Dovrebbe esserci una qualche differenza tra solidarietà internazionale e analisi degli eventi. Eppure, quando si parla di guerra civile internazionalizzata creatasi dal tentativo di destabilizzazione interna in Siria, così come di Turchia e di imperialismi statunitensi nel Mashreq, tutto viene ridotto alla questione curda, importante ma che, slegata dal contesto e dall’analisi degli interessi in campo, non esaurisce la complessità della situazione. Le vicende del popolo curdo, nonostante la mitizzazione e il misticismo e talvolta la mistificazione ideologica, rappresentano uno dei tanti aspetti della vicenda siriana, che però è decisamente più articolato. E’ questa articolazione che viene persa per strada nella lettura degli eventi presente in certa sinistra. Inoltre, non vale solo per la Siria.
Quando si parlava del golpe contro Erdogan, molti sottolineavano le “conseguenze per i curdi”; quando sono state applicate le leggi speciali farlocche anti-Daesh in Turchia, idem; e così via, sviluppando una narrazione limitante ma che è decisamente “interessata”, vedremo in seguito perchè. In Turchia non esiste solo la questione curda: al contrario, è presente una frattura di classe ben più profonda, che divide la società e la sua politica, una frattura di cui fa parte anche la questione curda ma che, per le sue peculiarità, difficilmente può fagocitare tutto lo scontro sociale e politico turco nonché mediorientale. Lo scontro tra l’estrema sinistra e il potere turco non trova alcuno spazio nelle notizie condivise dal mondo della sinistra italiana, che riduce la lotta di classe turca a una vicenda esclusiva tra lo Stato e il Kurdistan, inframezzata dalle proteste della società civile veicolate dai media mainstream.
Scadere nell’etnicismo di un’analisi incapace di abbracciare un’ottica di classe rischia di comportare una totale cecità per quanto riguarda la comprensione del processo che sta vivendo la Turchia nel suo tentativo di crescita iper-liberistica e di conflitto capitale-lavoro; nelle dinamiche politiche dovute al semi-presidenzialismo prima, al controgolpe di Erdogan dal sapore di golpe poi; nel suo tentativo di guadagnarsi una posizione regionale andando contro gli Usa e aprendo dialoghi con la Russia, se necessario. Crediamo che per parlare di curdi, ma ancora meglio di prospettive rivoluzionare in Turchia, in Siria e nel Medio Oriente, si debba necessariamente affrontare tali questioni. In Turchia non esiste solo il Pkk (e varrebbe la pena analizzare gli effetti del processo di pace tra questi e lo stato turco ha avuto sul resto delle organizzazioni anticapitaliste); la questione siriana non è possibile ridurla allo scontro tra Daesh e curdi.
In questo momento stiamo assistendo all’ennesima aggressione da parte dell’esercito turco al popolo curdo del Rojava, che però non può essere ridotta solamente ad un episodio, fra i tanti, della secolare pulizia etnica nei confronti dei curdi, che tanto bene ha raccolto il governo Akp, spalleggiato peraltro da una società turca sempre più islamizzata. Deve essere inserito in un’ottica più ampia. Probabilmente l’aggressione turca al Rojava rappresenta il frutto di una merce di scambio all’interno del dialogo con la Russia, aperto a seguito delle tensioni tra Erdogan e gli Usa: lo Stato turco, che detiene il più grande esercito Nato dell’area e uno dei più numerosi al mondo, ha avviato la prima operazione a nome Nato senza la presenza né il beneplacito Usa.
Questo significa che le contraddizioni in termini di strategia stanno prevalendo sulle ragioni di tattica, in un primo tempo unitarie per quanto riguardava la destabilizzazione di Assad. I curdi dopo aver ricevuto una serie di offerte di alleanze da paesi come Israele, hanno scelto definitivamente di mettersi sotto l’egida americana, convinti che questi li avrebbe protetti meglio di tutti. E in effetti, da qualche mese è sotto gli occhi dei più il cambio di strategia nord-americana: Daesh, creatura costruita in laboratorio dalle potenze occidentali e in primis dagli Usa per destabilizzare la Siria e spodestare Assad, è nel frattempo platealmente sfuggito di mano, divenendo da possibile risorsa (abbattere Assad senza sporcarsi le mani) a concreto problema geopolitico internazionale, da risolvere più che da “amministrare”. Erdogan, il più importante sponsor locale di Daesh insieme all’Arabia Saudita, da risorsa pacificante si è trasformato anch’egli in problema. Erdogan non è più credibile come argine a Daesh.
