui, a preoccupare e inquietare il potere politico, economico e mediatico è la possibilità che i nuovi equilibri postdemocratici possano essere turbati da irruzioni “populiste”.

da http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/

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