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Assange, la dietrologia e Putin

La dietrologia italiana è figlia minore – e alquanto minorata – della necessità bellica di demonizzare il nemico. Al tempo in cui il mondo, come si diceva, era “diviso in due”, ogni avvenimento veniva inquadrato come pro o contro la “nostra” parte, e dunque come azione dei nostri amici o dei nostri nemici.

Mondo semplice davvero… In questa partizione manichea in senso stretto si perdeva la capacità di distinguere (la potenza dell'intelletto, diceva qualcuno) la molteplicità di soggetti che agiva autonomamente all'interno di ciascun campo, per ragioni che spesso poco avevano a che fare con gli “interessi del nemico”.

Negli anni '70 italiani ne abbiamo avuto una dimostrazione alquanto greve e idiota, che ha lasciato un segno maleodorante permanente nel discorso pubblico di questo paese, impedendoghli di fare i conti seriamente con le proprie contraddizioni.

Nel mondo attuale, decisamente multipolare a seguito della rapida perdita di “egemonia” da parte dell'imperialismo “classico” – quello statunitense -, quella chiave di letura non funziona e non può più funzionare. Basta guardare le giravolte mentali, un po' troppo bastarde, fatte intorno alla resistenza del popolo curdo; come se risultasse inconcepibile che un intero popolo lotti per difendere innanzitutto se stesso e le proprie istituzioni liberamente assunte, e non per conto di qualcun altro. Come se risultasse impossibile capire che i soggetti – gli imperiaslimi o sub-imperialismi – in campo sono più d'uno, e in lotta fra loro.

Dal vizio dietrologico – chi intralcia i miei interessi è un agente del nemico – non sono mai certo stati immuni gli Stati Uniti, che da decenni qualificano come “grande satana” e “nuovo hitler” ogni avversario, piccolo o grande che sia, persino ex collaboratori della Cia (Noriega, a Panama) o ex alleati mediorientali (Saddam, per esempio). Ma arrivare a qualificare il povero Julian Assange, ex fondatore di Wikileaks, da anni rifugiato nell'ambasciata ecuadoriana di Londra, come un “agente di Putin”… è segno di una mancanza di fantasia, anche nel partorire uno storytelling credibile, che dà la misura della crisi dell'imperialismo Usa. O meglio: è segno che la retorica corrente sta assumendo, su qualsiasi problema, le modalità e i toni della guerra. Perché la guerra sta diventando "attuale"…

E anche il vicedirettore di Famiglia Cristiana, Fulvio Scaglione, coglie l'occasione per sbertucciare come si conviene questa ossessione ormai ridicola.

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Assange spia di Putin? Suvvia…

Sorprende qualcuno che il New York Times si scagli contro Julian Assange e appiccichi aWikileaks, il sito da lui creato per la rivelazione di materiali segreti, l’etichetta di “lavanderia” di notizie a uso e consumo del Cremlino e di Vladimir Putin? Proprio no. E nemmeno sorprende che la stampa italiana riprenda il presunto dossier del giornale americano senza farsi troppe domande: l’assioma “la Clinton è comunque meglio di Trump” giustifica tutto, ormai.

E allora andiamo a vedere le cose un po’ più da vicino. Intanto: quello del New York Times non può proprio essere chiamato “dossier”. Non ci sono notizie e nemmeno novità. Illazioni a volte argomentate, opinioni più che legittime. Ma notizie no. E infatti gli articolisti delNew York Times a un certo punto sono costretti a citare il parere di anonimi “funzionari” del Governo Usa i quali dicono, o avrebbero detto: siamo convinti che Assange non lavori per i servizi segreti russi ma che le sue rivelazioni spesso vadano a favore del Cremlino.