Di qui, la serie di contraddizioni in seno all’imperialismo Nato tra Usa e Turchia. Il nemico assoluto Assad è stato spodestato nella speciale graduatoria occidentale da Daesh, non certo per ragioni morali o etiche, ma perché non conviene più. E’ anche attorno a questo conflitto interno all’imperialismo che può essere compresa la vicenda siriana. L’imperialismo, così come lo stesso capitalismo, non è tutto uguale, e trattare in maniera omogenea ciò che invece procede contraddittoriamente significa privarsi della possibilità di riconoscere i punti deboli del sistema.
Il popolo curdo ha ciclicamente cercato l’appoggio delle potenze imperialiste contro gli Stati costituiti dell’area per cercare di strappare territorio e concessioni politiche, senza mai peraltro riuscire nel suo intento. Il problema non è però questo, che anzi rientra in una certa capacità realpolitica di sfruttare debolezze e contraddizioni altrui per raggiungere i propri obiettivi. Le strategie e le tattiche dei curdi non rappresentano un problema, in questo senso. Sono scelte legittime, ancorché criticabili, di un popolo che lotta per la sua indipendenza e, in questo momento, l’unico popolo che lotta davvero contro Daesh e Erdogan.
La questione non è “prendere le distanze dai curdi”, e anzi la loro guerra va non solo appoggiata passivamente, ma anche attivamente, perché rappresenta il bastione più democratico e più conseguente nella lotta contro Daesh. Sgombriamo allora il campo da possibili equivoci in cui nuotano da una parte i fascisti e dall’altra certa “sinistra” post-moderna: la lotta curda contro Daesh è la parte più avanzata della resistenza popolare all’aggressione islamista-imperialista, una resistenza popolare prima di tuttointerna alla società araba, nonostante i farfugliamenti ideologici che descriverebbero l’Occidente “in prima linea” contro l’estremismo islamico. Il problema allora risiede nel “filo-curdismo” occidentale, che ha fatto dell’esperienza del Rojava l’esempio politico da seguire, il paradigma per la ricostruzione di una nuova sinistra anche in Europa.
Qui sorgono tutta una serie di problematiche politiche che non possono essere taciute.
Il modello politico sperimentato in Rojava ricalca la linea politica del Pkk, un partito che nel corso del tempo è andato incontro ad un processo di profonda revisione politica dei suoi obiettivi, dei suoi metodi di lotta, delle sue proposte, dei suoi orizzonti. Un processo revisionistico che non ha semplicemente ammodernato l’apparato politico-ideologico di un partito marxista-leninista, cosa assolutamente necessaria dopo il 1989 – intendiamoci – ma che ha rotto con l’esperienza comunista per proseguire per altre strade, su altri percorsi, opposti e non intersecanti la sinistra anticapitalista.
Tutte “svolte” legittime inserite nel contesto curdo, ma allo stesso tempo criticabili se prese a modello per “la sinistra” antagonista (non utilizziamo il termine rivoluzionaria perché non esiste, al momento, alcuna “sinistra rivoluzionaria” in Occidente) nel suo complesso. E’ un processo d’altronde che va avanti da più di vent’anni, non da ieri, e che quindi è stato ormai assimilato dal Partito dei lavoratori curdo, dalla società curda che si ritrova nelle esperienze democratiche legate a quel movimento, e da quella sinistra che ritrova ancora nel Pkk un modello politico.
