“Ci accingiamo a condurre una guerra che sarà spietata”. Dal discorso in diretta tv alla nazione del presidente francese Hollande, tarda serata di ieri.
Parigi, se guardiamo agli ultimi trent’anni, è già stata colpita da diverse tipologie di attacchi. Nel 1986, ad esempio c’è una serie di attentati (bombe che colpiscono negozi di lusso e magazzini popolari) legati alla richiesta di liberazione di un militante di una importante fazione libanese. Poi ci sono gli attentati della metà degli anni ’90, legati alla vicenda dell’appoggio francese al colpo di stato algerino, che provocano diversi morti. Esplosioni di bombe rudimentali non certo con attacchi coordinati come quelli di venerdì 13.
Anche allora, come per Charlie Hebdo, la retorica della restrizione della sorveglianza, dello stanare i terroristi, della mano ferma che deve colpire anche all’estero se necessario ovviamente si è sprecata. Il punto è che, da almeno trent’anni, tutte le grandi criticità del medio oriente, in un modo o in un altro, hanno finito per manifestarsi sul suolo parigino. Da quelle rappresentate dagli sciiti del 1986 ai filo-sunniti della strage Charlie Hebdo. C’è solo da stupirsi del fatto, con la Francia in testa al bombardamento della Libia del 2011, non sia accaduto a Parigi qualcosa di direttamente proveniente dal paese nordafricano. Sugli attentati di venerdì 13, rispetto al passato anche recente, possiamo notare un salto di qualità. Stavolta la Francia rischia non tanto di importare attentati ma proprio una guerra in casa. E di esportarla in Europa.
Senza cercare di analizzare i dati e i fatti che neanche le autorità francesi hanno (provenienza reale degli attentatori, organizzazione del gruppo, logistica, fiancheggiamenti) è evidente, dalle testimonianze di chi era, ad esempio, al Bataclan che il legame tra attentati a Parigi e situazione siriana ed irachena l’hanno fatto gli stessi attentatori. Mentre sparavano agli ostaggi accusando Hollande di essere responsabile di tutto questo.
Ora, che in Siria la situazione sul campo, dopo l’intervento della Russia, sia cambiata è evidente. Come lo è quella dell’Iraq, con un’offensiva anti-Isis che si sta davvero formando. Senza applicare con fretta magliette e sigle agli attentatori, sia perché gli stessi francesi sono cauti sia perché l’attribuzione in questo contesto è sempre complessa, è evidente che i contraccolpi di queste mutazioni sono finiti in Francia. Non sotto la forma di un attentato classico ma sotto quella di un attacco coordinato – kamikaze allo stadio, esecuzioni di chi mangiava al ristorante, presa di ostaggi a teatro- che porta l’intero scenario parigino in zona di guerra. Del resto la guerra asimmetrica, come si sa da un ventennio, prevede attacchi classici nel paese più piccolo e risposte, in termini di attacchi alla popolazione, nelle strade del paese più grande. L’attentato allo stadio dove si giocava (da non dimenticare) Francia-Germania lo si è trascurato forse perché è sostanzialmente fallito. Tre kamikaze, rispetto alle potenzialità di un attentato del genere, hanno prodotto una tragedia a bassa intensità di morti. Ma ad alta intensità simbolica, a parte le scene dell’invasione di campo dei tifosi impauriti, con un messaggio preciso alla Germania.
Il punto sta quindi tutto sulla diffusione di questo atto di classica guerra asimmetrica. Se rappresenta il culmine di una strategia, fatta di attacchi coordinati, o l’inizio. Se rimane confinato in Francia, o all’abbattimento dell’aereo russo pieno di turisti, o si estende in Europa. Se risulta efficace sullo scenario siriano e iracheo o solo simbolico. Se rappresenta una risposta spettacolare alla perdita di eroi dello spettacolo bellico sul campo (Jihadi John tra tutti) o una precisa strategia militare di indebolimento della forza dello stato francese.
L’altro punto è che gli europei, presi nelle rispettive dimensioni autoreferenziali, non hanno capito bene di essere in guerra. A Parigi in tre casi – rue Bichat, Bataclan, stadio Saint Denis – i testimoni hanno raccontato di aver creduto, all’inizio, che si trattasse di petardi piuttosto che di sparatorie. E’ uno degli effetti del muro cognitivo che separa gli europei dai fatti che li riguardano: la crisi più importante dal ’29 sterilizzata in rappresentazioni fatte di grafici, e di dichiarazioni rassicuranti, che non capisce nessuno; Il medio oriente rappresentato solo come argomento di conferenze di pace che non finiscono mai. Per questo le ondate di profughi sono viste con particolare angoscia: portano addosso quel rimosso della crisi e della guerra che non si razionalizza altrimenti, tramite i discorsi ufficiali.
La situazione è talmente dura, e maledettamente complicata, che non valgono nemmeno le risposte tradizionali. E’ impossibile la pratica di un pacifismo tradizionale Peace & Love quando dall’altro lato del mediterraneo hai Isis. Infatti, saggiamente i movimenti appoggiano il popolo curdo. Mentre arcobaleno e arancioni di ogni origine balbettano già formule senza senso che tornereanno utili per legittimare le retoriche della guerra umanitaria.
Allo stesso tempo, i Terminator dell’occidente civilizzato dopo 15 anni di guerra in Afghanistan perdono campo e sono costretti a restare. Gli altri terreni di intervento diretto (Iraq) e indiretto (Libia) si sono rivelati vasi di pandora per forze che affermano, tra un bagno di sangue e l’altro, la propria autonomia. Una regola della guerra asimmetrica, i bianchi dovrebbero saperlo con le legioni di esperti che l’occidente mette a libro paga, è che lo scontro sul campo è sempre meno decisivo per determinare l’esito di una guerra. Basta leggere la guerra irachena e quella afghana al di fuori della propaganda. E così nel drammatico rompicapo dei questi anni il mondo promesso alla caduta del muro di Berlino, un globo pacificato dai commerci e dai profitti una volta tolta la minaccia di ogni socialismo, si rivela per quello che è. Una superficie abitata da signori della guerra –asimmetrica, convenzionale, finanziaria- destinata a durare fino a quando la logica del profitto non trova pace.
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