Per il giornale newyorkese, però, Assange è filorusso. E una delle “prove” sarebbe questa: l’hacker australiano ha “una posizione decisamente filo-russa sugli eventi in Ucraina” perché ha dichiarato a una testata argentina che “gli Usa hanno fomentato i disordini in Ucraina per portarla nell’orbita dell’Occidente e sottrarla all’influenza russa”. Perbacco! È solo quello che due terzi dell’umanità pensano. Ed è quello che persino Victoria Nuland, vice-segretario di Stato Usa, ha di fatto ammesso quando ha detto che “gli Stati Uniti hanno appoggiato gli ucraini nello sviluppo di istituzioni democratiche nello sviluppo di capacità atte a promuovere la società civile, una buona forma di governo e quanto può rivelarsi necessario per raggiungere gli obbiettivi di un’Ucraina europea. Abbiamo investito più di 5 miliardi di dollari per aiutare l’Ucraina a raggiungere questi ed altri obbiettivi”.

Altra curiosità del presunto dossier è che il New York Times, mentre demonizza Assange, tesse l’elogio di Edward Snowden, l’ex contractor della Nsa (National Security Agency) americana che nel 2013 rivelò come i servizi segreti Usa spiassero mezzo mondo, a cominciare dai più fedeli alleati. Con la differenza che Assange è chiuso da quattro anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra mentre Snowden gode di asilo politico…a Mosca!

Sempre per rimanere ai due. I guai giudiziari di Assange cominciarono proprio in coincidenza con le rivelazioni del 2009-2010, quando Wikileaks pubblico migliaia e migliaia di documenti del Dipartimento di Stato allora diretto da Hillary Clinton. In quei cablo riservati veniva tra l’altro portata allo scoperto la doppia faccia della politica americana in Medio Oriente: nel riserbo degli uffici la Casa Bianca criticava i sauditi come finanziatori dell’estremismo islamico e del terrorismo, in pubblico garantiva agli stessi sceicchi grandi sorrisi, vendite di armi e protezione. Usciti quei documenti, all’improvviso arrivarono contro Assange non solo i mandati di cattura della giustizia americana ma anche, dalla Svezia, le denunce per violenza carnale. Ora, a campagna presidenziale in corso, Assange l’ha rifatto: con la pubblicazione di migliaia di mail della direzione del partito democratico, ha fatto sapere che lo stesso Partito non ha mai avuto intenzione di far gareggiare Bernie Sanders e la Clinton su un piede di parità, ma ha fatto di tutto per sabotare il primo e garantire alla seconda, perfettamente al corrente dei maneggi, un’agevole nomination. È chiaro che il New York Times, che da mesi spara a palle incatenate contro Trump e batte il tamburo per la Clinton, non può impazzire d’amore per Assange. E ripete l’operazione di sputtanamento non più accusando Assange di essere un violentatore ma bollandolo come collaboratore del perfido Putin.

E il Cremlino? I servizi segreti russi? Gli hacker dell’Est? Per carità, è tutto possibile. Anzi, è probabile che Putin e i suoi un’occhiata in certi maleodoranti ripostigli della politica americana la diano più che volentieri. E magari non solo in quelli, se è vero (come molti pensano) che siano stati proprio i servizi segreti russi ad avvertire Erdogan dei progetti golpisti dei militari turchi. Però non dimentichiamo che, come si dice, “con le brache calate” finora sono stati colti Barack Obama e Hillary Clinton. Il primo, e lo sappiamo senza ombra di dubbio dai documenti pubblicati da Edward Snowden, aveva fatto mettere sotto ascolto i cellulari di leader legittimi e democratici come Angela Merkel e Francois Hollande e faceva spiare dalla Nsa i Governi di cinque continenti. Per primi, è il caso di ripeterlo, quelli europei, anche se più che comprensivi con le esigenze e le strategie degli Usa. La seconda, cioè la Clinton, anche a lasciar perdere le porcherie emerse con Wikileaks nel 2010 sul Medio Oriente e due mesi fa con gli intrighi del Partito Democratico, è comunque quella che ha fatto sparire nei suoi computer privati migliaia di mail compromettenti sulla crisi della Libia. E questo ce l’ha detto l’Fbi, non il primo hacker di passaggio.
 

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