L’ultimo mese dell’anno ci ha riservato, all’ora del TG, un lungo telepanettone noir pieno di personaggi coloriti: er Cecato, er Ciccione, lo Spezzapollici ….
Un gradevole entertainment, che come ogni fiction che si rispetti ci propone un finale e una lettura degli eventi in definitiva rassicurante: il disastro della capitale, il collasso delle sue funzioni vitali sono frutto dell’attività criminale di un gruppo – sia pur nutrito – di biechi delinquenti, corrotti e corruttori ormai resi innocui dalla giustizia trionfante.
Disastro e collasso non derivano dunque da quelle scelte politiche che per decenni hanno nutrito deliberatamente la speculazione privata con tonnellate di denaro pubblico, a prescindere dall’esistenza o meno di mazzette e dal ricorso del potere economico a pratiche formalmente illegali.
La retorica della legalità è la narrazione necessaria affinché, una volta eliminate le “mele marce”, tutto ritorni come prima, o meglio, perché la speculazione si dia forme più moderne, più efficaci, meno grossolane. È una retorica che non entra nel merito del fatto che la devastazione sociale e quella dei territori possano avvenire anche a norma di legge.
Tutta questa enfasi sulle tangenti è riduttiva e fuorviante, perché c’è qualcosa di ancora più grave dell’aspetto corruttivo: un prezzo molto più alto da pagare ai detentori del potere economico. Lo pagano i territori in termini ambientali, lo paga il lavoro in termini di diritti, lo pagano le fasce più deboli di questo paese in termini di emarginazione sociale. E proprio sul business dell’emarginazione sociale, oggi al centro dell’inchiesta romana, che sarebbe ora di soffermarsi, facendo un bilancio di quelle politiche di sussidiarietà che nell’ultimo quarto di secolo hanno trasformato l’assistenza pubblica in un mercato, rendendola un settore vulnerabile alle scorrerie dei predoni.
Dalla fine degli anni ’80, il privato sociale ci è stato spacciato come l’alternativa vincente alla gestione pubblica del welfare, in nome di una presunta superiorità etica, economica e qualitativa del terzo settore. In realtà l’espansione della cooperazione sociale rappresentava un attacco frontale alle condizioni di lavoro nei servizi, in quanto le tutele dei soci lavoratori erano molto più basse della media del settore in termini di salario, diritti, stabilità occupazionale.
Rappresentava inoltre un modalità per costruire interesse privato anche sulla miseria, un interesse che, a differenza di quello pubblico, non trae convenienza dalla soluzione dei problemi sociali, perché è proprio il loro perdurare che gli reca vantaggio. Questa dinamica si è resa più evidente con lo sviluppo dei processi di concentrazione di impresa, con l’affermarsi cioè delle grandi centrali cooperative, organizzate in consorzi ed alleate in cartelli, ai danni delle piccole strutture di idealisti. Una trasformazione “industriale” che necessita di grandi numeri di assistiti. Non è un caso che questa tipologia del così detto no-profit abbia prosperato, e continui a prosperare, grazie a logiche di tipo emergenziale: l’emergenza immigrazione, l’emergenza nomadi, l’emergenza casa… l’emergenza infinita. L’emergenza è infatti il contesto che permette l’assegnazione diretta degli appalti e lo stanziamento di fiumi di denaro senza tante discussioni. Permette di operare su grandi numeri e non deve MAI risolversi o concludersi, perché altrimenti finisce il gioco.
Nell’ambito dell’emergenza sociale permanente, il business della sussidiarietà si è dimostrato nel tempo non solo pienamente compatibile, ma anche intimamente interrelato con le politiche securitarie, le derive xenofobe, la trasformazione dei bisogni umani in problemi di ordine pubblico. Non risulta dunque strano che, nella specificità romana, esso abbia raggiunto il suo punto di massimo sviluppo sotto la giunta Alemanno, che proprio della “lotta al degrado” e della “zero tolerance” aveva fatto la sua bandiera.
