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USA: violenza in casa, violenza fuori

Uomini armati appostati tra le auto e agli angoli delle case. Spari, sirene, le grida stupite e disperate dei passanti. Le immagini arrivavano da Dallas, terza città del Texas, nona degli Stati Uniti, il maggior centro economico della fascia meridionale degli Usa, ma avrebbero potuto arrivare da qualche periferia dell’America latina, se non dal Medio Oriente. Immagini di una guerriglia urbana vera, quella che ha lasciato sul campo i cadaveri di cinque poliziotti e di un attentatore. E anche in questo caso, si badi bene: l’uomo che ha colpito gli agenti aveva una preparazione militare ed era disposto a tutto. Altro particolare che ci porta lontano dall’Occidente, nella dimensione di scontri etnici e settari che da noi sembravano dimenticati.

E forse lo sbaglio è questo. Non tutto è stato dimenticato. Nei giorni prima di Dallas altri due neri americani erano stati uccisi da poliziotti bianchi. Uno in Louisiana, l’altro nel Minnesota. Quest’ultimo era incensurato e lavorava presso una scuola Montessori. Era seduto in macchina con la moglie e il figlio, con la cintura allacciata. Il poliziotto, che l’aveva fermato per un fanalino rotto, gli ha sparato quattro colpi al petto da distanza ravvicinata. Nel solo 2015 negli Usa quasi 600 persone sono state uccise mentre venivano controllate o arrestate. Di queste, più di due terzi erano neri. Nel 97% dei casi, gli episodi non hanno portato ad alcuna sanzione per i poliziotti.

Questo spinge quasi tutti gli osservatori a concludere che i neri americani soffrono di una pesante discriminazione, almeno da parte delle forze dell’ordine. E che tale discriminazione è accettata dal sistema, che la legalizza di fatto rifiutando di punire gli agenti. Tale era di certo il pensiero dello sparatore di Dallas, che ha inteso così vendicare i torti subiti dai neri.

Usa, dieci anni di stragi

Dovremmo però chiederci se la questione non sia un po’ più complessa e forse anche più drammatica. È normale che una società democratica, sviluppata e in ripresa rispetto alle recenti crisi (nel solo mese di giugno sono stati creati quasi 300 mila nuovi posti di lavoro), culturalmente e tecnologicamente all’avanguardia come quella Usa, esprima una tale carica di violenza? I dati ci dicono che il 70% dei neri e l’81% dei bianchi uccisi l’anno scorso dai poliziotti era armato. Anche Philando Castile, l’uomo di 32 anni ammazzato in Minnesota nella sua auto, era in possesso di una pistola, regolarmente denunciata. Ma che ci fa, in giro per le strade, così tanta gente armata?

È la stessa domanda che ci si pone di fronte alle stragi senza spiegazione che punteggiano la storia recente degli Usa e che hanno falciato molti più americani del terrorismo, islamico e non. Secondo i dati del Center for Disease Control and Prevention, tra il 2004 e il 2013 negli Usa sono morte per colpi di arma da fuoco quasi 320 mila persone. Anni in cui è diventato sempre più facile comprare armi da guerra: con qualche tiepido controllo presso gli armaioli, in libertà nelle fiere e su internet. Omar Mateen, l’uomo che tre settimane fa ha ucciso 50 persone in un locale di Orlando (Florida), era sospettato di attività terroristiche ma era riuscito a procurarsi un fucile semi-automatico. Lasciamo perdere le fandonie sulla “frontiera” e sullo spirito di avventura e chiediamoci: è normale?

E che cosa si deve pensare della volontà politica e dei poteri reali di un presidente come Barack Obama, che in otto anni non è riuscito a mettere un freno né alla violenza diretta dei poliziotti né a quella indiretta dei venditori di armi. È la Casa Bianca che comanda negli Usa oppure no?

Viene da chiedersi se questa attitudine degli americani tra loro non influenzi anche il loro rapporto con gli altri. E cioè se tutta quella violenza non detti poi scelte come la guerra in Iraq nel 2003 o quella in Libia nel 2011. Disastri dove la smania di menare le mani è stata di gran lunga superiore alle capacità di previsione e programmazione politica. Se, in altre parole, forza e grinta non siano strumenti sopravvalutati quando si tratti di gestire una società complessa come quella americana, e un mondo ancor più complesso come quello in cui tutti quanti ci troviamo a vivere.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 9 luglio 2016

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