Non entreremo nel merito della critica al confederalismo democratico, così come non vaglieremo le proposte di ecologismo sociale e di municipalismo libertario che contraddistinguono il programma del Pkk e del Rojava. Sono questioni aperte e dibattute da anni, e che fanno parte di quell’insieme di teorie neo-anarchiche molto in voga (e molto seducenti) dopo il 1989. Analizzarle nel concreto richiederebbe troppo tempo e spazio e porterebbe la discussione molto lontano e fuori dal cuore del problema che qui ci interessa discutere. La critica a quel tipo di sinistra è d’altronde al centro del nostro discorso politico di fondo. Il problema, come detto, è tale modello applicato alla sinistra europea e al resto dei movimenti di resistenza e/o di liberazione anche nel Medioriente.
Il nocciolo della questione è che questo tipo di sinistra, questo modello politico post-moderno, che non ha alcuna ambizione di presa del potere, che non mira alla sovranità statale, che rifiuta pensieri forti e sistemi di pensiero strutturati, che eleva tematiche importanti ma parziali a orizzonte di valore (dall’ecologismo al femminismo), che si accontenta di nicchie autogestite senza connessione con la generalità dei rapporti sociali e di potere, esiste già da vent’anni. E’ la sinistra italiana, nelle sue variegate forme. Perché andare a cercarla in Kurdistan?
Il processo revisionistico a cui è andato incontro il Pkk altro non è che una parte del processo revisionistico che ha investito la sinistra europea nel suo complesso. Per non fraintenderci: quando parliamo di processo revisionistico non alludiamo alla necessaria e improcrastinabile operazione di ri-organizzazione politica e ideologica che partiti e movimenti comunisti avrebbero dovuto compiere di fronte alla sconfitta storica dell’89 (una sconfitta che in realtà iniziava ben prima del 1989 ovviamente).
Chi ci legge sa quanto siamo i primi critici di chi ancora oggi propone soluzioni politiche fondate su paradigmi ormai ultra-superati, come “costituenti rosse”, micro-partiti ml, certe rigidità ideologiche fuori tempo massimo, massimalismi parolai, eccetera: operazioni macchiettistiche testimoniali che suscitano, nel migliore dei casi, bonaria simpatia, ma che di certo non cambiano di una virgola lo stato di cose presenti nella sinistra di classe.
Con “processo revisionistico” intendiamo il rapido adeguamento di certa sinistra al corso degli eventi e allo spirito dei tempi, che imponeva e impone tutt’oggi la svalutazione generale del processo di liberazione delle classi subalterne dal 1789 al 1989, con i suoi variegati annessi e connessi: la fine di ogni orizzonte alternativo al capitalismo, che può essere migliorato ma mai superato; la fine del conflitto e della forza come strumenti legittimi della lotta politica; la fine delle ideologie e delle differenze politiche in nome del tecnicismo a-politico fondato sui pensieri deboli e ultra-relativistici; il “libero mercato” come entità data e immutabile, da assecondare e non da governare; il primato dell’economia sulla politica; la fine delle “grandi narrazioni”; la dittatura del particolare sul generale, e della forma sulla sostanza; e molti altri eccetera.
Il Pkk, certo non svaccando come il resto dei partiti occidentali e anzi immaginando percorsi realistici nel particolare contesto in cui si trova ad operare, si è accodato ad un idem sentire molto in voga negli anni Novanta, caratterizzati infatti da un altro dei miti fondativi della sinistra post-moderna, lo zapatismo. Anche qui, occorre precisare: non è in discussione la sacrosanta lotta di resistenza delle comunità Maya del Chiapas contro lo Stato messicano, i loro modelli di autogoverno e di democrazia diretta, il loro tentativo di creare zone di contropotere territoriale in guerra col capitalismo messicano. Sono esperienze di lotta che rivelano la dignità di comunità storicamente spogliate di tutte le loro ricchezze materiali e umane. Sono anche affascinanti, esotiche, mitopoietiche e via dicendo.
Il problema non è (era) il Chiapas e l’Ezln, ma lo zapatismo occidentale, che utilizzava gli zapatisti veri nella sua resa dei conti con un’altra sinistra, quella ancora legata a certi schemi politici del Novecento che non riuscivano più a rispondere alla necessità di ri-organizzazione del campo del lavoro dipendente salariato. Passata la moda zapatista, è oggi il turno dei curdi, che rispondono, nel piccolo gioco della sinistra europea e soprattutto italiana, allo stesso leitmotiv: vengono usati come modello seducente per risolvere i conti nelle contraddizioni interne alla sinistra.