L’emergenza infatti, è benvenuta qualunque ne sia l’origine. A volte capita per eventi esogeni, come l’arrivo di migliaia di profughi in fuga dalle molteplici guerre che, in concorso con i nostri tradizionali alleati, ci dilettiamo a fomentare in giro per il mondo.
A volte è l’effetto collaterale di lungo periodo di leggi antisociali, come quella che ha abolito l’equo canone (un regalo del governo D’Alema), lasciando milioni di inquilini alla mercé della rendita immobiliare, e migliaia di loro nell’impossibilità di pagare un affitto a prezzi di mercato.
A volte invece è il prodotto immediato dell’attività repressiva, come gli sgomberi di grandi occupazioni abitative, che creano folle di senza casa da un momento all’altro. Oppure delle “politiche della razza” (scusate se uso di proposito la terminologia fascista, so bene che le razze non esistono), come la deportazione di rom e sinti dentro fetidi recinti nelle estreme periferie.
In tutti questi casi la cooperazione sociale c’è, pronta a correre verso l’aggiudicazione degli appalti e a chiamarla solidarietà. Vano sostenere che la vera solidarietà sarebbe opporsi agli sfratti, agli sgomberi e alle deportazioni … ma non sottilizziamo !
E piuttosto entriamo nel merito, perché più che queste valutazioni di ordine generale, sono eloquenti le storie concrete. Come punto di osservazione privilegiato prenderemo la situazione romana, perché è lì che le contraddizioni sono esplose in maniera più emblematica, e lo faremo a partire dalle storie dei due grandi contraenti di quel cartello che fino ad ora ha gestito gli appalti dei welfare della capitale in regime di sostanziale oligopolio. L’operazione è tanto più interessante perché, mentre uno dei due è alla gogna per illegalità manifesta, l’altro è invece rimasto nel regno dell’economia rispettabile. Eppure, tranne qualche particolare, hanno fatto più o meno le stesse cose.
Per cominciare, partiamo dall’antica Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone. E si, perché è proprio l’Arciconfraternita, con le sue cooperative di pertinenza, uno dei soci del trust. O forse pensavate che a due passi dal soglio di Pietro l’accoppiata Buzzi/Carminati potesse avventarsi sugli appalti di servizi senza previa santissima benedizione e – soprattutto – senza condividere cristianamente la torta ?
I termini del sodalizio sono noti: “Va be’, a Salvato’, noi l’accordo… l’accordo è quello al cinquanta, no? …eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?”. Così come è noto il siluramento congiunto di una dirigente del Comune di Roma poco disponibile alle loro pressioni: “ ma no, ma questa è una cretina, ma non è possibile, no? Che non te riceve, non te parla, non parla con nessuno, ma è una deficiente vera, ma ‘ndo cazzo vive? Cioè, ma… ma veramente tocca mandarla a sbatte, eh!”. Queste le conversazioni che coinvolgono Tiziano Zuccolo, ai tempi camerlengo dell’Arciconfraternita, Francesco Ferrara, che ne era presidente, e Salvatore Buzzi, presidente del Consorzio Eriches/Coop 29 giugno nonché braccio economico di Carminati.
Ma qual è la novità ? Che le cooperative di Comunione e Liberazione e quelle di Legacoop si spartiscono gli appalti? Che insieme determinano la nomina dei funzionari comunali? Se è per quello determinano pure la nomina dei ministri della Repubblica, non solo Poletti in quota Lega, ma anche Lupi, come mandatario della Compagnia delle Opere.
Quello stesso Lupi che con il Piano Casa dichiara guerra alle occupazione abitative e prelude alla vendita massiva degli alloggi popolari. Vale a dire: nuove folle senza dimora, nuova benzina sul fuoco dell’emergenza casa, nuovi introiti per le cooperative chiamate a gestirla e per i palazzinari loro alleati. In nome, ovviamente, della legalità. (Continua)
da Carmilla online
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