Due articoli – il primo del Corriere della Sera (Giuseppe Sarcina, “Obama: Trump mi attacca perché sono nero”, martedì 22 dicembre) il secondo del New York Times – commentano l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato alla “National Public Radio”, nel corso della quale è andato decisamente all’attacco di Donald Trump, il miliardario in corsa per la candidatura repubblicana alle elezioni presidenziali del 2016. Il Corriere si concentra sulle accuse di razzismo che Obama rivolge a Trump, anche se l’autore del pezzo sottolinea che, nell’ultimo dibattito fra i nove candidati repubblicani, nessuno (nemmeno Trump) ha rispolverato le vecchie insinuazioni in merito all’inaffidabilità di un presidente nero nella conduzione della lotta contro il terrorismo islamico. Invece il New York Times dà più peso (fin dal titolo: “Obama accusa Trump di sfruttare le paure della classe operaia”) alla polemica sulle sirene populiste che Trump utilizza per catturare il consenso dei bianchi poveri.
Il secondo argomento mi è parso decisamente più interessante, perché riguarda un nodo nevralgico dei conflitti sociali e politici dei Paesi occidentali degli ultimi decenni. Nell’intervista Obama riconosce che i mutamenti indotti dalla Nuova Economia hanno penalizzato in particolare i colletti blu, falcidiandone salari e livelli di occupazione e rendendone sempre più problematico il ruolo di capi famiglia. Non a caso, si sottolinea in un’altra parte dell’articolo, solo il 36% dell’elettorato bianco privo di educazione secondaria ha votato per lui nella campagna del 2012 che lo ha riconfermato alla presidenza. Ciò che colpisce, tuttavia, è soprattutto il fatto che Obama, mentre si affanna a dimostrare che le critiche sul suo modo di condurre la guerra all’Isis sono infondate, non spende parola per respingere le critiche sugli effetti che certe scelte di politica economica hanno avuto sulle condizioni di vita e di lavoro dei bianchi poveri, né accenna a cosa si dovrebbe fare per affrontarne i problemi. L’immiserimento dei colletti blu, insomma, viene considerato alla stregua di una catastrofe naturale, del prezzo inevitabile che il “progresso” economico impone alla società (un prezzo che, evidentemente, contempla anche la strumentalizzazione elettorale del fenomeno da parte della destra).
Questo è, del resto, il punto di vista condiviso da tutti i partiti della sinistra tradizionale in Occidente: dai Laburisti inglesi (fino alla svolta di Corbyn) ai Democratici italiani, dai Socialisti francesi ai Socialdemocratici tedeschi. La conversione liberista delle sinistre negli ultimi trent’anni ha fatto sì che il loro elettorato di riferimento siano divenute soprattutto le classi medie delle vecchie e nuove professioni, per il cui consenso competono con i partiti di centrodestra, mentre le vecchie classi lavoratrici (per tacere di precari e migranti) vengono abbandonate al destino che viene loro riservato dal “libero” mercato (oltre che attivamente penalizzate dai tagli alla spesa pubblica). Nessuno stupore, quindi, se Marine Le Pen raccoglie voti nelle vecchie roccaforti del Partito Comunista Francese, se una consistente quota del voto operaio italiano si riversa sul Movimento 5 Stelle o addirittura sulla Lega, se Podemos avanza impetuosamente in Spagna e se Trump spaventa l’establishment dei partiti tradizionali americani.
Il populismo non è un fenomeno degenerativo dei sistemi democratici, è la forma politica che la lotta di classe assume nell’era dell’economia finanziarizzata e globalizzata e della conversione liberista di tutte le élite tradizionali. Il fatto poi che esso assuma prevalentemente connotati di destra è la conseguenza del ritardo culturale delle sinistre radicali che, salvo eccezioni, sono apparse finora incapaci di comprendere questo inedito scenario e di sfruttarne le opportunità.
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