Che sia una scelta ideologica appare evidente anche da un piccolo fatto però rivelante: pochi giorni fa si firmava lo storico accordo tra le Farc e il governo colombiano. Stiamo parlando della più estesa, influente e importante guerriglia comunista presente al mondo in questo momento, attiva da cinquant’anni, modello di riferimento per una parte importante della sinistra latinoamericana, appoggio fondamentale per la nascita dell’esperienza del bolivarismo venezuelano. Nessuno, a sinistra, sembra essersene accorto (ovviamente esclusi i soliti noti, trattati come simpatici mattacchioni col chiodo fisso). Nessuno, più in generale, sembrerebbe essersi accorto delle Farc, della feroce repressione dei governi fascio-liberisti colombiani, del dibattito che ha generato quel movimento politico, sulle soluzioni collettive escogitate per terminare un’esperienza (la lotta armata), senza cedere un millimetro al potere colombiano.
Come evidente, sono scelte politiche. Si sceglie chi appoggiare, a chi dare risalto, per fini, ci teniamo a ribadirlo, di polemica interna. E’ giusto che sia così, se rivendicato: ognuno sceglie i propri modelli. Quando avviene furbescamente e ambiguamente, assume un altro valore, decisamente più squallido.
Il problema è che se nel 1994 era possibile cascare nel tranello ideologico del camminare domandando, vent’anni e passa dopo aver sperimentato in lungo e in largo gli orizzonti di gloria della neo-sinistra post-moderna, ricadere nell’errore sarebbe quantomeno diabolico. Detto altrimenti, o si riparte da una seria capacità autocritica che metta in discussione quel tipo di approccio, che, tra parentesi, portò a Genova e alla catastrofe successiva, che vide la fine, almeno in Italia, di ogni concreto e credibile movimento sociale di massa, oppure saremo costretti a rivedere sempre lo stesso film, quello di una sinistra “moltitudinaria”, “ecologista”, “arcobaleno”, “leggera”, eccetera, che si propone come nuovo quando è sempre lo stesso ormai datato paradigma che ripropone se stesso. Di sconfitta in sconfitta, senza neanche il sogno di una vittoria finale neanche più ormai immaginata.
La lotta curda contro Daesh è importante, va appoggiata e sostenuta come merita e rivendicata nel modo migliore. Ma evitiamo di utilizzarli nelle nostre rese di conti interne a una sinistra che proprio per questi motivi è definitivamente tramontata dal novero delle opzioni politiche credibili e praticabili. Almeno qui in Italia.
da http://www.militant-blog.org/
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enrico
D'accordo per quanto riguarda il discorso dell'utilizzo di curdi e EZLN a casa nostra. Altra cecità voluta, oltre alle Farc e allla disattenzione cronica sul Venezuela e su Cuba èè quella sul Donbass, veramente vergognosa in quanto trattasi di guerra europea pressochè diretta.
Non sono d'accordo sul fatto che i Curdi sono gli unici antagonisti di Daesh. L'esercito siriano è quello che sostiene questo scontro quasi per intero, aiutato da Hezbollah e potenze internazionali come Russia Iran e Cina. Non bisogna dimenticarlo, perchè porterebbe anche a una seconda semplificazione, che un esercito male armato e col contagocce potrebbe uscire vincitore in questo confronto.
Lo sanno anche i curdi, dei quali la dirigenza, o solo una parte, ha scelto di appoggiarsi sull'alleato strutturalmente più infido e compromesso, vero portatore di conflitto, invece che scegliere uno strategico tavolo di negoziazione costituente con le forze siriane anti Daesh in vista di un assetto futuro che non prevede lo smembramento della Siria ma una casa comune con autonomie contrattate e garantite (unico futuro al posto del tutti contro tutti). Credo sia un errore strategico evidente e che i curdi lo pagheranno. La critica deve fondarsi anche su questo, poi si può avere torto o ragione, come osservatori, senza volere dare lezioni. In fondo facciano un po' come vogliono.