Di questi tempi andare al cinema e vedere un film intelligente e intenso non è facile, restituire attraverso il linguaggio visuale una sensazione istintiva dell’ingiustizia sociale di questo mondo lo è ancora meno. La legge del mercato del regista Stephane Brize è uno di questi. Nel film si racconta la nuda e angosciante storia di un lavoratore cinquantenne, Thierry, che perde il lavoro e si trova a dover sostenere il processo di reinserimento nel mercato del lavoro, sottoposto ad un continuo processo di valutazione del suo modo di essere, del portamento, dei suoi gesti, del suo vestiario, del suo profilo psicologico. L’elemento spersonalizzante è la chiave del film. Thierry deve rinunciare ad ogni forma di dignità, di rappresentazione individuale o collettiva, di fronte alla legge generale, “oggettiva”, delle regole che vanno non solo rispettate ma accolte con degradante entusiasmo. Ti devi vendere sul mercato con convinzione e dedizione imprenditoriale pur essendo solo uno schiavo salariato. Lavoro che a un certo punto riesce a trovare e che consiste nel fare la sorveglianza in un centro commerciale. Controllare i clienti, controllare gli stessi lavoratori, lo pone di fronte ad un continuo dilemma tra necessità e incompatibilità, soprattutto quando questo si esplicita in un controllo pervasivo dei suoi colleghi.
Un film in cui il protagonista vive drammaticamente e individualmente la lotta per la sopravvivenza, in cui la disumanizzazione delle relazioni sociali è il paradigma del tempo presente, in cui il tempo di vita è totalmente schiacciato sui tempi della legge di mercato che non è che la legge dei padroni. Non sembra esserci, apparentemente, speranza verso il riscatto, verso la riappropriazione della legge dell’uomo contro la legge di mercato, è a tratti angosciante, un pugno nello stomaco, oggi preferibile ad una narrazione tossica o minimalista delle ingiustizie rappresentate dal nuovo modello di mercato del lavoro. E’ segno contradditorio di un tempo della crisi e della mancanza di una rappresentazione collettiva del riscatto. E’ un film che lascia l’amaro in bocca ma che, attraverso la dura testimonianza della grigia vita quotidiana, rappresenta senza orpelli e didascalie la pervasività opprimente dello sfruttamento del lavoro, la sua scientifica governance.
Potremmo dire che manca di una visione del riscatto collettivo, di una possibilità di resistenza ma sarebbe troppo semplice prendersela con la pellicola da questo punto di vista. Il cinema come ogni altra espressione sovrastrutturale si alimenta delle forze materiali che agitano la storia e non potrebbe essere diverso. Oggi nell’Europa governata dal grande capitale finanziario non c’è ancora una risposta collettiva di rottura all’altezza dei tempi, e questo il vero nodo anche drammatico che un film come questo involontariamente rappresenta. Questa pellicola si inserisce allora a pieno titolo in quel cinema della crisi, della denuncia sociale senza risposta, il cui compito è quello proprio di rappresentare il mondo grande e terribile in cui ci troviamo. Ad altri spetta cambiarlo.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa