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Senza alternative? L’anelasticità mentale del tempo presente

Questo articolo di Aldo Giannuli coglie la fissità nelle risposte “istituzionali” a problemi creati dalla stessa attività delle istituzioni globali, sovranazionali, nazionali, ecc.

La sua impostazione è quella dello storico, e da questo punto di vista risulta molto utile. Potremmo aggiungere una ipotesi di spiegazione per quella “anelasticità” che risulta singolarmente incomprensibile in  sossetti che predicano ogni giorno “maggiore flessibilità” ai loro sotto posti. Come se soltanto per loro la flessibilità fosse un movimento impossibile.

La ragione è sostanzialmente sistemica, a nostro avviso. Quel che è “anelastico” è infatti il modo di produzione capitalistico, una macchina impersonale che travolge continuamente tutto ciò che crea o che incontra, ma che – proprio per questo – esclude da qualsiasi cambiamento il proprio nucleo-motore. L’effetto è dunque simile a quello che si riscontra nelle tossicodipendenze o nell’alcolismo. Al malessere creato dall’assunzione di droga o alcool si risponde aumentando le dosi assunte. E non serve un genio della sanità per capire che il vero malessere sta nell’impossibilità di vivere pienamente in questo contesto.

Buona lettura…

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Nonostante le ripetute emissioni di liquidità, l’economia reale non si è ripresa, che si fa? Risposta: una nuova e più abbondante emissione di liquidità, a interessi zero e sempre alle banche. L’Unità europea è palesemente fallita, l’Euro è una camicia di forza e i paesi europei, politicamente, vanno ognuno per proprio conto, che si fa? Risposta: ci vuole più Europa. La guerra al terrorismo islamico non dà  nessun risultato dopo 15 anni, che si fa? Risposta: le stesse cose di prima, nello stesso modo di sempre. Potremmo continuare a lungo, ma ci sembrano tre esempi sufficienti a dimostrare che siamo in presenza di una vera e propria incapacità delle classi dirigenti di riconoscere i dati di fatto e modificare i comportamenti. Cosa, per la verità, non nuova nella Storia, ma questa volta, probabilmente, più sfacciata, sino a giungere a livelli di assoluta stupidità, come nel caso della lotta al terrorismo islamico, dove c’è una vera e propria gara a chi la fa fesseria più clamorosa.

Si tratta di un comportamento collettivo ed istituzionalizzato che non può essere spiegato come semplice stupidità individuale o come frutto di una qualche macchinazione di cui ci sfuggono le ragioni, ma che certamente è ordita da un potere nascosto. La spiegazione è insieme più semplice e più complessa ed è la risultante di una singolare congiuntura storica in cui si intrecciano vari fattori, in primo luogo (ma non solo) di natura socio-istituzionale. Modificare una prassi richiede a volte un cambiamento nei rapporti di forza ovviamente sgraditi a chi, nel cambio, ci perde.

E’ il caso dello scontro con lo jhiadismo: con la fine della Guerra Fredda, i servizi di informazione e sicurezza temettero un secco ridimensionamento del proprio peso nei sistemi di potere occidentali (salvo che per il tema della guerra economica), per cui, la comparsa della nuova “minaccia globale” giunse provvidenziale a salvare bilanci e peso istituzionale che, anzi, crebbe. Nella guerra fredda il potere politico non abdicò mai al suo ruolo di direzione, mentre contro il terrorismo islamista, anche a causa dell’assenza di uno stato con una base territoriale da colpire, decise di dare delega piena ai servizi (tanto militari quanto di polizia) che esercitano tuttora la direzione incondizionata dello scontro. Per di più, le caratteristiche del conflitto, determinano un sostanziale monopolio dell’informazione ai servizi che raccontano ai governi quel che gli pare (come è emerso nello scontro fra Obama ed il Pentagono nei mesi scorsi). E quando anche questo non bastasse, i servizi hanno altri mezzi per convincere l’eventuale politico riottoso ma con qualche scheletro nell’armadio.

Ancora di più si accentuano le resistenze al cambiamento se la rettifica dovesse investire il modello stesso del sistema, ed è il caso della crisi economica: riconoscere che la liquidità non risolve nulla e che occorre ridimensionare ruolo e peso della finanza, rimettendo al centro l’economia reale, implicherebbe un ridimensionamento del potere di banche e società finanziarie  che, ovviamente, non vogliono saperne ed hanno una forza di pressione sul sistema politico in grado di bloccare cambiamenti anche più modesti (basti ricordare che fine ha fatto il progetto di riforma della finanza promosso da Obama nel 2009). E dell’Europa non c’è bisogno di dire: mettere in discussione l’ardita architettura del potere che regge la Ue e la Bce significherebbe mandare a spasso la legione di parassiti che alberga nei palazzi di Strasburgo, Bruxelles e Francoforte: le migliaia e migliaia di eurocrati nullafacenti, dediti ad un ipernormativismo ossessivo ed inconcludente oppure a tiranneggiare l’economia europea in nome del Dio-Euro.

Queste ragioni, riconducibili agli assetti di potere esistenti hanno ricevuto sostegno dalla vulgata creatasi dopo la fine dell’Urss. Usa e neo liberisti vari hanno celebrato la sconfitta del campo rivale come la conferma della sostanziale giustezza delle proprie idee e come la delegittimazione di qualsiasi modello alternativo a quello capitalistico-liberal-liberista. Di qui l’idea di un modello unico cui conformare tutto il mondo e la delegittimazione di ogni critica al sistema. Il risultato è stato il “pensiero unico” che ha inaridito ogni dibattito politico ed economico, eliminando così ogni possibile alternativa anche solo teorica.  I neo liberisti sono gli stalinisti del capitalismo: quelli avevano il partito unico, questi il pensiero unico, il metodo è sempre lo stesso.

Questa decadenza culturale ha avuto gli effetti più evidenti nelle scienze economiche, dove è stata battuta ogni prospettiva macro economica (di per sé non necessaria ed anzi dannosa, data per scontata la capacità di autoregolazione del mercato), ma ancora di più nelle scienze storiche,dove hanno spazio solo i cantori del sistema (un nome per tutti: Niall Ferguson). A questo hanno validamente contribuito anche la maggioranza degli storici, anche di sinistra, che si sono limitati a ripetere i discorsi di sempre, senza avere il coraggio di misurarsi con i problemi storici del presente. E questo ha eclissato la storia dal dibattito politico, se non per noiosissime celebrazioni o manipolazioni opportunistiche.

Ma chi non sa guardare indietro, non sa guardare avanti  e questa assenza di dimensione prospettica ha finito con il confluire e rafforzare l’azzeramento di ogni capacità previsionale. Non esiste più il lungo periodo, una previsione a tre anni è il massimo che ci si può attendere. Trenta anni fa la Tatcher decretò “there is no alternative”, non c’è alternativa, appunto: si decretò la fine delle ideologie, cui fece seguito la fine dei valori, quindi la fine delle opzioni culturali. Ora sono finite le idee ed il risultato è un ceto politico omogeneo, dove non ha senso scegliere.

A questo poi occorre anche aggiungere le peculiarità psicologiche dell’epoca presente: la spiccata tendenza all’iper individualismo che azzera ogni noi, immaginando la società come una semplice sommatoria di io (“La società non esiste” disse una volta la Tatcher), il narcisismo esasperato che induce ad una sostanziale incapacità di riconoscere i propri errori e, dunque, correggerli, l’ossessione sicuritaria che produce uno stato ansioso permanente eccetera. Ma di questo parleremo in una prossima occasione.

 

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